Ultime dalla Cassazione

Sentenze e massime della Corte di Cassazione - Ultimi orientamenti giurisprudenziali.
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venerdì 27 febbraio 2009

PRESCRIZIONE DEL REATO - NORME TRANSITORIE - PENDENZA DEL PROCEDIMENTO IN APPELLO IN CASO DI SENTENZA DI ASSOLUZIONE - INDIVIDUAZIONE

In tema di prescrizione, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie previste dall’art. 10, comma terzo, della L. 5 dicembre 2005, n. 251, quando il giudizio di primo grado si sia concluso con una sentenza di assoluzione, il momento determinante per stabilire la pendenza del procedimento in appello è dato dall’emissione del decreto di citazione per il giudizio ex art. 601 cod. proc. pen.

Testo Completo:
Sentenza n. 7112 del 25 novembre 2008 - depositata il 18 febbraio 2009(Sezione Sesta Penale, Presidente G. De Roberto, Relatore G. Fidelbo)

PROCESSO TRIBUTARIO - C.T.U. - DISPOSTA IN PROCEDIMENTO PARALLELO - PRODUZIONE - AMMISSIBILITA'

La S.C. ha affermato che nel giudizio tributario avente ad oggetto il ricorso avverso la rettifica del reddito di impresa ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, va ammessa la produzione di una relazione tecnica relativa ad una consulenza d'ufficio disposta nell'ambito di un parallelo procedimento concernente le medesime questioni, ancorché ai fini dell'IVA.

Testo Completo:
Sentenza n. 2904 del 6 febbraio 2009(Sezione Tributaria, Presidente F. Miani Canevari, Relatore G. Carleo)

GIURISDIZIONE - SALUTE - SPESE MEDICHE ALL'ESTERO

Con riferimento alla richiesta di rimborso di spese sanitarie sostenute da cittadini residenti in Italia presso centri di altissima specializzazione all’estero per prestazioni non ottenibili tempestivamente in Italia in forma adeguata, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, sia che siano dedotte situazioni di eccezionale gravità e urgenza ostative alla preventiva autorizzazione, sia che l’autorizzazione sia stata chiesta e negata, atteso che viene in considerazione il diritto alla salute, non suscettibile di essere affievolito dalla discrezionalità tecnica dell’amministrazione nell’apprezzamento dei presupposti per l’erogazione delle prestazioni.

Testo Completo:
Sentenza n. 2867 del 6 febbraio 2009(Sezioni Unite Civili, Presidente S. Mattone, Relatore A. Amatucci)

PROCESSO CIVILE - SPESE GIUDIZIALI - CONDANNA PER COLPA GRAVE

Per la prima volta la Corte ha condannato la parte soccombente ad una somma ulteriore, equitativamente determinata, ravvisando – ai sensi dell’art. 385, u.c. c.p.c., come novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006 – un’ ipotesi di colpa grave. Il ricorso per cassazione era stato proposto in forza di procura generale rilasciata in data antecedente alla sentenza impugnata; i presupposti della colpa grave sono stati ravvisati nel carattere evidente e testuale del requisito della procura speciale e nella circostanza che è assolutamente consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui è indispensabile la posteriorità della stessa rispetto alla sentenza impugnata.

Testo Completo:
Sentenza n. 2632 del 4 febbraio 2009(Sezioni Unite Civili, Presidente G. Prestipino, Relatore U. Goldoni)

mercoledì 25 febbraio 2009

MISURE CAUTELARI - PERSONALI – REVOCA – INTERESSE ALL’IMPUGNAZIONE – PROSPETTATO DIFETTO DI DOMANDA - SUSSISTENZA

Le Sezioni unite, dopo aver statuito che permane l’interesse all’impugnazione, pur dopo la revoca medio tempore del provvedimento applicativo della misura coercitiva ed ai fini del giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione, anche quando la censura attenga alla prospettata carenza di domanda cautelare, hanno affrontato la questione dell’eventuale incidenza processuale della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica sulla richiesta di misura cautelare personale proposta dal magistrato assegnatario o di un assenso accordato su una misura meno grave di quella richiesta. Premesso che il contrasto, in merito al se ed a quale misura cautelare personale richiedere, deve trovare soluzione all’interno del percorso delineato dalla legge ordinamentale e che si conclude, in assenza di un accordo, con la revoca dell’assegnazione, hanno stabilito che l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 106 del 2006, non è condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato assegnatario del procedimento, né di validità della conseguente ordinanza cautelare emessa dal giudice.

Testo Completo:

Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009- depositata il 24 febbraio 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Canzio)

