Le Sezioni unite hanno stabilito il principio di diritto secondo cui la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, è applicabile ai delitti astrattamente 'punibili' con la pena edittale dell’ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa dall’ergastolo. Hanno poi precisato che, anche nel caso in cui in concreto sia irrogata la pena dell’ergastolo, la detta circostanza aggravante, pur non esplicando effetti nella determinazione della pena, deve essere contestata e presa in considerazione dal giudice nel suo significato di disvalore del fatto, sì da esplicare la sua efficacia ai fini diversi dalla determinazione della pena. Nell’occasione le Sezioni unite hanno chiarito che la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 assorbe la circostanza aggravante comune dei "motivi abietti" di cui all’art. 61 n. 1 c.p., se tale ultima aggravante è contestata in riferimento alla finalità di favorire o consolidare un’associazione di matrice mafiosa, mentre si ha concorso di circostanze se il motivo abietto è riferito ad una ragione non interamente sussumibile nel paradigma dell’aggravante speciale.
Testo Completo:
Sentenza n. 337 del 18 dicembre 2008 - depositata il 9 gennaio 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Canzio)
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Sentenza n. 337 del 18 dicembre 2008 - depositata il 9 gennaio 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore G. Canzio)
RITENUTO IN FATTO
1. – Iannaco Luigi, quale mandante, e Antonucci Antonio, quale esecutore materiale (con Angrisani Alfonso, deceduto), in concorso con Buonocore Mario, in appoggio logistico (con Caputo Nicola, giudicato separatamente) per i sopralluoghi e per l’avvistamento della vittima, e con Sorrentino Emanuele, addetto (con Sorrentino Antonio e Trapani Ferdinando, le cui posizioni non rilevano) alla custodia delle armi del gruppo criminale, incaricato prima del recupero dell’arma da utilizzare per il delitto e poi della custodia del giubbotto antiproiettile indossato dall’Antonucci nell’agguato, sono imputati dell’omicidio e dei connessi reati in materia di armi in danno di Fulgido Antonio, attinto da tre colpi di pistola cal. 9x21, di cui uno mortale al torace, nel corso di un agguato eseguito in Pagani il 22/2/2000. L’omicidio è stato contestato come aggravato dal numero delle persone, dalla premeditazione, dai motivi abietti e dalla circostanza dell’art. 7 d.l. n. 152/91, con riguardo all’intento di vendicare l’affronto subito da Iannaco, capo di un gruppo camorristico operante nel territorio di Pagani, il cui prestigio criminale sarebbe stato leso dal fatto che Califano Pepe Stella aveva interrotto una relazione sentimentale con lui per instaurarne un’altra con Fulgido. Inoltre, Iannaco è stato chiamato a rispondere (con Sorrentino Antonio e Trapani e, per una pistola cal. 7,65, anche con Sorrentino Emanuele) dei delitti di detenzione, porto e ricettazione di numerose armi, commessi al fine di agevolare le attività del gruppo criminale a lui facente capo, e dei reati di violenza privata e lesioni personali, aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/91, in danno della Califano per costringerla ad interrompere la relazione con Fulgido, intimandole di lasciare il comune di S. Egidio attesa la sua posizione di referente malavitoso in quella località. Secondo l’accusa, l’azione di fuoco era stata ideata e organizzata da Iannaco, che aveva manifestato e più volte ribadito l’intenzione, nei giorni immediatamente precedenti l’agguato, di far eliminare prima la donna e poi il rivale da uomini del suo gruppo; Angrisani, alla guida di una motocicletta precedentemente rubata, aveva accompagnato sul luogo del delitto Antonucci, il quale aveva esploso i colpi di pistola contro Fulgido, mentre Buonocore e Caputo, a loro volta, si trovavano a bordo di un’autovettura in appoggio ai