RITENUTO IN FATTO

1. – Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova, sulla richiesta in data 13/12/2007 dei pubblici ministeri assegnatari del procedimento, disponeva con ordinanza del 4/2/2008 l’applicazione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di Novi Giovanni Giulio, indagato per plurime ipotesi delittuose (artt. 110, 353, comma 2, 317 e 640, comma 2 n. 1 c.p.). Come risulta dagli atti del fascicolo processuale, l’originaria richiesta reca in calce l’annotazione del procuratore della Repubblica del 17 dicembre, con la quale si esprime “dissenso” in ordine alla misura degli arresti domiciliari poiché “all’indagato, ultrasettantenne ed incensurato, sono addebitati reati commessi, senza fine di lucro personale, nella sua veste di presidente dell’autorità portuale, carica pubblica in scadenza tra circa quaranta giorni (è già stata espressa la terna entro cui scegliere il successore); nella più severa delle ipotesi, appare maggiormente adeguata ed ugualmente efficace, per far fronte alle prospettate esigenze cautelari, la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio di cui all’art. 289 c.p.p.”. Segue in calce l’ordine di inoltro “all’ufficio GIP” sottoscritto dallo stesso procuratore il successivo 18 dicembre. La richiesta cautelare, con le annotazioni in calce del procuratore della Repubblica, venne quindi depositata nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari il 20 dicembre, con una nota dei magistrati dell’ufficio del pubblico ministero assegnatari del procedimento, dal seguente tenore: “Si trasmette l’allegata richiesta di misure cautelari (reali e personale), ritenendo di mantenere le determinazioni espresse anche laddove non concertate con il procuratore che, pur non prestando il proprio assenso alla misura cautelare personale, peraltro sotto l’esclusivo profilo dell’adeguatezza del tipo di misura richiesta, ha comunque disposto per la trasmissione dell’atto a codesto g.i.p. per la libera valutazione dell’organo giurisdizionale” Il tribunale di Genova, con ordinanza emessa il 25/2/2008 in sede di riesame, confermava il provvedimento applicativo della misura coercitiva, nelle more revocata il 15/2/2008 per sopravvenuta cessazione delle esigenze cautelari, rilevando che il ricorrente aveva interesse all’impugnazione nonostante la revoca della misura, con riguardo all’eventuale esercizio del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, ma che, nel caso concreto, sussistevano gli estremi della gravità indiziaria. Il tribunale non ravvisava, invece, la nullità, ex artt. 178 comma 1 lett. b) e 179 c.p.p., dedotta dal ricorrente sotto il profilo del difetto di una valida domanda cautelare, che potesse assumere rilievo ai fini dell’eventuale richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, per asserita violazione dell’art. 3, comma 2 d.lgs. n. 106 del 2006, in ragione della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica alla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento, in quanto: - la richiesta della misura coercitiva era sottoscritta anche dal procuratore aggiunto, titolare, per assetto organizzativo interno all’ufficio, delle stesse prerogative riconosciute al procuratore della Repubblica; - il dissenso di questi concerneva solo la scelta della misura cautelare personale più adeguata, ma non coinvolgeva il merito della contestazioni; - il procuratore della Repubblica aveva disposto l’inoltro della richiesta al g.i.p. senza averne preteso dai magistrati assegnatari la modifica e senza avere altresì inteso revocare l’assegnazione, limitandosi a rimettere alla valutazione del giudice gli argomenti da lui prospettati. 2. – Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori del Novi, i quali, anche con successive memorie illustrative, hanno ribadito la tesi della nullità assoluta, ex artt. 178 comma 1 lett. b), 179 e 291 c.p.p., del provvedimento applicativo della misura coercitiva, sotto il profilo della carenza di una valida ed efficace domanda cautelare per la violazione dell’art. 3, comma 2 d.lgs. n. 106 del 2006, in ragione della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica alla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento, la cui nota di trasmissione del 20/12/2007 sarebbe stata inefficace a fronte dell’inoltro al giudice da parte del procuratore della Repubblica di una richiesta emendata con la sostituzione della misura interdittiva a quella degli arresti domiciliari. Ad avviso del ricorrente, l’assenso scritto, atto necessariamente preventivo e dal contenuto autorizzatorio, costituisce esclusiva “prerogativa” del procuratore della Repubblica (non delegata nella specie al procuratore aggiunto, mero co-assegnatario del procedimento) e si configura come condizione di validità della richiesta cautelare formulata nella fase delle indagini preliminari, non potendosi ritenere che la speciale norma dell’art. 3 d.lgs. n. 106 del 2006 riguardi esclusivamente l’organizzazione interna dell’ufficio di procura ed abbia valenza meramente ordinamentale e disciplinare, senza alcun riflesso nella sfera giuridica del soggetto che sia privato della libertà personale. Di talché, in assenza di una valida richiesta del pubblico ministero o anche in caso di applicazione di una misura più grave di quella validamente richiesta, sostiene il ricorrente che, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 314, comma 2 c.p.p., sussiste l’interesse all’impugnazione, sulla base della illegittimità dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva per violazione del principio della domanda, pur quando la misura sia stata revocata, eccependo in subordine la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della suindicata norma in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 Cost.. 3. – La sesta Sezione, con ordinanza del 3-23/10/2008, sul rilievo che il ricorrente, nonostante il giudice del riesame avesse ritenuto la sussistenza del presupposto della gravità indiziaria, aveva impugnato la relativa ordinanza nella parte in cui è stata esclusa la nullità assoluta del provvedimento coercitivo, dedotta sotto il profilo della mancanza di una valida domanda cautelare in difetto dell’assenso del procuratore della Repubblica, ha affermato che l’interesse all’impugnazione, pur quando nelle more sia intervenuta la revoca della misura e la rimessione in libertà, dovrebbe essere negato, dato che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si configura, nella previsione dell’art. 314, comma 2 c.p.p. e nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, solo se mancano le condizioni di applicabilità stabilite dagli artt. 273 e 280 c.p.p.. La Sezione rimettente ha osservato, tuttavia, che l’uniforme orientamento della giurisprudenza di legittimità circa la tassatività dei parametri normativi per la configurazione del presupposto per la riparazione dell’ingiusta detenzione non è in linea con i principi espressi dalla Corte costituzionale, la quale, con plurime decisioni, ha esteso l’ambito dell’equa riparazione a situazioni non previste dalla disciplina codicistica, anche traendo argomenti dai contenuti di norme di fonte sopranazionale. E, concludendo nel senso che il riconoscimento della persistenza dell’interesse a impugnare, nonostante la sopravvenuta revoca della misura coercitiva, rispetto a tutte le condizioni che attengono alla “ontologica legalità e validità” del provvedimento impositivo, potrebbe dare luogo ad un contrasto giurisprudenziale, ha rimesso la decisione della questione di diritto alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato per l’odierna udienza in camera di consiglio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. – Le Sezioni Unite sono chiamate anzitutto a rispondere al quesito “se permanga l’interesse dell’imputato all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale, ai fini del giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato, non attengano alla mancanza dei presupposti di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. - in particolare dei gravi indizi di colpevolezza -, bensì all’asserita mancanza di una valida domanda cautelare (per il difetto di assenso o per l’espresso dissenso del procuratore della Repubblica sulla relativa richiesta del magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento)”.1.1. – Occorre premettere che lo schema codicistico del procedimento di applicazione delle misure cautelari personali, come delineato dagli artt. 291 e 292 c.p.p. all’interno di un modello processuale che, anche alla luce del riformulato art. 111 comma 2 Cost., mira ad esaltare la netta separazione dei ruoli tra parti richiedenti e organo deliberante ed a preservare la terzietà del giudice, postula, come “indefettibile antecedente”, uno specifico atto propulsivo rappresentato dalla “domanda” che il pubblico ministero rivolge al giudice, alla stregua di un atto di esercizio dell’ “azione cautelare” (C. cost., n. 4 del 1992). Nella logica accusatoria del nuovo processo penale, la direttiva n. 59 della legge-delega n. 81 del 1987, già sul piano semantico, correla intimamente il “potere-dovere del pubblico ministero di richiedere, presentando al giudice gli elementi su cui si fonda la sua richiesta”, con il potere-dovere “del giudice di disporre con provvedimento motivato le misure di coercizione personale”, in termini di interdipendenza necessaria tra richiesta e decisione. Avverte, in proposito, la Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito, privilegiando l’aspetto funzionale del rapporto tra domanda cautelare e decisione giurisdizionale, che, se dev’essere esclusa “una legittimazione ai provvedimenti cautelari in capo al pubblico ministero (salvo il potere di fermo), così è da escludersi l'adozione di misure cautelari che prescinda dall'iniziativa del pubblico ministero il quale è, sotto questo profilo, soggetto necessariamente senza legittimazione a disporre, mentre, per converso, il giudice è soggetto , ma non ex officio”. Sicché, alla domanda della parte pubblica corrisponde la genesi di un fenomeno devolutivo, che assegna al giudice un potere decisorio che, pur integro in tutti i suoi connotati e secondo gli ordinari parametri delibativi, resta circoscritto all'interno dei confini tracciati dal devolutum. Nel senso che va coerentemente esclusa la possibilità non solo che il giudice applichi ex officio una misura cautelare in mancanza di domanda del pubblico ministero (extra petita), ma anche che egli adotti una misura, non già meno severa, bensì, in peius, più grave di quella richiesta (ultra petita). E, ove si verifichi l’inosservanza della preclusione nascente dal principio della domanda cautelare, si configura, sul piano interpretativo (Cass., sez. fer., 6/9/1990 n. 2668, Palma, rv. 185652; sez. III, 8/10/1998 n. 2554, P.M. in proc. Corigliano, rv. 212169; sez. VI, 26/6/2003 n. 35106, De Masi, rv. 226515; sez. VI, 10/7/2008 n. 33858, P.M. in proc. Maazouzi, rv. 240799), la nullità - di ordine generale ed assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento - dell’ordinanza del giudice, riferita, ai sensi degli artt. 178 lett. b) e 179 comma 1 c.p.p., all’iniziativa indefettibile e riservata in via esclusiva al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione cautelare. 1.2. – Ciò posto, è ben vero che le Sezioni Unite (Sez. Un., 12/10/1993 n. 20, Durante, rv. 195353-355, seguite da Sez. un., 13/7/1998 n. 21, Gallieri, rv. 211194 e Sez. Un., 28/3/2006 n. 26795, Prisco, rv. 234268, nonché dal conforme e costante indirizzo giurisprudenziale delle sezioni semplici), pur osservando, circa la persistenza dell’interesse ad impugnare l’ordinanza coercitiva nel caso di revoca medio tempore della misura e di liberazione dell’imputato, che la sopravvenuta revoca non può incidere sull’attualità dell’interesse a coltivare l’impugnazione ai fini della precostituzione di un titolo da far valere successivamente in sede di riparazione per ingiusta detenzione, hanno tuttavia qualificato come “tassativa” la formulazione dell’art. 314 comma 2 c.p.p., con riguardo alle cause di illegittimità della misura elencate negli artt. 273 e 280 c.p.p.. Donde l’inidoneità delle violazioni attinenti sia all’art. 274 per insussistenza delle esigenze cautelari, sia all’art. 275 per inadeguatezza o per difetto di proporzionalità della misura, ad atteggiarsi a fondamento giustificativo del diritto all’equa riparazione. La qualificazione in termini di “tassatività” della norma, secondo un’interpretazione fedele al dato letterale, ha messo in evidenza il carattere “speciale” dello strumento riparatorio dell’ingiusta detenzione, diretto alla tutela delle ragioni di quanti siano stati condannati in relazione agli stessi fatti posti a fondamento del titolo cautelare illegittimo. Va peraltro segnalato che un pur minoritario orientamento giurisprudenziale ha inteso accreditare un’interpretazione capace di superare i limiti letterali della disposizione dell’art. 314 comma 2 c.p.p., valorizzando le fonti normative sopranazionali e l’elaborazione della Corte costituzionale - di cui si dirà appresso - per giustificare talune soluzioni applicative, dirette alla verifica ex post dell’illegittimità della situazione detentiva (v. Cass., sez. I, 10/10/2000 n. 3346/01, Macrì, rv. 218175-176, nell’ipotesi di carcerazione protratta oltre il termine di durata previsto dalla legge, e Corte eur. d. uomo, 9/6/2005, Picaro c. Italia, con riferimento alla violazione, in tal caso, dell’art. 5, par. 5 Cedu; sez. VI, 27/5/2005 n. 26873, Frediani, rv. 231918, nel caso di proroga tardiva della misura cautelare; sez. IV, 6/11/2006 n. 42022, Carta, rv. 235676-677, nel caso di mancanza della richiesta del Ministro della Giustizia; sez. III, 7/5/2008 n. 25201, Teodosiu, rv. 240388, nel caso di difetto del presupposto dell’urgenza per il giudice dichiaratosi territorialmente incompetente).1.3. – D’altra parte, non può non rilevarsi che, a fronte di un diritto vivente pressoché uniformemente ancorato alla persistenza dell’interesse purché fatto valere nel perimetro tassativo delle condizioni di applicabilità stabilite dagli artt. 273 e 280 c.p.p., la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sui limiti normativi dell’equa riparazione per ingiusta detenzione, ne ha ripetutamente esteso lo spettro operativo a situazioni non previste dalla norma codicistica, sulla base di un comune percorso argomentativo, avvalorato soprattutto dal richiamo della direttiva n. 100 e del primo comma dell’art. 2 della legge-delega n. 81 del 1987, che prescrive la necessità di adeguamento del codice alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale: con particolare riguardo alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, che prevedono rispettivamente, nell’art. 5 par. 5 e nell’art. 9 par. 5, il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione o distinzioni di sorta circa il titolo dell’ingiustizia. Vanno menzionate in proposito: - sia le sentenze tout court dichiarative dell’illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. (n. 310 del 1996, per la detenzione conseguente ad un ordine di esecuzione poi dichiarato illegittimo; n. 109 del 1999, per l’ingiusta detenzione subita in conseguenza di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, quando, con decisione irrevocabile, siano ritenute insussistenti le condizioni per la convalida della custodia precautelare, per assenza dei presupposti o per inosservanza dei termini; n. 219 del 2008, per la custodia cautelare subita in misura superiore alla quantità della pena inflitta con la sentenza di primo grado, che sia stata riformata dalla sentenza di appello dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, decisione, questa, poi seguita dalla conforme sentenza delle Sezioni Unite, 30/10/2008 n. 4187/09, Pellegrino); - sia quelle sentenze interpretative di rigetto, che hanno riconosciuto all’art. 314 c.p.p. un ambito applicativo più esteso rispetto al mero dato letterale (n. 284 del 2003, sull’ingiusta detenzione subita in esecuzione di un ordine di carcerazione inizialmente legittimo ma che, per un fatto sopravvenuto alla sua emissione correlato all’accertamento ex post che la pena risultava già espiata all’estero, era da revocare siccome in violazione del divieto di bis in idem; n. 230 del 2004, sul riconoscimento del diritto all’equa riparazione anche in favore di colui che abbia subito un periodo di custodia cautelare per un fatto dal quale sia poi stato prosciolto per la preclusione del giudicato ex art. 649 c.p.p.; n. 231 del 2004, sull’analogo riconoscimento dell’indennizzo in favore di un soggetto che, a seguito di richiesta di estradizione passiva di uno Stato estero, abbia subito un periodo di custodia cautelare provvisoria in Italia e sia poi stato messo in libertà, essendo stata accertata ex post la carenza di giurisdizione dello Stato estero; n. 413 del 2004, che ammette la riparazione per ingiusta detenzione anche in caso di archiviazione per morte del reo, qualora successivamente sia stata pronunciata nei confronti dei coimputati, sulla base del medesimo materiale probatorio, sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste).1.4. – Orbene, dall’analisi logico-sistematica e da una lettura costituzionalmente orientata della normativa di riferimento e delle fonti internazionali pattizie, pure recepite dal nostro ordinamento, sembra lecito concludere che, se l’equa riparazione per ingiusta detenzione è stata ammessa in taluni casi di non corretto esercizio della giurisdizione cautelare, a maggior ragione il fondamento solidaristico del diritto ad un equo indennizzo per la custodia cautelare ingiustamente subita dev’essere riconosciuto laddove venga messa radicalmente in discussione - addirittura - la “ontologica legalità e validità” del titolo coercitivo, a causa della violazione da parte del giudice del fondamentale principio della domanda, con riguardo al difetto, da accertare ex post, della iniziativa del pubblico ministero. Iniziativa nell’esercizio dell’azione cautelare che, siccome istituzionalmente riservata in via esclusiva all’organo dell’accusa, costituisce l’ “indefettibile antecedente” e il prius logico del provvedimento restrittivo della libertà personale, ponendosi, quindi, “a monte” del perimetro delle condizioni di applicabilità della misura di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., la cui accertata insussistenza (soltanto) è tuttavia configurata, nella formulazione letterale del secondo comma dell’art. 314, come presupposto dell’azione di riparazione per l’ingiusta detenzione. Né può considerarsi di ostacolo alla praticabilità della cennata operazione ermeneutica di adeguamento della normativa, che consenta di ricostruirne la portata in sintonia con i valori costituzionali e con i progressivi ed incisivi interventi del Giudice delle leggi, l’esistenza di una disciplina per il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e per la responsabilità civile dei magistrati, posto che, secondo l’espressa previsione dell’art. 14 della legge n. 117 del 1988, le disposizioni di tale legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione (v., in tal senso, C. cost., sent. n. 310 del 1996). In ordine al quesito interpretativo riportato in premessa può pertanto enunciarsi il principio di diritto per cui “persiste l’interesse all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva, ai fini del giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato con la conseguente rimessione in libertà dell’interessato, non attengano alla mancanza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., bensì alla prospettata carenza di domanda cautelare”.2. – Ciò posto, resta peraltro ancora da dimostrare la fondatezza della dedotta nullità dell’ordinanza coercitiva, per la pretesa mancanza di domanda cautelare nel caso, denunziato dal ricorrente, di difetto di assenso o, come nella specie, di espresso dissenso del procuratore della Repubblica sulla richiesta di misura coercitiva avanzata dai magistrati dell’ufficio del pubblico ministero assegnatari del procedimento. Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere, infatti, all’ulteriore quesito “se l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3 comma 2 d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, si configuri come condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento, e quindi di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice”: quesito in ordine al quale non è dato rinvenire alcun precedente nella giurisprudenza di legittimità in considerazione della novità dell’assetto ordinamentale in materia.2.1. – La “riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero” ha costituito uno dei più significativi obiettivi della legge delega 25/7/2005 n. 150 per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12 del 1941, i cui principi e criteri direttivi, dettati in particolare dagli artt. 1, comma 1 lett. d), e 2 comma 4, hanno trovato attuazione nel d.lgs. 20/2/2006 n. 106, successivamente modificato dalla legge 24/10/2006 n. 269. Il vigente quadro normativo, pur non riproducendo il tradizionale modello gerarchico disegnato dall’originario art. 70 ord. giud. alla stregua della natura impersonale delle attività e della funzione dell’organo (“… i procuratori della Repubblica esercitano le loro funzioni personalmente o per mezzo dei dipendenti magistrati addetti ai rispettivi uffici”: disposizione, questa, scrutinata positivamente dalla Corte costituzionale con sentenza n. 52 del 1976), si caratterizza tuttavia, da un lato, per l’accentuazione del ruolo di “capo” del procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti e dei rapporti con i sostituti, e, dall’altro, per la corrispondente, parziale, compressione dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio. Al fine di meglio assicurare le esigenze di efficienza, coordinamento, uniformità e ragionevole durata dell’azione investigativa, al procuratore della Repubblica, definito “preposto all’ufficio del pubblico ministero” e “titolare esclusivo” dell’azione penale, è affidato, tra l’altro, il potere-dovere: - di determinare i criteri generali di organizzazione dell’ufficio e di assegnazione dei procedimenti; - di stabilire, di volta in volta, gli specifici criteri ai quali il magistrato assegnatario deve attenersi nell’esercizio delle attività conseguenti all’atto di assegnazione del procedimento; - di revoca dell’assegnazione in caso di inosservanza dei principi e dei criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, e in caso di “contrasto” circa le modalità di esercizio delle relative attività. In particolare, il procuratore della Repubblica è titolare di speciali “prerogative” in materia di misure cautelari, prescrivendo l’art. 3, commi 1 e 2 d.lgs. n. 106/06 che “l’assenso scritto del procuratore della Repubblica … è necessario”, oltre che per il fermo di indiziato di delitto, “anche per la richiesta di misure cautelari personali” formulata da un magistrato dell’ufficio. Si avverte peraltro autorevolmente in dottrina (cons. anche la Risoluzione 12/7/2007 del Consiglio Superiore della Magistratura) che, soprattutto all’esito delle sostanziali modifiche apportate all’impianto del d.lgs. n. 106/06 ad opera della l. n. 269/06 (in punto di eliminazione delle parole “sotto la propria responsabilità” in relazione all’esercizio dell’azione penale da parte del procuratore della Repubblica, di sostituzione del termine “delega” con quello di “assegnazione” in tema di distribuzione degli affari, di procedimentalizzazione della fattispecie di revoca dell’assegnazione), vanno comunque osservate, nell’esercizio della potestà di direzione e di organizzazione, le basilari regole di funzionamento dell’ufficio, ispirate ai principi di legalità, imparzialità, buon andamento e trasparenza dell’amministrazione. E si aggiunge che, alla luce dei valori costituzionali espressi dagli artt. 101, 102, 105, 107 e 112 Cost., riferibili nel sistema di giustizia penale anche alla figura del magistrato del pubblico ministero, in virtù del “rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia” dell’attività di esercizio dell’azione penale con l’attività decisoria e della soggezione, al pari del giudice, soltanto alla legge (C. cost., n. 96 del 1975 e n. 88 del 1991), va altresì preservata per il singolo sostituto la sfera di autonomia professionale, di dignità e di responsabilità decisionale per le funzioni esercitate in conseguenza dell’assegnazione del procedimento. Così come non si dubita che restano in vigore rispetto alle attività di udienza, anche non dibattimentale, le prescrizioni degli artt. 70, comma 4 ord. giud. e 53 c.p.p. (attuativo della specifica direttiva n. 68 della legge delega del 1987) circa la “piena autonomia” e la ordinaria insostituibilità del magistrato del pubblico ministero che esercita le relative funzioni di accusa: regola, questa della piena autonomia del magistrato in udienza, che è certamente destinata a riflettere i suoi effetti anche sul potere di iniziativa cautelare dallo stesso eventualmente attivato in tali fasi. 2.2. – Si è già detto del “necessario” e indeclinabile “assenso scritto” del procuratore della Repubblica per tutti gli atti che incidono sulla libertà personale, che, stabilizzando normativamente la prassi già invalsa del “visto” del capo dell’ufficio, limita l’autonomia decisionale del sostituto assegnatario del procedimento, ma trova razionale giustificazione nella finalità del corretto perseguimento di linee uniformi di indirizzo e di condotta dell’ufficio di procura, rispetto a quella che ben può dirsi intrinsecamente la più rilevante delle attività affidate all’organo dell’investigazione e dell’accusa. L’assenso, che deve assumere la forma scritta, si colloca chiaramente in una fase che è immediatamente successiva alla formulazione della richiesta della misura cautelare da parte del magistrato assegnatario del procedimento, e però antecedente l’inoltro della medesima richiesta al giudice per le indagini preliminari. Di talché, sembra evidente che, una volta esaurito inutilmente il pur doveroso metodo del confronto onde evitare il radicarsi di una situazione di conflitto e addivenire alla “concertazione” preventiva in merito alla richiesta, l’eventuale persistenza del “dissenso” del capo dell’ufficio sul provvedimento da adottare in materia di libertà personale segnali un’ipotesi di “contrasto” circa le concrete modalità di esercizio delle attività relative alla trattazione del procedimento assegnato al sostituto. Vengono quindi a determinarsi le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 2 d.lgs. n. 106/06, sost. dalla l. n. 269/06, perché il sostituto, il quale non intenda recedere dall’originaria richiesta, chieda di essere esonerato dalla trattazione del procedimento a tutela della sua autonomia professionale, ovvero il procuratore della Repubblica possa, con atto motivato, “revocare l’assegnazione”, cui il magistrato può replicare presentando “osservazioni scritte”: procedura, questa, rispetto alla cui legittimità non è escluso il potenziale intervento dei titolari dell’azione disciplinare e dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, chiamato a verificare, non solo a fini disciplinari, la congruità delle determinazioni sia del capo dell’ufficio sia del sostituto. Quel che sembra incontrovertibile è che, non potendo non prevalere in materia la riserva di prerogativa del procuratore della Repubblica, non è consentito procedere all’inoltro della richiesta di una misura cautelare personale in difetto di assenso del capo dell’ufficio, presupponendo necessariamente l’atto di inoltro che il tenore della richiesta venga previamente concertato fra il magistrato assegnatario del procedimento che l’ha formulata e il procuratore della Repubblica che l’ha assentita. S’intende dire che, laddove si prospetti, per contro, un conflitto in merito alla più incisiva delle modalità di esercizio dell’attività relativa alla trattazione di un procedimento assegnato al sostituto, la rigida disciplina procedimentale in tema di “contrasto” e di “revoca” dell’assegnazione pretende che la vicenda venga doverosamente incanalata lungo i binari segnati dall’art. 2, comma 2 d.lgs. n. 106/06, sost. dalla l. n. 269/06, precludendosi decisamente sia al sostituto l’inoltro di una richiesta formulata in difetto di assenso o con l’espresso dissenso del procuratore della Repubblica, sia a quest’ultimo l’inoltro della medesima richiesta, seppure corredata dall’atto del suo parziale o totale dissenso. Orbene, osserva il Collegio che non può seriamente dubitarsi della irritualità del percorso adottato, nel caso in esame, da tutti i protagonisti della vicenda - il procuratore della Repubblica e i magistrati assegnatari del procedimento -, i quali hanno proceduto all’inoltro al giudice di una richiesta di misura coercitiva nei confronti dell’indagato, corredata dall’espresso dissenso scritto del procuratore della Repubblica, il quale optava per l’applicazione di una meno grave misura di tipo interdittivo, così erroneamente ritenendosi l’atto di dissenso, per un verso, come un’autonoma e diretta richiesta del capo dell’ufficio da inoltrare al giudice e, per il verso opposto, come un mero parere da sottoporre alla “libera valutazione dell’organo giurisdizionale”.2.3. – E però non sembra cogliere nel segno la tesi difensiva, pur perspicuamente argomentata nei motivi di ricorso, della nullità assoluta dell’ordinanza applicativa della misura coercitiva, sotto il profilo della mancanza di una valida ed efficace domanda cautelare, in ragione del dissenso espresso dal procuratore della Repubblica sulla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento. Ritiene, infatti, il Collegio che la norma dell’art. 3 d.lgs. n. 106/06 riguardi esclusivamente l’organizzazione “interna” dell’ufficio di Procura ed abbia valenza meramente ordinamentale e disciplinare, senza che le eventuali condotte elusive della prerogativa riservata al procuratore della Repubblica da parte del sostituto, da un lato, o le eventuali determinazioni strumentali del primo, lesive dei pur legittimi spazi di autonomia spettanti al secondo, dall’altro, possano rivestire alcun rilievo “esterno” sul terreno del regime propriamente processuale della misura cautelare. A prescindere dal mero riflesso indiretto che l’osservanza della regola ordinamentale è potenzialmente idonea a determinare nella sfera giuridica del soggetto che sia privato della libertà personale, ostano, ad un’asimmetrica proiezione delle conseguenze derivanti dal difetto di assenso del procuratore della Repubblica sul terreno processuale, insormontabili ragioni di ordine logico-sistematico. Dalla citata fonte normativa di tipo ordinamentale non s’evince affatto che l’assenso del procuratore della Repubblica concorra al perfezionamento strutturale dell’atto di esercizio dell’azione cautelare e alla compiuta integrazione del procedimento applicativo della misura cautelare personale ex artt. 291 e 292 c.p.p., in termini di inammissibilità della richiesta se priva dell’assenso (a favore dell’appellabilità ex art. 310 c.p.p. di una siffatta declaratoria d’inammissibilità della richiesta cautelare, v. la recente Cass., sez. VI, 20/11/2008 n. 48441, P.M. in proc. Pirvan), ovvero di nullità dell’ordinanza del giudice se adottata nonostante la mancanza dell’assenso medesimo. Sicché, a fronte del silenzio legislativo sul punto e del concreto esercizio dell’azione cautelare, che sia comunque riconducibile all’impersonale struttura dell’ufficio del pubblico ministero tramite la figura del magistrato assegnatario dell’affare che abbia inoltrato la richiesta (pur priva di assenso o corredata da un espresso dissenso del procuratore della Repubblica), il principio di tipicità e di tassatività delle ipotesi di inammissibilità o di nullità degli atti processuali di cui all’art. 177 c.p.p. preclude al giudice la rilevabilità, d’ufficio o su istanza di parte, di quella che, estranea al piano processuale, si rivela come una irregolarità di sicuro e pregnante rilievo, ma sul distinto terreno ordinamentale e disciplinare. D’altra parte, tenuto conto che la prescrizione della “piena autonomia” del magistrato del pubblico ministero in udienza è destinata - come si è detto - a riflettere i suoi effetti anche sul potere di iniziativa cautelare dallo stesso eventualmente esercitato nelle fasi stricto sensu processuali, sarebbe davvero illogico ricostruire la fattispecie di invalidità dell’ordinanza cautelare in termini e funzioni differenziate, a seconda delle diverse fasi del procedimento o del processo in cui l’azione cautelare venga concretamente esercitata dal pubblico ministero. A favore della prospettata soluzione ermeneutica converge altresì la ricognizione sistematica delle norme che dettano le regole dirette a disciplinare i momenti di interferenza tra le leggi di ordinamento giudiziario e la legge processuale, da cui si desume che il rinvio alle norme di ordinamento giudiziario è operato dal codice di rito con esclusivo riguardo alla figura del giudice ed alla funzione giurisdizionale (v. l’art. 1, sulla giurisdizione penale; l’art. 33, sulla capacità del giudice; gli artt. 178 lett. a e 179 comma 1, sulla nullità di ordine generale e assoluta per l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi; l’art. 36, comma 1 lett. g, in tema di astensione e ricusazione del giudice che si trovi in una situazione di incompatibilità; l’art. 43, sulla sostituzione del giudice astenuto o ricusato con altro magistrato dello stesso ufficio; l’art. 610 comma 1-bis, sull’assegnazione dei ricorsi alle singole sezioni della Corte di cassazione; l’art. 163-bis disp. att., circa gli effetti dell’inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica; l’art. 169-bis disp. att., circa la predeterminazione tabellare della sezione della corte di cassazione per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi). E viceversa, ancora con riferimento agli uffici giudicanti, l’art. 7-bis, comma 1 ultimo periodo, del r.d. n. 12 del 1941, aggiunto dall’art. 4, comma 19 lett. b, l. n. 111 del 2007, avverte che in nessun caso la violazione dei criteri (tabellari) per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, determina la nullità dei provvedimenti adottati. Per contro, in nessun’altra disposizione di ordinamento giudiziario o del codice di rito si fa menzione di un eventuale rilievo processuale delle eventuali violazioni di norme dirette a disciplinare l’organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero, neppure in tema di previsione di nullità degli atti del procedimento per quel che attiene, ai sensi dell’art. 178 lett. b c.p.p., all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e alla sua partecipazione al procedimento. Occorre inoltre sottolineare che, riflettendo sul tema delle interferenze tra legge ordinamentale e legge processuale, con particolare riguardo alle regole di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, la giurisprudenza di legittimità, sia pure in casi e per fini diversi da quelli in esame, ha in più occasioni affermato il principio di impermeabilità processuale rispetto alle eventuali violazioni di tali regole. Hanno affermato le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30/10/2003 n. 45276, P.G. in proc. Andreotti, rv. 226089), con riferimento all’attribuzione del potere di impugnazione delle sentenze d’appello, che “non assumono … alcun rilievo esterno i criteri tabellari stabiliti per l’organizzazione dei servizi e la distribuzione delle incombenze negli uffici di procura, non inerendo comunque, all’evidenza, le garanzie costituzionali di legale precostituzione e di terzietà del giudice, cui pure s’ispira il sistema tabellare, al ruolo e alla struttura organizzativa degli uffici requirenti”, sicché “l’eventuale inosservanza dei criteri di organizzazione dell’ufficio della procura … non costituisce fonte di sanzioni processuali e non incide affatto sulla legittimazione del singolo magistrato della medesima procura a ricorrere per cassazione”, sempre che quel magistrato sia provvisto dei requisiti essenziali per ricoprire l’incarico e appartenga all’ufficio, inteso nella sua organica unitarietà, delle cui funzioni faccia esercizio. E la giurisprudenza delle Sezioni semplici ha chiarito, a sua volta, che non è dato apprezzare la nullità ex art. 178 lett. b c.p.p., sotto il profilo della capacità o legittimazione del pubblico ministero, con riguardo alle attività compiute da magistrati onorari o ufficiali di polizia giudiziaria, delegati per l’udienza pretorile prima e per l’udienza dinanzi al tribunale in composizione monocratica poi, in violazione dei limiti operativi fissati dall’art. 72 ord. giud. (Cass., sez. VI, 3/7/1996 n. 8815, Bartolomei, rv. 205909; sez. VI, 10/1/2001 n. 20110, P.M. in proc. Sagone, rv. 219153), o alla mancanza in atti del provvedimento di assegnazione del procedimento al sostituto richiedente l’archiviazione (sez. VI, 19/11/2002 n. 18178, Stara, rv. 225212), una volta che il soggetto che svolga tali funzioni sia comunque investito delle relative attribuzioni. Neppure può considerarsi priva di significato, infine, la circostanza che il Governo s’appresti a realizzare un’opposta soluzione normativa della questione controversa, in termini di cogente interazione fra la disposizione di ordinamento giudiziario che disciplina le prerogative del procuratore della Repubblica in materia cautelare e le regole propriamente processuali della richiesta e dell’ordinanza cautelare. Nel recente schema di disegno di legge governativo di riforma del procedimento penale, adottato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 6/2/2009, risulta infatti formulata un’apposita disposizione - l’art. 3, comma 1 lett. c) - che, mediante l’inserimento nell’art. 291 c.p.p. del nuovo comma 1-ter, configura esplicitamente l’assenso scritto del procuratore della Repubblica come condizione di ammissibilità della richiesta cautelare del pubblico ministero (“a pena di inammissibilità”), nei casi in cui l’assenso è previsto ai sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 106 del 2006. E con la norma transitoria di cui al successivo art. 33, comma 5, si precisa, inoltre, che “le disposizioni di cui all’articolo 291, comma 1-ter, del codice di procedura penale, così come introdotto dall’articolo 3, comma 1 lett. c), non si applicano alle richieste di misura cautelare presentate in data anteriore a quella di entrata in vigore della presente legge”. L’innovativa scelta legislativa, rispetto al vigente quadro normativo e giurisprudenziale, sembra pertanto rafforzare - argomentandosi a contrario - la tesi dell’ordinaria impermeabilità del processo penale alle regole di ordinamento giudiziario inerenti all’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero.2.4. – Le precedenti riflessioni convergono dunque univocamente nel senso che “l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3 comma 2 del d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, non si configura come condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento, né di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice”. Attesa pertanto, alla stregua del suindicato principio di diritto, l’infondatezza delle censure mosse dalla difesa del ricorrente avverso l’ordinanza impugnata, il ricorso va rigettato con le conseguenze di legge.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