primi. L’ipotesi accusatoria trovava conferma, innanzi tutto, nelle propalazioni di Sorrentino Emanuele, nipote di Iannaco, e in quelle di Caputo. Il primo ammetteva di avere consegnato al fratello Antonio, il giorno dell’omicidio, una pistola cal. 7,65 da tempo detenuta per conto dello zio e un giubbotto antiproiettile ricevuto poco dopo le ore 12 di quel giorno da Antonucci, dal quale s’era rifiutato di ricevere un’altra pistola sospettandone l’uso delittuoso pregresso: dichiarazioni, queste, confermate da Antonucci e Trapani. Il Caputo, dopo avere precisato che obiettivo della spedizione punitiva organizzata da Iannaco erano inizialmente la Califano e poi Fulgido e che solo la mattina del 22 febbraio gli era stato comunicato il mutamento dell’originario progetto di “gambizzazione” in deliberazione omicidiaria, ammetteva di avere partecipato, con Buonocore e Angrisani, alle operazioni di ricerca della vittima fin dal giorno 21, di essere stato costretto in quell’occasione a disfarsi della pistola cal. 9x21 dopo essere stati intercettati da una pattuglia di Carabinieri, di avere il giorno successivo svolto con Buonocore il ruolo di “staffetta”, mentre Antonucci, a bordo di una motocicletta guidata da Angrisani, eseguiva il delitto facendo fuoco con la medesima pistola cal. 9x21 che era stata nel frattempo recuperata da Sorrentino Emanuele su incarico dello zio. Buonocore, attinto dalla chiamata in correità di Caputo, corroborata dalle dichiarazioni dei collaboratori Principale e Contaldo, ammetteva di essersi recato la sera del 20 febbraio a casa di Iannaco per prendere ordini insieme a Caputo, di essere stato in compagnia di Angrisani e Caputo il 21 febbraio all’atto dell’incontro con la pattuglia dei Carabinieri e in compagnia di Caputo la mattina dell’omicidio. Iannaco confessava di essere stato il mandante dell’azione di fuoco, ma ribadiva (anche nel giudizio di appello) che obiettivo era la “gambizzazione” della vittima, mentre la morte sarebbe sopravvenuta per un errore dell’esecutore materiale. Siffatte dichiarazioni, parzialmente confessorie ed etero-accusatorie, erano altresì riscontrate dalle deposizioni de relato dei collaboratori Principale e Contaldo, i quali riferivano delle confidenze ricevute da Antonucci e Buonocore. 2. – Alla stregua delle suddette prove dichiarative, ritenute intrinsecamente attendibili, oltre che riscontrate reciprocamente e dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali, la Corte d’assise di Salerno, con sentenza del 14/12/2006, affermava la responsabilità di: - Iannaco e Antonucci per i delitti loro ascritti, esclusi per il secondo i reati attinenti alle armi diverse dalla pistola cal. 9x21 utilizzata per l’omicidio, e, ritenuta la continuazione, li condannava ciascuno alla pena dell’ergastolo, oltre l’isolamento diurno per la durata di un anno; - Sorrentino Emanuele e Buonocore per i delitti loro ascritti, limitatamente, quanto alle armi, alla pistola cal. 9x21 e per il Sorrentino anche della pistola cal. 7,65, e, ritenuta la continuazione, con le attenuanti generiche prevalenti sulla contestate aggravanti diverse da quella dell’art. 7 d.l. n. 152/91, li condannava ciascuno alla pena di anni venti di reclusione. I giudici di primo grado definivano l’omicidio “doloso”, sotto la forma del dolo alternativo o eventuale, per essersi i protagonisti indifferentemente rappresentato o per avere quantomeno accettato il rischio che l’utilizzo dell’arma da fuoco potesse determinare la morte anziché il ferimento di Fulgido, e “premeditato”, ravvisando altresì gli estremi dell’aggravante dei “motivi abietti” e di quella dell’art. 7 d.l. n. 152/91, quest’ultima sia per l’omicidio sia per i delitti concernenti le armi e, per il solo Iannaco, anche per i reati di violenza privata e lesioni in danno della Califano; a Iannaco e Antonucci venivano infine negate le attenuanti generiche.