MISURE CAUTELARI - PERSONALI – REVOCA – INTERESSE ALL’IMPUGNAZIONE – PROSPETTATO DIFETTO DI DOMANDA - SUSSISTENZA

Le Sezioni unite, dopo aver statuito che permane l’interesse all’impugnazione, pur dopo la revoca medio tempore del provvedimento applicativo della misura coercitiva ed ai fini del giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione, anche quando la censura attenga alla prospettata carenza di domanda cautelare, hanno affrontato la questione dell’eventuale incidenza processuale della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica sulla richiesta di misura cautelare personale proposta dal magistrato assegnatario o di un assenso accordato su una misura meno grave di quella richiesta. Premesso che il contrasto, in merito al se ed a quale misura cautelare personale richiedere, deve trovare soluzione all’interno del percorso delineato dalla legge ordinamentale e che si conclude, in assenza di un accordo, con la revoca dell’assegnazione, hanno stabilito che l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 106 del 2006, non è condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato assegnatario del procedimento, né di validità della conseguente ordinanza cautelare emessa dal giudice.

Testo Completo:

Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009- depositata il 24 febbraio 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Canzio)

RITENUTO IN FATTO

1. – Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova, sulla richiesta in data 13/12/2007 dei pubblici ministeri assegnatari del procedimento, disponeva con ordinanza del 4/2/2008 l’applicazione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di Novi Giovanni Giulio, indagato per plurime ipotesi delittuose (artt. 110, 353, comma 2, 317 e 640, comma 2 n. 1 c.p.). Come risulta dagli atti del fascicolo processuale, l’originaria richiesta reca in calce l’annotazione del procuratore della Repubblica del 17 dicembre, con la quale si esprime “dissenso” in ordine alla misura degli arresti domiciliari poiché “all’indagato, ultrasettantenne ed incensurato, sono addebitati reati commessi, senza fine di lucro personale, nella sua veste di presidente dell’autorità portuale, carica pubblica in scadenza tra circa quaranta giorni (è già stata espressa la terna entro cui scegliere il successore); nella più severa delle ipotesi, appare maggiormente adeguata ed ugualmente efficace, per far fronte alle prospettate esigenze cautelari, la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio di cui all’art. 289 c.p.p.”. Segue in calce l’ordine di inoltro “all’ufficio GIP” sottoscritto dallo stesso procuratore il successivo 18 dicembre. La richiesta cautelare, con le annotazioni in calce del procuratore della Repubblica, venne quindi depositata nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari il 20 dicembre, con una nota dei magistrati dell’ufficio del pubblico ministero assegnatari del procedimento, dal seguente tenore: “Si trasmette l’allegata richiesta di misure cautelari (reali e personale), ritenendo di mantenere le determinazioni espresse anche laddove non concertate con il procuratore che, pur non prestando il proprio assenso alla misura cautelare personale, peraltro sotto l’esclusivo profilo dell’adeguatezza del tipo di misura richiesta, ha comunque disposto per la trasmissione dell’atto a codesto g.i.p. per la libera valutazione dell’organo giurisdizionale” Il tribunale di Genova, con ordinanza emessa il 25/2/2008 in sede di riesame, confermava il provvedimento applicativo della misura coercitiva, nelle more revocata il 15/2/2008 per sopravvenuta cessazione delle esigenze cautelari, rilevando che il ricorrente aveva interesse all’impugnazione nonostante la revoca della misura, con riguardo all’eventuale esercizio del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, ma che, nel caso concreto, sussistevano gli estremi della gravità indiziaria. Il tribunale non ravvisava, invece, la nullità, ex artt. 178 comma 1 lett. b) e 179 c.p.p., dedotta dal ricorrente sotto il profilo del difetto di una valida domanda cautelare, che potesse assumere rilievo ai fini dell’eventuale richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, per asserita violazione dell’art. 3, comma 2 d.lgs. n. 106 del 2006, in ragione della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica alla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento, in quanto: - la richiesta della misura coercitiva era sottoscritta anche dal procuratore aggiunto, titolare, per assetto organizzativo interno all’ufficio, delle stesse prerogative riconosciute al procuratore della Repubblica; - il dissenso di questi concerneva solo la scelta della misura cautelare personale più adeguata, ma non coinvolgeva il merito della contestazioni; - il procuratore della Repubblica aveva disposto l’inoltro della richiesta al g.i.p. senza averne preteso dai magistrati assegnatari la modifica e senza avere altresì inteso revocare l’assegnazione, limitandosi a rimettere alla valutazione del giudice gli argomenti da lui prospettati. 2. – Avverso la suddetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori del Novi, i quali, anche con successive memorie illustrative, hanno ribadito la tesi della nullità assoluta, ex artt. 178 comma 1 lett. b), 179 e 291 c.p.p., del provvedimento applicativo della misura coercitiva, sotto il profilo della carenza di una valida ed efficace domanda cautelare per la violazione dell’art. 3, comma 2 d.lgs. n. 106 del 2006, in ragione della mancanza di assenso scritto del procuratore della Repubblica alla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento, la cui nota di trasmissione del 20/12/2007 sarebbe stata inefficace a fronte dell’inoltro al giudice da parte del procuratore della Repubblica di una richiesta emendata con la sostituzione della misura interdittiva a quella degli arresti domiciliari. Ad avviso del ricorrente, l’assenso scritto, atto necessariamente preventivo e dal contenuto autorizzatorio, costituisce esclusiva “prerogativa” del procuratore della Repubblica (non delegata nella specie al procuratore aggiunto, mero co-assegnatario del procedimento) e si configura come condizione di validità della richiesta cautelare formulata nella fase delle indagini preliminari, non potendosi ritenere che la speciale norma dell’art. 3 d.lgs. n. 106 del 2006 riguardi esclusivamente l’organizzazione interna dell’ufficio di procura ed abbia valenza meramente ordinamentale e disciplinare, senza alcun riflesso nella sfera giuridica del soggetto che sia privato della libertà personale. Di talché, in assenza di una valida richiesta del pubblico ministero o anche in caso di applicazione di una misura più grave di quella validamente richiesta, sostiene il ricorrente che, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 314, comma 2 c.p.p., sussiste l’interesse all’impugnazione, sulla base della illegittimità dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva per violazione del principio della domanda, pur quando la misura sia stata revocata, eccependo in subordine la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della suindicata norma in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 Cost.. 3. – La sesta Sezione, con ordinanza del 3-23/10/2008, sul rilievo che il ricorrente, nonostante il giudice del riesame avesse ritenuto la sussistenza del presupposto della gravità indiziaria, aveva impugnato la relativa ordinanza nella parte in cui è stata esclusa la nullità assoluta del provvedimento coercitivo, dedotta sotto il profilo della mancanza di una valida domanda cautelare in difetto dell’assenso del procuratore della Repubblica, ha affermato che l’interesse all’impugnazione, pur quando nelle more sia intervenuta la revoca della misura e la rimessione in libertà, dovrebbe essere negato, dato che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione si configura, nella previsione dell’art. 314, comma 2 c.p.p. e nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, solo se mancano le condizioni di applicabilità stabilite dagli artt. 273 e 280 c.p.p.. La Sezione rimettente ha osservato, tuttavia, che l’uniforme orientamento della giurisprudenza di legittimità circa la tassatività dei parametri normativi per la configurazione del presupposto per la riparazione dell’ingiusta detenzione non è in linea con i principi espressi dalla Corte costituzionale, la quale, con plurime decisioni, ha esteso l’ambito dell’equa riparazione a situazioni non previste dalla disciplina codicistica, anche traendo argomenti dai contenuti di norme di fonte sopranazionale. E, concludendo nel senso che il riconoscimento della persistenza dell’interesse a impugnare, nonostante la sopravvenuta revoca della misura coercitiva, rispetto a tutte le condizioni che attengono alla “ontologica legalità e validità” del provvedimento impositivo, potrebbe dare luogo ad un contrasto giurisprudenziale, ha rimesso la decisione della questione di diritto alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato per l’odierna udienza in camera di consiglio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. – Le Sezioni Unite sono chiamate anzitutto a rispondere al quesito “se permanga l’interesse dell’imputato all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale, ai fini del giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato, non attengano alla mancanza dei presupposti di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. - in particolare dei gravi indizi di colpevolezza -, bensì all’asserita mancanza di una valida domanda cautelare (per il difetto di assenso o per l’espresso dissenso del procuratore della Repubblica sulla relativa richiesta del magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento)”.1.1. – Occorre premettere che lo schema codicistico del procedimento di applicazione delle misure cautelari personali, come delineato dagli artt. 291 e 292 c.p.p. all’interno di un modello processuale che, anche alla luce del riformulato art. 111 comma 2 Cost., mira ad esaltare la netta separazione dei ruoli tra parti richiedenti e organo deliberante ed a preservare la terzietà del giudice, postula, come “indefettibile antecedente”, uno specifico atto propulsivo rappresentato dalla “domanda” che il pubblico ministero rivolge al giudice, alla stregua di un atto di esercizio dell’ “azione cautelare” (C. cost., n. 4 del 1992). Nella logica accusatoria del nuovo processo penale, la direttiva n. 59 della legge-delega n. 81 del 1987, già sul piano semantico, correla intimamente il “potere-dovere del pubblico ministero di richiedere, presentando al giudice gli elementi su cui si fonda la sua richiesta”, con il potere-dovere “del giudice di disporre con provvedimento motivato le misure di coercizione personale”, in termini di interdipendenza necessaria tra richiesta e decisione. Avverte, in proposito, la Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di rito, privilegiando l’aspetto funzionale del rapporto tra domanda cautelare e decisione giurisdizionale, che, se dev’essere esclusa “una legittimazione ai provvedimenti cautelari in capo al pubblico ministero (salvo il potere di fermo), così è da escludersi l'adozione di misure cautelari che prescinda dall'iniziativa del pubblico ministero il quale è, sotto questo profilo, soggetto necessariamente senza legittimazione a disporre, mentre, per converso, il giudice è soggetto , ma non ex officio”. Sicché, alla domanda della parte pubblica corrisponde la genesi di un fenomeno devolutivo, che assegna al giudice un potere decisorio che, pur integro in tutti i suoi connotati e secondo gli ordinari parametri delibativi, resta circoscritto all'interno dei confini tracciati dal devolutum. Nel senso che va coerentemente esclusa la possibilità non solo che il giudice applichi ex officio una misura cautelare in mancanza di domanda del pubblico ministero (extra petita), ma anche che egli adotti una misura, non già meno severa, bensì, in peius, più grave di quella richiesta (ultra petita). E, ove si verifichi l’inosservanza della preclusione nascente dal principio della domanda cautelare, si configura, sul piano interpretativo (Cass., sez. fer., 6/9/1990 n. 2668, Palma, rv. 185652; sez. III, 8/10/1998 n. 2554, P.M. in proc. Corigliano, rv. 212169; sez. VI, 26/6/2003 n. 35106, De Masi, rv. 226515; sez. VI, 10/7/2008 n. 33858, P.M. in proc. Maazouzi, rv. 240799), la nullità - di ordine generale ed assoluta, insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento - dell’ordinanza del giudice, riferita, ai sensi degli artt. 178 lett. b) e 179 comma 1 c.p.p., all’iniziativa indefettibile e riservata in via esclusiva al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione cautelare. 1.2. – Ciò posto, è ben vero che le Sezioni Unite (Sez. Un., 12/10/1993 n. 20, Durante, rv. 195353-355, seguite da Sez. un., 13/7/1998 n. 21, Gallieri, rv. 211194 e Sez. Un., 28/3/2006 n. 26795, Prisco, rv. 234268, nonché dal conforme e costante indirizzo giurisprudenziale delle sezioni semplici), pur osservando, circa la persistenza dell’interesse ad impugnare l’ordinanza coercitiva nel caso di revoca medio tempore della misura e di liberazione dell’imputato, che la sopravvenuta revoca non può incidere sull’attualità dell’interesse a coltivare l’impugnazione ai fini della precostituzione di un titolo da far valere successivamente in sede di riparazione per ingiusta detenzione, hanno tuttavia qualificato come “tassativa” la formulazione dell’art. 314 comma 2 c.p.p., con riguardo alle cause di illegittimità della misura elencate negli artt. 273 e 280 c.p.p.. Donde l’inidoneità delle violazioni attinenti sia all’art. 274 per insussistenza delle esigenze cautelari, sia all’art. 275 per inadeguatezza o per difetto di proporzionalità della misura, ad atteggiarsi a fondamento giustificativo del diritto all’equa riparazione. La qualificazione in termini di “tassatività” della norma, secondo un’interpretazione fedele al dato letterale, ha messo in evidenza il carattere “speciale” dello strumento riparatorio dell’ingiusta detenzione, diretto alla tutela delle ragioni di quanti siano stati condannati in relazione agli stessi fatti posti a fondamento del titolo cautelare illegittimo. Va peraltro segnalato che un pur minoritario orientamento giurisprudenziale ha inteso accreditare un’interpretazione capace di superare i limiti letterali della disposizione dell’art. 314 comma 2 c.p.p., valorizzando le fonti normative sopranazionali e l’elaborazione della Corte costituzionale - di cui si dirà appresso - per giustificare talune soluzioni applicative, dirette alla verifica ex post dell’illegittimità della situazione detentiva (v. Cass., sez. I, 10/10/2000 n. 3346/01, Macrì, rv. 218175-176, nell’ipotesi di carcerazione protratta oltre il termine di durata previsto dalla legge, e Corte eur. d. uomo, 9/6/2005, Picaro c. Italia, con riferimento alla violazione, in tal caso, dell’art. 5, par. 5 Cedu; sez. VI, 27/5/2005 n. 26873, Frediani, rv. 231918, nel caso di proroga tardiva della misura cautelare; sez. IV, 6/11/2006 n. 42022, Carta, rv. 235676-677, nel caso di mancanza della richiesta del Ministro della Giustizia; sez. III, 7/5/2008 n. 25201, Teodosiu, rv. 240388, nel caso di difetto del presupposto dell’urgenza per il giudice dichiaratosi territorialmente incompetente).1.3. – D’altra parte, non può non rilevarsi che, a fronte di un diritto vivente pressoché uniformemente ancorato alla persistenza dell’interesse purché fatto valere nel perimetro tassativo delle condizioni di applicabilità stabilite dagli artt. 273 e 280 c.p.p., la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sui limiti normativi dell’equa riparazione per ingiusta detenzione, ne ha ripetutamente esteso lo spettro operativo a situazioni non previste dalla norma codicistica, sulla base di un comune percorso argomentativo, avvalorato soprattutto dal richiamo della direttiva n. 100 e del primo comma dell’art. 2 della legge-delega n. 81 del 1987, che prescrive la necessità di adeguamento del codice alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale: con particolare riguardo alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, che prevedono rispettivamente, nell’art. 5 par. 5 e nell’art. 9 par. 5, il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione o distinzioni di sorta circa il titolo dell’ingiustizia. Vanno menzionate in proposito: - sia le sentenze tout court dichiarative dell’illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. (n. 310 del 1996, per la detenzione conseguente ad un ordine di esecuzione poi dichiarato illegittimo; n. 109 del 1999, per l’ingiusta detenzione subita in conseguenza di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, quando, con decisione irrevocabile, siano ritenute insussistenti le condizioni per la convalida della custodia precautelare, per assenza dei presupposti o per inosservanza dei termini; n. 219 del 2008, per la custodia cautelare subita in misura superiore alla quantità della pena inflitta con la sentenza di primo grado, che sia stata riformata dalla sentenza di appello dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione, decisione, questa, poi seguita dalla conforme sentenza delle Sezioni Unite, 30/10/2008 n. 4187/09, Pellegrino); - sia quelle sentenze interpretative di rigetto, che hanno riconosciuto all’art. 314 c.p.p. un ambito applicativo più esteso rispetto al mero dato letterale (n. 284 del 2003, sull’ingiusta detenzione subita in esecuzione di un ordine di carcerazione inizialmente legittimo ma che, per un fatto sopravvenuto alla sua emissione correlato all’accertamento ex post che la pena risultava già espiata all’estero, era da revocare siccome in violazione del divieto di bis in idem; n. 230 del 2004, sul riconoscimento del diritto all’equa riparazione anche in favore di colui che abbia subito un periodo di custodia cautelare per un fatto dal quale sia poi stato prosciolto per la preclusione del giudicato ex art. 649 c.p.p.; n. 231 del 2004, sull’analogo riconoscimento dell’indennizzo in favore di un soggetto che, a seguito di richiesta di estradizione passiva di uno Stato estero, abbia subito un periodo di custodia cautelare provvisoria in Italia e sia poi stato messo in libertà, essendo stata accertata ex post la carenza di giurisdizione dello Stato estero; n. 413 del 2004, che ammette la riparazione per ingiusta detenzione anche in caso di archiviazione per morte del reo, qualora successivamente sia stata pronunciata nei confronti dei coimputati, sulla base del medesimo materiale probatorio, sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste).1.4. – Orbene, dall’analisi logico-sistematica e da una lettura costituzionalmente orientata della normativa di riferimento e delle fonti internazionali pattizie, pure recepite dal nostro ordinamento, sembra lecito concludere che, se l’equa riparazione per ingiusta detenzione è stata ammessa in taluni casi di non corretto esercizio della giurisdizione cautelare, a maggior ragione il fondamento solidaristico del diritto ad un equo indennizzo per la custodia cautelare ingiustamente subita dev’essere riconosciuto laddove venga messa radicalmente in discussione - addirittura - la “ontologica legalità e validità” del titolo coercitivo, a causa della violazione da parte del giudice del fondamentale principio della domanda, con riguardo al difetto, da accertare ex post, della iniziativa del pubblico ministero. Iniziativa nell’esercizio dell’azione cautelare che, siccome istituzionalmente riservata in via esclusiva all’organo dell’accusa, costituisce l’ “indefettibile antecedente” e il prius logico del provvedimento restrittivo della libertà personale, ponendosi, quindi, “a monte” del perimetro delle condizioni di applicabilità della misura di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., la cui accertata insussistenza (soltanto) è tuttavia configurata, nella formulazione letterale del secondo comma dell’art. 314, come presupposto dell’azione di riparazione per l’ingiusta detenzione. Né può considerarsi di ostacolo alla praticabilità della cennata operazione ermeneutica di adeguamento della normativa, che consenta di ricostruirne la portata in sintonia con i valori costituzionali e con i progressivi ed incisivi interventi del Giudice delle leggi, l’esistenza di una disciplina per il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e per la responsabilità civile dei magistrati, posto che, secondo l’espressa previsione dell’art. 14 della legge n. 117 del 1988, le disposizioni di tale legge non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione (v., in tal senso, C. cost., sent. n. 310 del 1996). In ordine al quesito interpretativo riportato in premessa può pertanto enunciarsi il principio di diritto per cui “persiste l’interesse all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva, ai fini del giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more sia stato revocato con la conseguente rimessione in libertà dell’interessato, non attengano alla mancanza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., bensì alla prospettata carenza di domanda cautelare”.2. – Ciò posto, resta peraltro ancora da dimostrare la fondatezza della dedotta nullità dell’ordinanza coercitiva, per la pretesa mancanza di domanda cautelare nel caso, denunziato dal ricorrente, di difetto di assenso o, come nella specie, di espresso dissenso del procuratore della Repubblica sulla richiesta di misura coercitiva avanzata dai magistrati dell’ufficio del pubblico ministero assegnatari del procedimento. Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere, infatti, all’ulteriore quesito “se l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3 comma 2 d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, si configuri come condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento, e quindi di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice”: quesito in ordine al quale non è dato rinvenire alcun precedente nella giurisprudenza di legittimità in considerazione della novità dell’assetto ordinamentale in materia.2.1. – La “riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero” ha costituito uno dei più significativi obiettivi della legge delega 25/7/2005 n. 150 per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12 del 1941, i cui principi e criteri direttivi, dettati in particolare dagli artt. 1, comma 1 lett. d), e 2 comma 4, hanno trovato attuazione nel d.lgs. 20/2/2006 n. 106, successivamente modificato dalla legge 24/10/2006 n. 269. Il vigente quadro normativo, pur non riproducendo il tradizionale modello gerarchico disegnato dall’originario art. 70 ord. giud. alla stregua della natura impersonale delle attività e della funzione dell’organo (“… i procuratori della Repubblica esercitano le loro funzioni personalmente o per mezzo dei dipendenti magistrati addetti ai rispettivi uffici”: disposizione, questa, scrutinata positivamente dalla Corte costituzionale con sentenza n. 52 del 1976), si caratterizza tuttavia, da un lato, per l’accentuazione del ruolo di “capo” del procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti e dei rapporti con i sostituti, e, dall’altro, per la corrispondente, parziale, compressione dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio. Al fine di meglio assicurare le esigenze di efficienza, coordinamento, uniformità e ragionevole durata dell’azione investigativa, al procuratore della Repubblica, definito “preposto all’ufficio del pubblico ministero” e “titolare esclusivo” dell’azione penale, è affidato, tra l’altro, il potere-dovere: - di determinare i criteri generali di organizzazione dell’ufficio e di assegnazione dei procedimenti; - di stabilire, di volta in volta, gli specifici criteri ai quali il magistrato assegnatario deve attenersi nell’esercizio delle attività conseguenti all’atto di assegnazione del procedimento; - di revoca dell’assegnazione in caso di inosservanza dei principi e dei criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, e in caso di “contrasto” circa le modalità di esercizio delle relative attività. In particolare, il procuratore della Repubblica è titolare di speciali “prerogative” in materia di misure cautelari, prescrivendo l’art. 3, commi 1 e 2 d.lgs. n. 106/06 che “l’assenso scritto del procuratore della Repubblica … è necessario”, oltre che per il fermo di indiziato di delitto, “anche per la richiesta di misure cautelari personali” formulata da un magistrato dell’ufficio. Si avverte peraltro autorevolmente in dottrina (cons. anche la Risoluzione 12/7/2007 del Consiglio Superiore della Magistratura) che, soprattutto all’esito delle sostanziali modifiche apportate all’impianto del d.lgs. n. 106/06 ad opera della l. n. 269/06 (in punto di eliminazione delle parole “sotto la propria responsabilità” in relazione all’esercizio dell’azione penale da parte del procuratore della Repubblica, di sostituzione del termine “delega” con quello di “assegnazione” in tema di distribuzione degli affari, di procedimentalizzazione della fattispecie di revoca dell’assegnazione), vanno comunque osservate, nell’esercizio della potestà di direzione e di organizzazione, le basilari regole di funzionamento dell’ufficio, ispirate ai principi di legalità, imparzialità, buon andamento e trasparenza dell’amministrazione. E si aggiunge che, alla luce dei valori costituzionali espressi dagli artt. 101, 102, 105, 107 e 112 Cost., riferibili nel sistema di giustizia penale anche alla figura del magistrato del pubblico ministero, in virtù del “rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia” dell’attività di esercizio dell’azione penale con l’attività decisoria e della soggezione, al pari del giudice, soltanto alla legge (C. cost., n. 96 del 1975 e n. 88 del 1991), va altresì preservata per il singolo sostituto la sfera di autonomia professionale, di dignità e di responsabilità decisionale per le funzioni esercitate in conseguenza dell’assegnazione del procedimento. Così come non si dubita che restano in vigore rispetto alle attività di udienza, anche non dibattimentale, le prescrizioni degli artt. 70, comma 4 ord. giud. e 53 c.p.p. (attuativo della specifica direttiva n. 68 della legge delega del 1987) circa la “piena autonomia” e la ordinaria insostituibilità del magistrato del pubblico ministero che esercita le relative funzioni di accusa: regola, questa della piena autonomia del magistrato in udienza, che è certamente destinata a riflettere i suoi effetti anche sul potere di iniziativa cautelare dallo stesso eventualmente attivato in tali fasi. 2.2. – Si è già detto del “necessario” e indeclinabile “assenso scritto” del procuratore della Repubblica per tutti gli atti che incidono sulla libertà personale, che, stabilizzando normativamente la prassi già invalsa del “visto” del capo dell’ufficio, limita l’autonomia decisionale del sostituto assegnatario del procedimento, ma trova razionale giustificazione nella finalità del corretto perseguimento di linee uniformi di indirizzo e di condotta dell’ufficio di procura, rispetto a quella che ben può dirsi intrinsecamente la più rilevante delle attività affidate all’organo dell’investigazione e dell’accusa. L’assenso, che deve assumere la forma scritta, si colloca chiaramente in una fase che è immediatamente successiva alla formulazione della richiesta della misura cautelare da parte del magistrato assegnatario del procedimento, e però antecedente l’inoltro della medesima richiesta al giudice per le indagini preliminari. Di talché, sembra evidente che, una volta esaurito inutilmente il pur doveroso metodo del confronto onde evitare il radicarsi di una situazione di conflitto e addivenire alla “concertazione” preventiva in merito alla richiesta, l’eventuale persistenza del “dissenso” del capo dell’ufficio sul provvedimento da adottare in materia di libertà personale segnali un’ipotesi di “contrasto” circa le concrete modalità di esercizio delle attività relative alla trattazione del procedimento assegnato al sostituto. Vengono quindi a determinarsi le condizioni previste dal secondo comma dell’art. 2 d.lgs. n. 106/06, sost. dalla l. n. 269/06, perché il sostituto, il quale non intenda recedere dall’originaria richiesta, chieda di essere esonerato dalla trattazione del procedimento a tutela della sua autonomia professionale, ovvero il procuratore della Repubblica possa, con atto motivato, “revocare l’assegnazione”, cui il magistrato può replicare presentando “osservazioni scritte”: procedura, questa, rispetto alla cui legittimità non è escluso il potenziale intervento dei titolari dell’azione disciplinare e dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, chiamato a verificare, non solo a fini disciplinari, la congruità delle determinazioni sia del capo dell’ufficio sia del sostituto. Quel che sembra incontrovertibile è che, non potendo non prevalere in materia la riserva di prerogativa del procuratore della Repubblica, non è consentito procedere all’inoltro della richiesta di una misura cautelare personale in difetto di assenso del capo dell’ufficio, presupponendo necessariamente l’atto di inoltro che il tenore della richiesta venga previamente concertato fra il magistrato assegnatario del procedimento che l’ha formulata e il procuratore della Repubblica che l’ha assentita. S’intende dire che, laddove si prospetti, per contro, un conflitto in merito alla più incisiva delle modalità di esercizio dell’attività relativa alla trattazione di un procedimento assegnato al sostituto, la rigida disciplina procedimentale in tema di “contrasto” e di “revoca” dell’assegnazione pretende che la vicenda venga doverosamente incanalata lungo i binari segnati dall’art. 2, comma 2 d.lgs. n. 106/06, sost. dalla l. n. 269/06, precludendosi decisamente sia al sostituto l’inoltro di una richiesta formulata in difetto di assenso o con l’espresso dissenso del procuratore della Repubblica, sia a quest’ultimo l’inoltro della medesima richiesta, seppure corredata dall’atto del suo parziale o totale dissenso. Orbene, osserva il Collegio che non può seriamente dubitarsi della irritualità del percorso adottato, nel caso in esame, da tutti i protagonisti della vicenda - il procuratore della Repubblica e i magistrati assegnatari del procedimento -, i quali hanno proceduto all’inoltro al giudice di una richiesta di misura coercitiva nei confronti dell’indagato, corredata dall’espresso dissenso scritto del procuratore della Repubblica, il quale optava per l’applicazione di una meno grave misura di tipo interdittivo, così erroneamente ritenendosi l’atto di dissenso, per un verso, come un’autonoma e diretta richiesta del capo dell’ufficio da inoltrare al giudice e, per il verso opposto, come un mero parere da sottoporre alla “libera valutazione dell’organo giurisdizionale”.2.3. – E però non sembra cogliere nel segno la tesi difensiva, pur perspicuamente argomentata nei motivi di ricorso, della nullità assoluta dell’ordinanza applicativa della misura coercitiva, sotto il profilo della mancanza di una valida ed efficace domanda cautelare, in ragione del dissenso espresso dal procuratore della Repubblica sulla richiesta dei magistrati assegnatari del procedimento. Ritiene, infatti, il Collegio che la norma dell’art. 3 d.lgs. n. 106/06 riguardi esclusivamente l’organizzazione “interna” dell’ufficio di Procura ed abbia valenza meramente ordinamentale e disciplinare, senza che le eventuali condotte elusive della prerogativa riservata al procuratore della Repubblica da parte del sostituto, da un lato, o le eventuali determinazioni strumentali del primo, lesive dei pur legittimi spazi di autonomia spettanti al secondo, dall’altro, possano rivestire alcun rilievo “esterno” sul terreno del regime propriamente processuale della misura cautelare. A prescindere dal mero riflesso indiretto che l’osservanza della regola ordinamentale è potenzialmente idonea a determinare nella sfera giuridica del soggetto che sia privato della libertà personale, ostano, ad un’asimmetrica proiezione delle conseguenze derivanti dal difetto di assenso del procuratore della Repubblica sul terreno processuale, insormontabili ragioni di ordine logico-sistematico. Dalla citata fonte normativa di tipo ordinamentale non s’evince affatto che l’assenso del procuratore della Repubblica concorra al perfezionamento strutturale dell’atto di esercizio dell’azione cautelare e alla compiuta integrazione del procedimento applicativo della misura cautelare personale ex artt. 291 e 292 c.p.p., in termini di inammissibilità della richiesta se priva dell’assenso (a favore dell’appellabilità ex art. 310 c.p.p. di una siffatta declaratoria d’inammissibilità della richiesta cautelare, v. la recente Cass., sez. VI, 20/11/2008 n. 48441, P.M. in proc. Pirvan), ovvero di nullità dell’ordinanza del giudice se adottata nonostante la mancanza dell’assenso medesimo. Sicché, a fronte del silenzio legislativo sul punto e del concreto esercizio dell’azione cautelare, che sia comunque riconducibile all’impersonale struttura dell’ufficio del pubblico ministero tramite la figura del magistrato assegnatario dell’affare che abbia inoltrato la richiesta (pur priva di assenso o corredata da un espresso dissenso del procuratore della Repubblica), il principio di tipicità e di tassatività delle ipotesi di inammissibilità o di nullità degli atti processuali di cui all’art. 177 c.p.p. preclude al giudice la rilevabilità, d’ufficio o su istanza di parte, di quella che, estranea al piano processuale, si rivela come una irregolarità di sicuro e pregnante rilievo, ma sul distinto terreno ordinamentale e disciplinare. D’altra parte, tenuto conto che la prescrizione della “piena autonomia” del magistrato del pubblico ministero in udienza è destinata - come si è detto - a riflettere i suoi effetti anche sul potere di iniziativa cautelare dallo stesso eventualmente esercitato nelle fasi stricto sensu processuali, sarebbe davvero illogico ricostruire la fattispecie di invalidità dell’ordinanza cautelare in termini e funzioni differenziate, a seconda delle diverse fasi del procedimento o del processo in cui l’azione cautelare venga concretamente esercitata dal pubblico ministero. A favore della prospettata soluzione ermeneutica converge altresì la ricognizione sistematica delle norme che dettano le regole dirette a disciplinare i momenti di interferenza tra le leggi di ordinamento giudiziario e la legge processuale, da cui si desume che il rinvio alle norme di ordinamento giudiziario è operato dal codice di rito con esclusivo riguardo alla figura del giudice ed alla funzione giurisdizionale (v. l’art. 1, sulla giurisdizione penale; l’art. 33, sulla capacità del giudice; gli artt. 178 lett. a e 179 comma 1, sulla nullità di ordine generale e assoluta per l’inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi; l’art. 36, comma 1 lett. g, in tema di astensione e ricusazione del giudice che si trovi in una situazione di incompatibilità; l’art. 43, sulla sostituzione del giudice astenuto o ricusato con altro magistrato dello stesso ufficio; l’art. 610 comma 1-bis, sull’assegnazione dei ricorsi alle singole sezioni della Corte di cassazione; l’art. 163-bis disp. att., circa gli effetti dell’inosservanza delle disposizioni di ordinamento giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica; l’art. 169-bis disp. att., circa la predeterminazione tabellare della sezione della corte di cassazione per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi). E viceversa, ancora con riferimento agli uffici giudicanti, l’art. 7-bis, comma 1 ultimo periodo, del r.d. n. 12 del 1941, aggiunto dall’art. 4, comma 19 lett. b, l. n. 111 del 2007, avverte che in nessun caso la violazione dei criteri (tabellari) per l’assegnazione degli affari, salvo il possibile rilievo disciplinare, determina la nullità dei provvedimenti adottati. Per contro, in nessun’altra disposizione di ordinamento giudiziario o del codice di rito si fa menzione di un eventuale rilievo processuale delle eventuali violazioni di norme dirette a disciplinare l’organizzazione interna dell’ufficio del pubblico ministero, neppure in tema di previsione di nullità degli atti del procedimento per quel che attiene, ai sensi dell’art. 178 lett. b c.p.p., all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e alla sua partecipazione al procedimento. Occorre inoltre sottolineare che, riflettendo sul tema delle interferenze tra legge ordinamentale e legge processuale, con particolare riguardo alle regole di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, la giurisprudenza di legittimità, sia pure in casi e per fini diversi da quelli in esame, ha in più occasioni affermato il principio di impermeabilità processuale rispetto alle eventuali violazioni di tali regole. Hanno affermato le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30/10/2003 n. 45276, P.G. in proc. Andreotti, rv. 226089), con riferimento all’attribuzione del potere di impugnazione delle sentenze d’appello, che “non assumono … alcun rilievo esterno i criteri tabellari stabiliti per l’organizzazione dei servizi e la distribuzione delle incombenze negli uffici di procura, non inerendo comunque, all’evidenza, le garanzie costituzionali di legale precostituzione e di terzietà del giudice, cui pure s’ispira il sistema tabellare, al ruolo e alla struttura organizzativa degli uffici requirenti”, sicché “l’eventuale inosservanza dei criteri di organizzazione dell’ufficio della procura … non costituisce fonte di sanzioni processuali e non incide affatto sulla legittimazione del singolo magistrato della medesima procura a ricorrere per cassazione”, sempre che quel magistrato sia provvisto dei requisiti essenziali per ricoprire l’incarico e appartenga all’ufficio, inteso nella sua organica unitarietà, delle cui funzioni faccia esercizio. E la giurisprudenza delle Sezioni semplici ha chiarito, a sua volta, che non è dato apprezzare la nullità ex art. 178 lett. b c.p.p., sotto il profilo della capacità o legittimazione del pubblico ministero, con riguardo alle attività compiute da magistrati onorari o ufficiali di polizia giudiziaria, delegati per l’udienza pretorile prima e per l’udienza dinanzi al tribunale in composizione monocratica poi, in violazione dei limiti operativi fissati dall’art. 72 ord. giud. (Cass., sez. VI, 3/7/1996 n. 8815, Bartolomei, rv. 205909; sez. VI, 10/1/2001 n. 20110, P.M. in proc. Sagone, rv. 219153), o alla mancanza in atti del provvedimento di assegnazione del procedimento al sostituto richiedente l’archiviazione (sez. VI, 19/11/2002 n. 18178, Stara, rv. 225212), una volta che il soggetto che svolga tali funzioni sia comunque investito delle relative attribuzioni. Neppure può considerarsi priva di significato, infine, la circostanza che il Governo s’appresti a realizzare un’opposta soluzione normativa della questione controversa, in termini di cogente interazione fra la disposizione di ordinamento giudiziario che disciplina le prerogative del procuratore della Repubblica in materia cautelare e le regole propriamente processuali della richiesta e dell’ordinanza cautelare. Nel recente schema di disegno di legge governativo di riforma del procedimento penale, adottato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 6/2/2009, risulta infatti formulata un’apposita disposizione - l’art. 3, comma 1 lett. c) - che, mediante l’inserimento nell’art. 291 c.p.p. del nuovo comma 1-ter, configura esplicitamente l’assenso scritto del procuratore della Repubblica come condizione di ammissibilità della richiesta cautelare del pubblico ministero (“a pena di inammissibilità”), nei casi in cui l’assenso è previsto ai sensi dell’art. 3 d.lgs. n. 106 del 2006. E con la norma transitoria di cui al successivo art. 33, comma 5, si precisa, inoltre, che “le disposizioni di cui all’articolo 291, comma 1-ter, del codice di procedura penale, così come introdotto dall’articolo 3, comma 1 lett. c), non si applicano alle richieste di misura cautelare presentate in data anteriore a quella di entrata in vigore della presente legge”. L’innovativa scelta legislativa, rispetto al vigente quadro normativo e giurisprudenziale, sembra pertanto rafforzare - argomentandosi a contrario - la tesi dell’ordinaria impermeabilità del processo penale alle regole di ordinamento giudiziario inerenti all’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero.2.4. – Le precedenti riflessioni convergono dunque univocamente nel senso che “l’assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall’art. 3 comma 2 del d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106, non si configura come condizione di ammissibilità della richiesta di misure cautelari personali presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero assegnatario del procedimento, né di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice”. Attesa pertanto, alla stregua del suindicato principio di diritto, l’infondatezza delle censure mosse dalla difesa del ricorrente avverso l’ordinanza impugnata, il ricorso va rigettato con le conseguenze di legge.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