3. – Nel corso del processo d’appello anche Antonucci confessava la sua partecipazione alla fase esecutiva del delitto, dichiarando: di avere avuto da Iannaco l’incarico di gambizzare Fulgido per punirlo della relazione amorosa instaurata con la sua ex fidanzata; di avere ricevuto la pistola e il giubbotto antiproiettile la stessa mattina e di essersi recato sul luogo dell’agguato a bordo della moto guidata da Angrisani; di essere stato avvisato da Caputo circa la presenza in officina della vittima e di avere sparato in direzione della stessa tre o quattro colpi in ripetizione, mirando fra le gambe e l’inguine; di avere riconsegnato il giubbotto a Sorrentino Emanuele, che s’era rifiutato di ricevere la pistola, e di essersi disfatto di questa in autostrada dopo avere telefonato a Iannaco, il quale non aveva in seguito commentato l’esecuzione dell’incarico; aggiungendo che “quando ho sparato mi sono reso conto che potevo uccidere Fulgido ma non mi sono fermato”. La Corte di assise d’appello di Salerno, con sentenza del 30/10/2007, condivideva integralmente, sulla base di una valutazione di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle suddette propalazioni confessorie ed etero-accusatorie, la ricostruzione probatoria della vicenda omicidiaria offerta dalla motivazione della sentenza di primo grado, quanto al contesto camorristico e alla causale, ai ruoli di Iannaco come mandante e di Antonucci come esecutore materiale, alla partecipazione di Buonocore alla fase preparatoria e a quella esecutiva in veste di “staffetta” e di Sorrentino Emanuele, che s’era prestato al recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell’arma alla “gambizzazione” di Fulgido, e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile indossato da Antonucci il giorno del delitto. La Corte distrettuale confermava quindi la condanna all’ergastolo per Iannaco e Antonucci, sul rilievo della natura almeno eventuale del dolo omicidiario, della sussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti, della immeritevolezza delle attenuanti generiche. Ritenuta peraltro l’incompatibilità dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/91 con l’imputazione omicidiaria aggravata ex art. 577 n. 3 e 4 c.p., astrattamente punibile con l’ergastolo, e riconosciuta a Sorrentino la diminuente di cui all’art. 116, comma 2 c.p. per essere il più grave delitto omicidiario diverso dal ferimento progettato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena per Sorrentino in anni 10 di reclusione e per Buonocore in anni 14 e mesi 6 di reclusione.
4. – Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Salerno che tutti gli imputati. Il P.G., con due distinti motivi, ha dedotto: - la violazione dell’art. 7 d.l. n. 152/91, sul rilievo che l’interpretazione privilegiata dalla Corte distrettuale condurrebbe a palesi disparità di trattamento, tant’è che, come conseguenza immediata, proprio all’esito del presente processo, potrebbero fruire dell’indulto elargito con l. n. 241/06 Buonocore e Sorrentino, riconosciuti colpevoli di omicidio pluriaggravato ma con l’esclusione dell’aggravante ostativa, e non Trapani, riconosciuto colpevole dei meno gravi delitti di detenzione, porto abusivo di armi e favoreggiamento, con l’aggravante ostativa; - la violazione dell’art. 116 c.p. e la contraddittorietà della motivazione, sull’assunto che, in base alla stessa ricostruzione dei fatti operata in sentenza, si sarebbe dovuto ritenere, nella condotta del Sorrentino, quanto meno il dolo eventuale, data la consapevole accettazione, da parte sua, del rischio che la prospettata azione lesiva potesse sfociare nell’omicidio della vittima designata. Antonucci ha denunciato: - la violazione e l’erronea interpretazione degli artt. 110 e 575 c.p., nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell’animus necandi, siccome basata sull’incerta ricostruzione della dinamica della sparatoria, trascurandosi la circostanza che i collaboratori di giustizia avevano riferito che l’omicidio era stato frutto di un errore nell’esecuzione dell’attentato, sicché l’azione doveva inquadrarsi nel paradigma preterintenzionale dell’art. 584 c.p.; - la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione circa il riconoscimento delle aggravanti della premeditazione e di quelle di cui agli artt. 7 d.l. n. 152/91 e 61 n. 1 c.p., poiché la causale del delitto era riconducibile a un movente personale e passionale di Iannaco e l’aggravante c.d. mafiosa era incompatibile con la pena dell’ergastolo; - la mancanza e l’illogicità della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche e al complessivo trattamento sanzionatorio, non avendo la Corte territoriale considerato la genesi dell’episodio e il valore della confessione. Iannaco ha dedotto gli stessi vizi denunciati nel ricorso proposto, a firma del medesimo difensore, nell’interesse di Antonucci, lamentando, in particolare, che l’azione doveva inquadrarsi nel paradigma dell’art. 584 ovvero che andava applicata la diminuente dell’art. 116 c.p.. Sorrentino ha lamentato l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 116 e 379 c.p., nonché la manifesta illogicità della motivazione, sull’assunto che, pure ammessa l’adesione all’originaria condotta finalizzata al ferimento della vittima, non avrebbe potuto rispondere del più grave fatto omicidiario commesso da altri il giorno successivo, trattandosi di un’azione autonoma del gruppo, frutto di una nuova deliberazione cui egli era rimasto estraneo, mentre la condotta successiva di ricezione dall’Antonucci del giubbotto antiproiettile rilevava solo come favoreggiamento reale. Buonocore Mario ha denunciato: - la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione per non essergli stata riconosciuta la diminuente di cui all’art. 116 c.p., pur risultando che egli si sarebbe limitato ad “accompagnare con la macchina Caputo per l’avvistamento del bersaglio da eliminare”, condotta connivente, questa, non punibile e comunque da ritenere di minore rilevanza rispetto a quella del Sorrentino, cui invece detta diminuente era stata riconosciuta; - la violazione dell’art. 192, comma 3 c.p.p., per essere stata indebitamente ritenuta l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, in realtà contraddittorie e non riscontrate di Caputo.