martedì 24 febbraio 2009

CONTRATTI – CONTRATTO TELEFONICO - DOCUMENTAZIONE DEI CONSUMI - SPESE DI SPEDIZIONE DELLA FATTURA

Sentenza n. 3532 del 13 febbraio 2009
La S.C. ha escluso che le spese di spedizione della fattura relative al consumo telefonico possano rientrare tra quelle relative alla “emissione della fattura” ed ai “conseguenti adempimenti e formalità” (spese che la disciplina dell’IVA, di cui al d.P.R. n. 633 del 1972, prevede che gravino sull’impresa telefonica, escludendole dalla base imponibile), ed ha rimesso al giudice di rinvio di valutare se sia valida la clausola contrattuale che addossi al cliente tali spese di spedizione della fattura.

CIRCOLAZIONE STRADALE - SANZIONI - GUIDA IN STATO DI EBBREZZA - RIFIUTO DI SOTTOPORSI ALL'ACCERTAMENTO DEL TASSO ALCOLEMICO

Non sussiste concorso apparente fra le fattispecie, punite in due diversi commi del medesimo articolo 186 del codice della strada, di guida in stato di ebbrezza (comma 2) e rifiuto di sottoporsi all’accertamento del tasso alcolemico (comma 7) , trattandosi di fattispecie diverse sia per quanto riguarda il contenuto e la struttura della norma sia per quanto attiene alla tutela dei beni giuridici. Ne deriva la legittimità dell’irrogazione della sanzione della decurtazione complessiva di venti punti dalla patente di guida, costituenti la somma della decurtazione di dieci punti per ognuna delle violazioni.

Testo Completo:
Sentenza n. 3745 del 16 febbraio 2009(Sezione Seconda Civile, Presidente A. Elefante, Relatore V. Colarusso)

lunedì 23 febbraio 2009

DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO – DANNEGGIAMENTO - AGGRAVANTE DEL FATTO COMMESSO CON VIOLENZA ALLA PERSONA - CONDIZIONI

La S.C. ha ribadito che la circostanza aggravante del fatto commesso con violenza alla persona (art. 635, comma 2 n. 1 cod. pen.) non è configurabile qualora manchi la contestualità tra l’azione di danneggiamento e la condotta violenta e quando non vi sia alcun nesso strumentale che ricolleghi l’una e l’altra.

Testo Completo:
Sentenza n. 5534 del 13 gennaio 2009 - depositata il 9 febbraio 2009(Sezione Quinta Penale, Presidente G. Ambrosini, Relatore G. Marasca)

LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) - MISURE VOLTE A PREVENIRE I FENOMENI DI VIOLENZA IN OCCASIONE DI COMPETIZIONI SPORTIVE

Con una interessante decisione, la S.C., nel soffermarsi nuovamente sulla disciplina in tema di “Daspo”, puntualizza alcuni principi fornendo un ulteriore contributo di chiarezza in materia, in particolare affermando: a) che deve essere annullata per violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità ex art. 178, lett. c) cod. proc. pen. l’ordinanza con la quale il giudice convalida il provvedimento impositivo dell’obbligo di comparizione ad un ufficio o comando di polizia ex art. 6 L. n. 401 del 1989 prima che sia trascorso, da un lato, il termine dilatorio di 48 ore dalla notifica all’interessato del provvedimento del Questore e, dall’altro, il termine di 24 ore dal deposito in cancelleria della richiesta di convalida e della annessa documentazione amministrativa; b) che l’annullamento, sia per vizio di motivazione che per inosservanza dei diritti di difesa, deve essere sempre disposto con rinvio ad altro giudice (v. Sez. Un., 2005, Spinelli), senza tuttavia che ciò comporti alcuna decadenza della misura di prevenzione disposta dal Questore, la quale resta “medio tempore” ancora eseguibile ed esecutiva; c) che, infine, il giudice del rinvio deve procedere a nuova valutazione del provvedimento questorile, a seconda dei casi ovviando al vizio motivazionale accertato ovvero concedendo all’interessato il termine necessario per esercitare il contraddittorio cartolare, essendo sufficiente, in tale ultimo caso, che il giudice avvisi l’interessato che, a decorrere dalla notifica dell’avviso, ha un ulteriore termine di 48 ore per presentare memorie o deduzioni scritte, anche tramite difensore, termine scaduto il quale il giudice di rinvio avrà ulteriori 48 ore per decidere sulla convalida.

Testo Completo:
Sentenza n. 5502 del 6 novembre 2008 - depositata il 9 febbraio 2009(Sezione Terza Penale, Presidente A. Grassi, Relatore P. Onorato)

GIUDIZIO - DISCUSSIONE FINALE - CONCLUSIONI - PUBBLICO MINISTERO CHE RASSEGNI LE CONCLUSIONI SOLO IN RITO E NON NEL MERITO - NULLITA' - ESCLUSIONE

Con la decisione in esame, in una fattispecie nella quale il pubblico ministero, all’esito della discussione dibattimentale, si era limitato a formulare ed illustrare le proprie conclusioni solo in rito (in particolare, chiedendo la sospensione del processo per la presentazione della domanda di condono edilizio da parte degli imputati) e non nel merito, la Corte ha affermato che non è ravvisabile alcuna nullità ai sensi dell’art. 179, lett. b) cod. proc. pen. ove il P.M., nella sua discrezionalità tecnica, concluda la requisitoria dibattimentale con una richiesta in rito non ritenendo possibile allo stato l’accesso al giudizio di merito, in quanto ciò non configura un difetto della sua doverosa partecipazione dialettica alla discussione dibattimentale, poiché tale dovere di partecipazione deve essere valutato in ordine all’an e non al quomodo.

Testo Completo:
Sentenza n. 5498 del 2 dicembre 2008 - depositata il 9 febbraio 2009(Sezione Terza Penale, Presidente A. Grassi, Relatore O. Onorato)

RESPONSABILITA' CIVILE - ATTIVITA' PERICOLOSA - ATTIVITA' DI ORGANIZZAZIONE DI UNA GARA DI BOB - RESPONSABILITA' DEGLI ORGANIZZATORI

Posto che l’attività di organizzazione di una manifestazione sportiva agonistica connotata, secondo esperienza, da elevata possibilità di incidenti dannosi, come nel caso di una gara di bob, costituisce attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., nella misura in cui espone gli atleti a conseguenze più gravi di quelle che possono essere prodotte da errori compiuti dai medesimi nel corso della gara, ai fini dell’accertamento della responsabilità degli organizzatori, in caso di incidente, occorre verificare se detta pericolosità sia stata o meno aumentata, in concreto, da difetti od errori nella predisposizione delle normali cautele atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva.

Testo Completo:
Sentenza n. 3528 del 13 febbraio 2009(Sezione Terza Civile, Presidente e Relatore P. Vittoria)

DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA - RICORSO PER CASSAZIONE - CONTENUTO - PRINCIPIO DI AUTOSUFFICIENZA

In relazione ad una causa risarcitoria avente ad oggetto dichiarazioni asseritamente diffamatorie compiute a mezzo stampa, la parte che muova delle critiche alla valutazione compiuta dal giudice di merito, sia in fatto che in diritto, circa la natura diffamatoria dello scritto in questione e la sussistenza del relativo reato, è tenuta, in ossequio al c.d. principio di autosufficienza del ricorso, ad individuare - se del caso riproducendolo direttamente, ove necessario in relazione all'oggetto della critica di cui al motivo, ed eventualmente indirettamente, ove l'apprezzamento della critica lo consenta - il contenuto dell'articolo nella parte cui la critica si riferisce, specificando anche dove la Corte possa esaminare l'articolo per verificarne la conformità del contenuto riprodotto rispetto a quello effettivo.

Testo Completo:
Sentenza n. 3338 delL'11 febbraio 2009(Sezione Terza Civile, Presidente L. F. Di Nanni, Relatore R. Frasca)

venerdì 20 febbraio 2009

LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) – CONVALIDA DEL PROVVEDIMENTO DI DIVIETO DI ACCESSO AD IMPIANTI SPORTIVI

La pronuncia, relativa al tema della convalida del provvedimento del questore di divieto di accesso agli impianti sportivi, dopo avere ribadito che l’ordinanza di convalida del Gip non può essere adottata prima che siano decorse quarantotto ore dalla notifica del provvedimento all’interessato onde garantire a questi la facoltà di presentare memorie e deduzioni, aggiunge, in termini inediti, che una analoga esigenza di garanzia del contraddittorio si impone in relazione in particolare alla previsione di legge in ordine alla trasmissione al Gip, da parte del P.M., della documentazione relativa al provvedimento questorile; anche in relazione a tale incombente, infatti, deve essere, secondo la Corte, assicurato all’interessato un termine adeguato per l’esame di detta documentazione, sicché il Gip non potrà adottare la relativa ordinanza se non decorso, oltre al termine di quarantotto ore dalla notifica di cui sopra, anche l’ulteriore termine di ventiquattro ore dal deposito della richiesta di convalida e della relativa documentazione.

Testo Completo:
Sentenza n. 6224 del 6 novembre 2008 - depositata il 13 febbraio 2009(Sezione Terza Penale, Presidente A. Grassi, Relatore P. Onorato)

ESECUZIONE FORZATA - ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE - CADUCAZIONE DEL TITOLO ESECUTIVO - CREDITORI INTERVENUTI - PROSECUZIONE DELL'AZIONE ESECUTIVA

La S.C. ha affermato che la caducazione del pignoramento iniziale, se non integrato da pignoramenti successivi, travolge ogni intervento, titolato o meno, con la conseguenza che i creditori intervenuti, anche se muniti di titolo, non possono proseguire nell’azione esecutiva immobiliare.

Testo Completo:
Sentenza n. 3531 del 13 febbraio 2009(Sezione Terza Civile, Presidente P. Vittoria, Relatore G. Travaglino)

REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - ABUSIVO ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE - SERVIZIO INFERMIERISTICO SVOLTO PRESSO UNA STRUTTURA CONVENZIONATA

Non integra il concorso nel delitto di abusivo esercizio della professione di infermiere la gestione in forma privatistica di un servizio infermieristico presso una struttura sanitaria, sia essa pubblica o convenzionata con il servizio sanitario nazionale, impiegando presso tale struttura infermieri in possesso di regolare titolo abilitante, ma non iscritti al relativo albo professionale, in quanto l’obbligo di iscrizione è previsto solo per coloro che esercitano liberamente la loro attività professionale mediante contratti d’opera conclusi direttamente con il pubblico dei clienti, a norma degli artt. 8 e 10 D.Lgs. n. 233/1946.

Testo Completo:
Sentenza n. 6491 del 4 novembre 2008 - depositata il 13 febbraio 2009
(Sezione Sesta Penale, Presidente A. Agrò, Relatore N. Milo)

LAVORO – ESTERNALIZZAZIONI - OBBLIGHI DI SICUREZZA GRAVANTI SUL DATORE DI LAVORO

Ove lavoratori dipendenti da più imprese siano presenti sul medesimo teatro lavorativo nel quale i rischi lavorativi interferiscono con l'opera o con il risultato dell'opera di altri soggetti (lavoratori dipendenti o autonomi) e concorrono a configurare l'ambiente di lavoro (ai sensi degli artt. 4 e 5 del d.P.R n. 547 del 1955), ciascun datore di lavoro è obbligato, ai sensi dell' articolo 2087 c.c., ad informarsi dei rischi derivanti dall'opera o dal risultato dell'opera degli altri attori sul medesimo teatro lavorativo e a dare le conseguenti informazioni e istruzioni ai propri dipendenti, l’applicazione di tale principio non subendo attenuazioni per la notorietà dell’impresa presso la quale il dipendente è inviato a lavorare per una presunta maggiore osservanza delle norme di prevenzione degli infortuni.

Testo Completo:
Sentenza n. 45 del 7 gennaio 2009(Sezione Lavoro, Presidente E. Mercurio, Relatore A. De Matteis)

mercoledì 18 febbraio 2009

PREVIDENZA - AZIONE GIUDIZIALE DEL LAVORATORE PER LA COSTITUZIONE DELLA RENDITA VITALIZIA - LITISCONSORZIO NECESSARIO NEI CONFRONTI DEL DATORE

Sussiste litisconsorzio necessario nei confronti del datore di lavoro e dell’INPS nel caso in cui il lavoratore, sostituendosi al datore di lavoro, agisca giudizialmente per ottenere la costituzione della rendita vitalizia per essersi il datore sottratto al versamento all’INPS della relativa riserva matematica, per il cui versamento questi resta obbligato, ferme restando le sanzioni penali a suo carico.

Testo Completo:
Sentenza n. 3678 del 16 febbraio 2009(Sezioni Unite Civili, Presidente V. Carbone, Relatore B. Balletti)

SPESE GIUDIZIALI CIVILI - DI CASSAZIONE - IN GENERE – SPESE DEL PROCEDIMENTO PER LA SOSPENSIONE DELLA SENTENZA DI APPELLO - LIQUIDAZIONE

In tema di spese processuali, fra le spese del giudizio di Cassazione vanno liquidate, ove richieste dall’interessato con specifica e documentata istanza - che deve comprendere gli atti relativi, da prodursi nel rispetto del secondo comma dell’art. 372 cod. proc. civ. – anche quelle inerenti al procedimento per la sospensione della sentenza impugnata, di cui all’art. 373 cod. proc. civ.. Ciò, salvo il caso di accoglimento del ricorso e rimessione da parte della Corte al giudice di rinvio della statuizione sulle spese del giudizio in cassazione, nella quale eventualità anche le spese del detto procedimento si intendono rimesse al giudice del rinvio.

Testo Completo:
Sentenza n. 3341 dell' 11 febbraio 2009(Sezione Terza Civile, Presidente L. F. Di Nanni, Relatore R. Frasca)

PATROCINIO DEI NON ABBIENTI – FALSE DICHIARAZIONI SUL REDDITO– REDDITO COMUNQUE RIENTRANTE NEI LIMITI DI LEGGE – REATO – SUSSISTENZA

Le Sezioni unite hanno affermato che integra il reato previsto dall’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’esposizione di dati falsi o l’omissione, totale o parziale, di dati di fatto veri nella dichiarazione sostitutiva ed in qualsiasi, dovuta, comunicazione contestuale o consecutiva, presentate per l’attestazione delle condizioni di reddito.

Testo Completo: Sentenza n. 6591 del 27 novembre 2008 - depositata il 16 febbraio 2009

(Sezioni Unite Penali, Presidente V. Carbone, Relatore M. Rotella)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 - Sabrina Infanti dichiarò, in istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato del 11.3.03 al Tribunale di sorveglianza di Palermo, di non avere redditi. Ammessa al beneficio, si verificò che era titolare di un immobile, implicante contratto con un'azienda, ed era proprietaria di autovettura.

Imputata del delitto aggravato, previsto e punito dall’art. 5 co. 7° L. n. 217/90, modif. con L. n. 134/01, norma trasferita nell'art. 95 DPR n. 115/02, T.U. delle "spese di giustizia", il G.U.P. di Palermo la condannava in giudizio abbreviato con generiche equivalenti a mesi 8 di reclusione ed euro 220 di multa.

La Corte di appello di Palermo ha confermato la condanna, non condividendo il principio di Cass. Sez. V, Bevilacqua, n. 16338 del 12.5.06, CED rv. 234124, secondo cui non sussistono estremi di reato, se il fatto non si sostanzi nella falsa dichiarazione di un reddito inferiore a quello fissato quale soglia di ammissibilità al beneficio.

Il difensore ha proposto ricorso per violazione dell’art. 95 DPR n. 115 del 2002 e dell’art. 192 CPP, ripetendo il principio della sentenza Bevilacqua. Ed ha concluso che nella specie, al di là di errore nelle dichiarazioni su prestampati offerti dalla difesa, è incontroverso che l'istante avrebbe potuto fruire del beneficio del patrocinio a spese dello Stato per il reddito poi accertato, sicché di delitto non è punibile.

2 - La IV Sezione di questa Corte, assegnataria del procedimento, a fronte della sentenza Bevilacqua e altre consecutive, ha fatto proprio il principio di Cass. Sez. III, Contino , n. 28340 del 20.6.2006 - rv. 236267, che afferma in senso opposto che l'ammissibilità al beneficio non esclude la punibilità del reato di pura condotta, come si desume dall'aggravamento di pena, quando la falsità sia stata determinante per l'ammissione, e confermano le disposizioni degli art. 96 e 98 del DPR 115/02.

E, pur condividendolo, poiché la questione ha dato luogo a contrasto segnalato dal Massimario (rel. n. 53 del 28.5.08), con ordinanza del 19.6 - 23.7.08 ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618 del Codice di procedura penale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 - La questione controversa è "se il reato previsto dall’art. 95 D.P.R. n. 115 del 2002 sia integrato da falsità od omissioni nelle dichiarazioni o comunicazioni per l’attestazione di reddito necessarie per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato o il mantenimento del beneficio, anche se il reddito accertato non dovesse superare la soglia minima prevista dalla legge".

Il DPR n. 115 del 30.5.02, incorporando la disciplina del patrocinio a spese dello Stato negli artt. 74 ss.. del Testo Unico, ripete nell'art. 95 la norma incriminatrice dell’art. 5 della L. n. 134 del 29.3.01. Questa legge, a sua volta, aveva ripetuto la disposizione dell’art. 5/7° co. del DPR n. 217 del 30.7.90, ma non anche quella del 2° co. s. articolo, che specificava le allegazioni all'istanza di gratuito patrocinio.

Il contrasto, come dimostra l'analisi, è sorto in effetti per questa ragione, e s'incentra bensì sul falso nella dichiarazione sostitutiva contenuta nell'istanza di ammissione al beneficio, ma involge la ratio complessiva della norma incriminatrice.

1.1- Cass. Sez. V Bevilacqua, sopra citata, ha anzitutto affermato che la norma dell’art. 95 del DPR 115/02, immutata dal '90, è speciale rispetto a quella di cui all’art. 483 CP e che l’art. 95 rinvia all’art. 79, co. 1, lett. b), c) e d), che incorpora nella fattispecie criminosa solo alcune condotte di alterazione del vero.

Queste condotte si riassumono nella falsa attestazione di avere un reddito complessivo inferiore a quello fissato dal legislatore quale soglia di ammissibilità, ovvero nella negazione o nascondimento di mutamenti significativi per esso intervenuti, ai fini della valutazione dell’eventuale superamento della stessa soglia.

Pertanto non rileva qualsiasi infedele attestazione, ma solo quelle che abbiano, quale conseguenza, l’inganno potenziale o effettivo del destinatario della dichiarazione sostitutiva (lett. c). E tra esse non rientrano quelle che occultino redditi il cui ammontare non implichi superamento del limite, che esclude il diritto all’ammissione.

Nello stesso solco si calano Cass. Sez. V Salvaggio, 11.5.06 n. 21194, rv. 234207; Sez. V Abrunzo, 20.12.07 n. 4467/08, rv. 238880; Sez. V Gallo, n. 12019 del 19.2.08, rv. 239126; Sez. V Martorana, n. 15139 del 22.1.07, rv. 236143 e da ultimo Sez. V Caprarotta, n. 38759/08. Le sentenze, accentuando la finalità dell'attestazione, affermano il falso inidoneo all'inganno, se il reddito è comunque inferiore alla soglia di ammissibilità al beneficio. Sez. V, 11.12.07 n. 5532/08, Goman, rv. 239099 richiama invece la categoria del falso inutile o innocuo.

1.2 - Cass. Sez. III Contino, n. 28340 del 20.6.2006 ( rv. 236267) ha affermato invece che, in caso di falsa attestazione, il reato si ravvisa anche se il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l'ammissione del soggetto beneficiario al gratuito patrocinio per più ragioni.

Anzitutto, conformandosi a Sez. I, Mollica, n. 14403 del 25.1.01, rv. 218932, che tanto aveva affermato prima dell'entrata in vigore della L.134/01 con riferimento alle dichiarazioni relative alle variazioni del reddito, ha rilevato che la disciplina in materia esclude ogni discrezionalità da parte del soggetto da ammettere al beneficio.

Ha quindi rammentato che il falso, che non concerne solo la dichiarazione sostitutiva, ha ragione propria di punibilità nell'oggetto giuridico "pubblica fede".

Nella specie l'art. 95 prevede elemento psicologico del reato il dolo generico e "l'ottenimento o il mantenimento" del beneficio solo circostanza aggravante. Di più, in caso di condanna per il delitto aggravato, dispone revoca ex tunc del beneficio già concesso. La revoca del beneficio è parallelamente prevista dall'art. 112 per l'omissione di comuni¬cazioni in termini di eventuali variazioni dei limiti di reddito, per quanto non tali da implicare il superamento delle condizioni per il mantenimento.