5. – La quinta Sezione, con ordinanza in data 1/7–25/9/2008, sul rilievo dell’esistenza di un risalente contrasto giurisprudenziale a proposito della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (secondo alcune pronunce, la condizione per l’applicabilità di detta circostanza, costituita dal fatto che si tratti di delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, manca per il solo fatto che il delitto sia astrattamente punibile con tale pena, a nulla rilevando che questa, di fatto, non venga applicata; per altre pronunce, invece, la condizione è soddisfatta quando, pur essendo astrattamente prevista, per il delitto del quale si accerti la colpevolezza, la pena dell’ergastolo, questa non venga di fatto applicata, per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti o dell’esclusione di circostanze aggravanti), ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato per l’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. – Osserva innanzi tutto il Collegio che i ricorsi degli imputati non pongono seriamente in discussione la ricostruzione probatoria della vicenda criminosa, offerta dalla motivazione della sentenza impugnata alla luce delle dichiarazioni parzialmente confessorie ed etero-accusatorie, reciprocamente coerenti e riscontrate dalle ammissioni di Caputo e dalle testimonianze indirette dei collaboratori di giustizia, oltre che dai rilievi di polizia giudiziaria e medico-legali, quanto: - al contesto di criminalità organizzata e alla causale dettata dal risentimento di Iannaco, capo di un gruppo camorristico, nei confronti di Fulgido a causa della relazione sentimentale da questi intrapresa con la sua donna nel territorio sottoposto all’egemonia del gruppo; - agli specifici ruoli di Iannaco come mandante e di Antonucci come esecutore materiale; - alla partecipazione di Buonocore sia alla fase preparatoria che a quella esecutiva in funzione di supporto logistico e in veste di “staffetta” per i sopralluoghi e per l’avvistamento della vittima; - alla partecipazione di Sorrentino Emanuele, prestatosi all’immediato recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per questo, nella consapevolezza della destinazione dell’arma alla “gambizzazione” di Fulgido, e alla successiva custodia del giubbotto antiproiettile a tal fine indossato da Antonucci il giorno del delitto. Si tratta di doglianze che riproducono, senza introdurre significativi elementi di novità, il dissenso, già prospettato nelle precedenti fasi, su valutazioni squisitamente fattuali e attinenti alla capacità persuasiva delle fonti dichiarative, laddove entrambe le Corti di merito, analiticamente soffermandosi sulla posizione degli imputati ed enucleando gli elementi probatori a loro carico, hanno adeguatamente valorizzato con puntuale e logico apparato argomentativo, ai fini dell’identificazione delle singole condotte di partecipazione all’agguato omicidiario, il convergente contenuto accusatorio dei dati suindicati. E tale conclusione non é sindacabile in sede di legittimità perché essa, oltre che saldamente ancorata alle risultanze del quadro probatorio ed aderente ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di valutazione delle stesse ex art. 192 c.p.p., appare sorretta da puntuale e razionale giustificazione, avendo il giudice di merito dato conto, senza contraddizioni o salti logici, delle scelte eseguite e del privilegio accordato a taluni elementi probatori rispetto ad altri, mentre i ricorrenti si limitano sostanzialmente a sollecitare una non consentita rilettura del materiale investigativo.
2. – Ciò posto, vanno preliminarmente presi in esame i motivi di ricorso con i quali, da un lato, Antonucci, Iannaco e Buonocore hanno denunziato violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermata sussistenza del dolo omicidiario, contestando la correttezza dell’apprezzamento giudiziale che ha escluso, per l’imputazione di omicidio, sia l’ipotesi preterintenzionale sia - con riguardo a Iannaco e Buonocore - la figura del concorso anomalo, e dall’altro Sorrentino ha dedotto che la condotta susseguente all’agguato, consistente nella ricezione da Antonucci del giubbotto antiproiettile da lui indossato al momento dell’esecuzione del crimine, rilevava solo come favoreggiamento reale. Strettamente correlato a siffatte doglianze si palesa, inoltre, l’opposto motivo di gravame con il quale il P.G. ricorrente ha prospettato la violazione dell’art. 116 c.p. e la contraddittorietà della motivazione, con riguardo alla specifica posizione del Sorrentino, sul rilievo che, in base alla ricostruzione dei fatti effettuata in sentenza, si sarebbe dovuto configurare, nella condotta di quest’ultimo, il dolo omicidiario nella forma eventuale.
2.1. – Ritiene il Collegio che sia privo di pregio l’assunto degli imputati, secondo cui l’asserita responsabilità concorsuale in ordine alla partecipazione alla preordinata spedizione punitiva, che doveva esitare nella mera “gambizzazione” della vittima, non era sufficiente per sostenere che gli organizzatori e i partecipi si erano anche prefigurata l’uccisione della vittima come evento altamente probabile ed accettato, addebitabile invece solo ad un errore nell’esecuzione del crimine da parte dell’esecutore materiale, in violazione del concordato mandato di lesioni, e che, per contro, sia fondata l’opposta censura del P.G. per il quale la fattispecie omicidiaria sarebbe ascrivibile anche al Sorrentino a titolo di dolo eventuale, data la consapevole accettazione, da parte sua, del rischio che la progettata azione lesiva potesse sfociare nell’omicidio della vittima designata. Ed invero, la Corte distrettuale, alla luce dei rilievi tecnici, delle consulenze medico-legale e balistica e delle parziali ma significative ammissioni dei protagonisti, ha innanzi tutto ricostruito le concrete modalità della vicenda criminosa e adeguatamente motivato circa il dolo omicidiario e non meramente lesivo, di natura diretta e alternativa o al più eventuale, dello sparatore. La reiterazione e la direzione dei colpi, esplosi a distanza ravvicinata, dal basso verso l’alto e contro organi vitali quali il torace e l’addome, denotavano la diretta ed univoca volontà di colpire la vittima con esito mortale, configurandosi quindi l’omicidio come “doloso”, sotto la forma del dolo alternativo o almeno eventuale, per essersi l’esecutore indifferentemente rappresentato o per avere accettato il rischio che l’utilizzo dell’arma da fuoco potesse determinare la morte, anziché il ferimento di Fulgido. I descritti elementi fattuali, valutati globalmente siccome parametri sintomatici dell’animus necandi in base a consolidate regole d’esperienza, risultavano sicuramente idonei a fare inferire come certo o altamente probabile il verificarsi dell’evento mortale o lesivo e comunque evidente, nella situazione concreta al momento di esecuzione della condotta, l’accettazione del correlativo rischio da parte di Antonucci. Quanto all’affermata, piena, responsabilità concorsuale ai sensi dell’art. 110 c.p., e non a titolo di concorso anomalo ex art. 116 c.p., di Iannaco e Buonocore, la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale (v. Cass., Sez. I, 7/3/2003 n. 12610, Benigno), per il quale l’espressa adesione del concorrente ad un’impresa criminosa, consistente nella produzione di un evento gravemente lesivo (la “gambizzazione” della vittima) mediante il necessario e concordato impiego di micidiali armi da sparo, implica comunque il consenso preventivo all’uso cruento e illimitato delle medesime da parte di colui che sia stato designato come esecutore materiale, anche per fronteggiare le eventuali evenienze peggiorative della vicenda o per garantirsi la via di fuga. Determinando l’aggressione con uso di siffatte armi, già di per sé, l’evidente gravissimo pericolo per la vita della persona, il concorrente deve rispondere a titolo di concorso pieno per l’effettivo verificarsi di ogni evento lesivo del bene della vita e