L'insieme impedisce di ritenere irrilevante che il reddito accertato non superi il tetto previsto dalla legge, sia per l'ammissione che per il mantenimento del beneficio.

All'indirizzo hanno dato seguito Sez. V, 6.3.07 n. 13828, Palamara (rv. 236532) e Sez. V, 24.1.08 n. 13309, Marino, rv. 239387, che ha rimarcato in particolare le prescrizioni dell’art. 96 DPR cit., circa i fondati motivi per cui il magistrato respinge l'istanza di ammissione al beneficio, e dell’art. 98, secondo il quale dispone la verifica di esattezza dell'ammontare del reddito attestato, dopo l'ammissione al beneficio.

1.3 – In posizione in effetti intermedia si pone Cass., P.G. in proc. Scumaci, Sez. IV, 10.10 2007 n. 41306, rv. 237732, che formula un'eccezione al secondo indirizzo, affermando che la dichiarazione sostitutiva di cui all’art. 79, richiamata nell'art. 95, concerne solo i redditi.

Spiega che l'art. 5 della L. 134/01, incorporato nel DPR 115/02 ha abrogato la previsione dell’art. 5/2° co. L. 217/90. Pertanto la dichiarazione delle condizioni di reddito non concerne più i diritti reali su immobili e mobili registrati, ed il reato non sussiste se in proposito è falsa (conf. Sez. V, Polito ed a., n. 26031/08).

2 - La soluzione in effetti implica anzitutto verifica dell'evoluzione normativa.

La L. 134/01, le cui disposizioni sono state incorporate nel T.U. sulle spese di giustizia, ha bensì soppresso l'obbligo di cui all'art. 5/ co. 2° DPR 217/90, di specifiche allegazioni all'istanza di ammissione al beneficio.

Ma l'art. 79/3° co. del DPR 115/02 prevede in via surrogatoria che il consiglio forense competente a provvedere in via anticipata, e quindi il giudice possano chiedere all'istante, a pena di inammissibilità dell'istanza, di produrre documentazione.

Di più l'art. 96 prevede che, ammessa l'istanza, prima di decidere sull'ammissione al beneficio, il magistrato può chiedere verifiche tempestive dei dati offertigli alla G. di Finanza, non la verifica dell'esattezza del reddito attestato, nonché la compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell'anagrafe tributaria. Questo compito è affidato all'ufficio finanziario solo dopo che il giudice ha ammesso l'istante al beneficio e cioè deciso l'accoglimento (art. 98). All'evidenza allegazioni e verifiche provvisorie sono condizionate dai tempi (si pensi all'istanza d'imputato detenuto).

Perciò, dal 2001, la legge inversamente accentua l'onere di attestazione dell'istante a fine di prova delle sue condizioni di reddito, qualificando sostitutiva la dichiarazione incorporata nell'istanza, con il richiamo all'art. 46/1° co. lett. o del DPR n. 445/00 nell'art. 79/1° co. lett c. del DPR 115/02, cui rinvia l'art. 95. E, nel contempo, gli lascia la possibilità, senza obbligo, di avvalersi di moduli predisposti.

All'uopo l'articolo 79/1 lettera "c " prevede che la dichiarazione attesti la "sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione con spe¬cifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità dell'articolo 76". E l'art. 76 fa rinvio alla dichiarazione dei redditi IRPEF.

I singoli dati reddituali sono dunque oggetto indiscriminato di attestazione, secondo il modello tipico recepito. La ragione di specifica determinazione si collega inoltre al rinvio dell'art. 95 anche alle lettere b e dell'art. 79 1° co.

La lettera "b" prescrive l'indicazione delle generalità proprie e dei componenti della famiglia anagrafica e relativi codici fiscali. E si connette all'art. 92, che eleva il limite di reddito per l'ammissione, in quantità fissa per ognuno dei conviventi che non abbia reddito proprio, il che significa per contro che va sempre indicato il reddito dei conviventi. La lettera "d" afferma l'impegno a comunicare variazioni rilevanti dei limiti di reddito nell'anno precedente, la qualcosa presume appunto l'indicazione di ogni fonte, anche potenziale, di reddito. Il corollario è che i diritti reali su immobili devono essere dichiarati, non solo se fonti attuali (ad es. usufrutto), ma anche solo potenziali di reddito (ad es. nuda proprietà), perciò suscettibili di variazioni da comunicare per impegno assunto nell'istanza, come di seguito si precisa.

2.1 – Questa analisi sommaria del procedimento dimostra che la norma incriminatrice, per quanto rapporti la falsità della "dichiarazione sostitutiva" al modello dell'art. 483 CP, la cala in effetti in una previsione complessa, già per il suo tenore ed il correlato contenuto dell'istanza a pena di inammissibilità (v. l'esordio dell'art. 79).

Difatti la dichiarazione non ha per sé ad oggetto la sussistenza delle condizioni di reddito per l'ammissione al beneficio, bensì i dati da cui l'istante la induce (“determina”) quale risultato, suscettibile di valutazione discrezionale seppur vincolata dell’organo destinatario, come nel caso della dichiarazione IRPEF, su cui si modella.

E, posto che la dichiarazione sostitutiva è incriminabile per la falsità (commissiva od omissiva, v. oltre) dei dati che servono alla determinazione, s’intende il vincolo di incriminazione al principio di S.U. P.G. in proc. Proietti ed a., n. 1827/95 - rv. 200117, per cui la falsità si configura nella "parte descrittiva" dell'atto, salvo espressa eccettuazione dei fatti da attestare.

La singolarità della dichiarazione sostitutiva nel caso è inoltre dimostrata dal rilievo che la legge che autorizza il privato attestazione tipica a pena di falso (S.U. Lucarotti, n.6/99 e Gabrielli 28/00), di solito prevede che la riversi in atto pubblico a pubblico ufficiale, che si limiti ad at¬testare nell’atto di averla ricevuta. E, in ragione del fine dell'atto, la stessa legge pone al privato onere di allegarlo ad i¬stanza diretta a diverso organo, che adotta provvedimento sulla premessa del fatto attestato.

Il DPR 115/02 unifica la doppia azione, perché l'interessato al beneficio rende la dichiarazione con valenza attestativa nell'istanza rivolta al magistrato che la contiene a pena di inammissibilità (art. 96). E fa conto che il magistrato, dovendo subito decidere, possa solo chiedere documentazione o verifica degl'indici fornitigli, non altro.

In questa luce la norma penale sottolinea la necessità della compiuta ed affidabile informazione del destinatario che, a fronte della complessità del tenore dell'istanza cui è speculare la valutazione da svolgere, ha urgenza di decidere.

La necessità di dettaglio del tenore dichiarativo dell'istanza è significato in maniera risolutiva dall'art. 96/2° co. del DPR 112/02, che prescrive: "il magistrato ... respinge l'istanza se vi sono fondati motivi di ritenere che l'interessato non versa nelle condizioni degli artt. 76 e 92, tenuto conto del tenore di vita, delle condizioni personali e familiari, e delle attività economiche eventualmente svolte". Il che, si è visto, connette tra l'altro le previsioni dell'art. 79/1 lett. b e c, in duplice senso all'art. 92.

La conclusione evidente è che la dichiarazione deve contenere senza eccezione i dati eventualmente già riversati nella diversa dichiarazione a fini IRPEF relativa ai redditi dell'anno precedente, in tal caso da allegare, salvo la possibilità di prendere in considerazione l'istanza di ammissione al beneficio, di chi non l'abbia presentata.

2.2 – Passando ora alla struttura del reato, risulta assorbente il rilievo che la locuzione "falsità od omissioni" non distingue il falso dalle altre condotte cui segue evento di pericolo, ed oltre di danno. Il falso è reato commissivo proprio, seppure consiste in omessa attestazione di fatto vero, sicché la ratio di incriminazione, già per lettera, non può essere confinata nell'ipotesi che ha dato luogo al contrasto.

L' incriminazione del reato di pura condotta, commissivo od omissivo che sia, ha funzione di sbarramento dell'evento di danno ulteriore. La funzione si è visto è accentuata dal collegamento del dovere di attestazione nell'istanza alla dichiarazione IRPEF dell'anno precedente, che può non essere stata rilasciata, e quindi dalla possibilità di respingere la stessa istanza allo stato per le attività, le condizioni di vita personali e familiari, ed il tenore di vita di chi chiede l'ammissione al beneficio.

Sicché l'incriminazione si correla da un lato al generale "principio antielusivo" che, affermato da questa Corte (v. da ultimo, Cass. Civ. n 10257/08 e n. 25374/08), s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’ art. 53 Costituzione, e perciò dell'art. 3. E si correla, dall'altro, all’art. 24/3° co. ulteriore corollario dell’articolo 3 del Patto fondamentale, in osservanza del quale l'art. 98 del Codice di procedura penale prevede la disciplina del patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato. Dal che è evidente che la punibilità del reato di pura condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del singolo verso le istituzioni.

E’ dunque apodittico il rilievo di sproporzione della gravità della pena prevista dall’art. 95 DPR cit. per un'ipotesi speciale del reato di cui all'art. 483 CP, in quanto analoga a quella prevista per la truffa aggravata. E non è in particolare giustificata l'implicazione d'innocuità o inutilità della falsità, correlata ad una soglia di ammissione al beneficio, che non risulta prevista dalla norma incriminatrice.

In genere l'innocuità del falso in un atto pubblico non va per sé ritenuta con riferimento all'uso che s'intende fare del documento, che non è necessario ad integrare la condotta incriminata, e può altrimenti integrare estremi di reato diverso (come rileva la sentenza Contino, rifacendosi a Cass., Sez. V, n.11681/97, rv. 209266).

In ispecie la lettera dell'art. 95 non condiziona la rilevanza dell'offesa della pubblica fede al fine patrimoniale dell'atto falso (cfr. Cass., S.U. Giordano ed a., n. 25887/03). Non opera, difatti, specifica addizione di qualifica all'evento di pericolo, o all'intenzione di risultato dell'agente (dolo specifico), sicché la falsità non può ritenersi innocua secondo parametro dell'evento, men che inutile secondo parametro del dolo.

E' questa la ragione di previsione dell'evento di danno come mera aggravante.

Né la condizione di punibilità può desumersi dal richiamo dell'art. 95 all'art. 79/1° co. lett. c, la cui disposizione, si è visto, si combina con altre norme per rinvio espresso (art. 76 e 92) o per rinvio implicito (v. anzitutto la distinzione di ammissibilità dell'istanza, che contiene tra l'altro la dichiarazione, dall'ammissione al beneficio od al rigetto dell'istanza in sé formalmente ammissibile, nell'art. 96).

E' dunque esclusa qualsiasi esenzione categorica di legge (innocuità), fuori del parallelo con quanto è dovuto nella dichiarazione IRPEF.

La questione d'inidoneità è circoscritta limiti dell'art. 49 CP, perciò diversa in quanto sempre e solo di fatto. In concreto è possibile ritenere inidonea all'offesa taluna omessa, e per sé falsa attestazione, quale quella di un diritto reale su mobile registrato. Ma va tenuto da conto che tale diritto deve essere dichiarato, già perché la titolarità del bene incide sulla valutazione del giudice, secondo il parametro del tenore di vita, ed a maggior ragione se all'esercizio del diritto si connette un'attività economica, altro metro decisivo per l'ammissione al beneficio (art. 96/1° co.).

Insomma se il reato concerne la parte determinativa della dichiarazione, che si connette al tenore della dichiarazione IRPEF, giusto il principio premesso di S.U. P.G. in proc. Proietti, la valutazione d'inidoneità all'inganno non può essere implicata dal rilievo che la determinazione non è stata fatta propria dal magistrato, che abbia respinto l'istanza. L'inidoneità del falso o dell'omissione va apprezzata con riferimento a quanto il magistrato potesse intendere, prima di decidere nel merito. E, a maggior ragione, l'inidoneità non può desumersi dalla prova certa di sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione a beneficio, che si consegue dopo che il magistrato l'abbia disposta, per la verifica compiuta deferita all'ufficio finanziario (art. 98).

2.3 - Concludendo, la specifica falsità nella dichiarazione sostitutiva (artt. 95 - 79 lett. c) è connessa all'ammissibilità dell'istanza non a quella del beneficio (art. 96/1° co.), perché solo l'istanza ammissibile genera obbligo del magistrato di decidere nel merito, allo stato. L'inganno potenziale, della falsa attestazione di dati necessari per determinare al momento dell'istanza le condizioni di reddito, sussiste quand'anche le alterazioni od omissioni di fatti veri risultino poi ininfluenti per il superamento del limite di reddito, previsto dalla legge per l'ammissione al beneficio.

Pertanto, la questione riceve risposta affermativa, nel senso che il reato di pericolo si ravvisa se non rispondono al vero o sono omessi in tutto o in parte dati di fatto nella dichiarazione sostitutiva, ed in qualsiasi dovuta comunicazione contestuale o consecutiva, che implichino un provvedimento del magistrato, secondo parametri dettati dalla legge, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni previste per l’ammissione al beneficio.

Ogni altra questione è di fatto e, si è visto, pone in discussione cosa il magistrato potesse intendere allo stato a stregua delle comunicazioni dovute, e per contro la volontà del privato di trarlo in inganno, in reato punibile a titolo di dolo generico.

3 - Su questa premessa, la sentenza impugnata risulta incensurabile.

L'atto incriminato, a quanto motiva la sentenza di primo grado e conferma quella di appello, omette il riferimento a diritti reali su immobile, cui è connessa una attività oggetto di contratto, e su mobile registrato, dati ritenuti rilevanti per la determinazione del Tribunale di Palermo ai sensi dell'art. 96 del DPR 115/02.

Il fatto non è innocuo, ed è stato ritenuto incensurabilmente idoneo all'inganno, ancorché il reddito complessivo sia, di seguito, risultato tale da non superare il limite previsto dalla legge.

Finalmente l'asserto incidentale di potenziale errore (quindi assenza del dolo generico), per indicazioni ricevute dall'imputata circa il tenore della dichiarazione da rendere, è di fatto, e non risulta specificamente sostenuto in appello.

p . q . m .

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.