dell’incolumità individuale, oggetto dei già preventivati e prevedibili sviluppi, sebbene esso sia concretamente dovuto alla scelta esecutiva dello sparatore sulla base di una valutazione della contingente situazione di fatto, la quale rientri comunque nel novero di quelle già astrattamente prefigurate in sede di accordo criminoso come suscettibili di dar luogo alla produzione dell’evento dannoso. La Corte distrettuale, dopo avere valutato con prudente e puntuale apprezzamento i dati fattuali della vicenda delittuosa, con specifico riferimento alla causale e all’indole violenta e prevaricatoria di Iannaco, capo di un gruppo camorristico, già rivelata dalle pregresse manifestazioni di sopraffazione nei confronti della donna, minacciata, picchiata e costretta ad allontanarsi dal comune di residenza, all’elevata pericolosità dei protagonisti, associati alla medesima consorteria criminale, al deliberato intento che il corpo della vittima fosse attinto da colpi esplosi con micidiali armi da sparo, all’eventualità non remota di una reazione pure armata della vittima o di altre persone (com’era dimostrato, nella specie, dalla circostanza che lo sparatore era munito di un giubbotto antiproiettile) e al contesto camorristico dell’agguato, è pervenuta, con linee argomentative logicamente coordinate, alla conclusione che i concorrenti, nel prevedere e volere l’uso delle armi per “gambizzare” la vittima, pure in mancanza di prova certa circa un’effettiva deliberazione omicidiaria, abbiano comunque accettato il rischio che le gravi lesioni programmate potessero trasmodare nell’uccisione della stessa. L’ineccepibilità di siffatte argomentazioni rende incensurabile in sede di legittimità l’affermata sussistenza rispetto all’evento omicidiario (accanto al dolo diretto e alternativo o eventuale dello sparatore) del dolo eventuale di concorso nella condotta dei complici, in ordine al medesimo delitto di cui agli artt. 110 e 575 c.p.. 2.2. – E però, le medesime ragioni logico-giuridiche, per le quali vanno disattese le doglianze degli imputati riguardanti la qualificazione giuridica del fatto sub specie di omicidio preterintenzionale ovvero di concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., convergono viceversa, a ben vedere, nel senso della piena fondatezza del ricorso del P.G., quanto alla contraddittorietà del riconoscimento della figura del concorso anomalo a favore di Sorrentino, il quale pure aveva prestato la sua adesione, fin dai giorni precedenti, all’azione finalizzata alla ricerca e al ferimento della vittima, mediante condotte di significativo rilievo per la concreta realizzazione del crimine, sotto il duplice profilo, prima, della predisposizione dei mezzi e, poi, dell’assicurazione dell’impunità, consistenti: nell’immediato recupero, la sera prima del delitto, della pistola usata per la fase esecutiva da Antonucci, nella consapevolezza della destinazione dell’arma alla “gambizzazione” di Fulgido secondo gli ordini ricevuti dallo zio; nella custodia del giubbotto antiproiettile indossato da Antonucci il giorno del delitto e da questi ricevuto, subito dopo l’esecuzione del crimine, per occultarlo. Apparendo dunque configurabile per Sorrentino la consapevole rappresentazione e accettazione del rischio che la progettata azione lesiva potesse sfociare nell’omicidio della vittima, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame sul punto.
3. – Anche i motivi di ricorso, invero non specifici, degli imputati, riguardanti l’affermata sussistenza, in concreto, delle circostanze aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti e di quella di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, o, per converso, il diniego delle attenuanti generiche, risultano infondati, perché il giudice di merito, con adeguato apparato argomentativo, ha correttamente esplicitato le ragioni in fatto e in diritto che giustificavano la scelta giudiziale.3.1. – Quanto al diniego delle attenuanti generiche per Iannaco e Antonucci, rilievo preponderante è stato attribuito dalle Corti di merito agli elementi della estrema gravità e riprovevolezza del fatto circostanziato nei termini suindicati, dell’elevata intensità del dolo e della particolare capacità a delinquere desumibile dai motivi dell’azione diretta all’eliminazione di una giovane vita, con argomentazioni dunque adeguate e ineccepibili in sede di sindacato di legittimità.
3.2. – Premesso che elementi costitutivi della premeditazione sono un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso - elemento di natura cronologica -, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine - elemento di natura ideologica -, osserva il Collegio che le argomentazioni svolte sul punto dalla sentenza impugnata non meritano le anzidette censure, poiché risultano in essa adeguatamente e rigorosamente apprezzate le ragioni della concreta individuazione di entrambi gli elementi, reciprocamente integrantisi nell’accurata ricostruzione dei fatti. I giudici del merito, nel quadro complessivo di una macchinazione del delitto, hanno prima collocato temporalmente l’insorgenza del proposito criminoso e la predisposizione dei mezzi e delle modalità esecutive dell’impresa nei giorni precedenti l’agguato omicidiario, così identificando un’apprezzabile durata dell’intervallo intercorso fra determinazione e attuazione del proposito, ai fini della riflessione e del recesso; quindi, hanno tratto da dati estrinseci - quali la descritta causale, l’anticipata manifestazione e la ferma persistenza del proposito criminoso, la predisposizione di armi da sparo, la progressiva ricerca dell’occasione propizia per l’agguato senza soluzione di continuità - gli elementi sintomatici per la corretta identificazione del dolo di premeditazione, in capo sia al mandante sia agli altri concorrenti, i quali hanno, tutti, consapevolmente condiviso e prestato incondizionata adesione al comune progetto di “gambizzare” o uccidere Fulgido.
3.3. – L’aggravante dei motivi abietti ex art. 61 n. 1 c.p., contestata per il delitto omicidiario assieme a quella di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, è stata ravvisata dai giudici di merito nel proposito vendicativo del capo di un gruppo camorristico (ma recepito, consapevolmente condiviso e fatto proprio da tutti i protagonisti della vicenda criminosa, a lui legati da vincoli familiari o malavitosi) nei confronti dell’uomo che aveva osato portargli via la donna, avendo egli perduto, a seguito del fermo rifiuto di questa di soggiacere alla sua volontà, insieme con il prestigio criminale, il totale dominio fino ad allora esercitato sulla persona e sulla vita della stessa, la quale, interrotta la relazione sentimentale con lui, ne aveva instaurato un’altra con la giovane vittima. Orbene, ritiene il Collegio che, alla luce del comune sentire, debba reputarsi vile e spregevole un siffatto crimine, commesso per mero spirito punitivo, dettato da intolleranza per la libertà di autodeterminazione della donna con la quale si era instaurata una relazione amorosa, considerata invece come res di propria appartenenza e di cui non si è accettata l’autonomia delle scelte di vita (v., per un caso analogo, Cass., Sez. I, 22/9/1997, P.M. in proc. Scarola, rv. 208773; v. anche, arg. a contrario, Cass., Sez. V, 22/9/2006 n. 35368, P.M. in proc. Abate, rv. 235008). 3.4. – E, poiché la causale omicidiaria, oltre all’intento vendicativo e punitivo, risiedeva anche nella finalità di riaffermare il ruolo e il prestigio del capo della consorteria camorristica locale insieme con la forza intimidatoria di questa, messi in discussione dall’affronto subito da un semplice operaio, che non intendeva riconoscerne la superiorità, nonostante gli avvertimenti e le pressioni, e che per questo andava eliminato con gesto eclatante e dimostrativo, è stata contestata a carico degli imputati anche la speciale aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 per l’omicidio (oltre che per i reati concernenti le armi, attesa la finalità agevolativa che il possesso delle stesse svolgeva per la realizzazione delle attività illecite del clan camorristico, e per i reati di violenza privata e lesioni in danno di Stella Pepe Califano, addebitati al solo Iannaco). Orbene, mentre l’aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 è “speciale” tanto per la materia considerata quanto per l’effetto di aumento della pena, la circostanza di cui all’art. 61 n. 1 c.p. è, di contro, un’aggravante “comune”, genericamente riferibile a tutti quei motivi che per il particolare grado di perversità (abietti) o per la sproporzione tra movente e azione criminosa (futili) denotano “una particolare capacità a delinquere del colpevole” (Rel. min. al progetto del codice penale, p. 109): né la natura e la struttura della previsione aggravatrice vengono meno a causa degli effetti speciali sulla determinazione della pena che conseguono allorché essa è richiamata per il delitto di omicidio dall’art. 577, comma 1 n. 4 c.p.. A causa della latitudine della nozione di motivo abietto alcune decisioni di questa Corte hanno ritenuto che l’aggravante comune sia configurabile quando il movente dell’azione consista nella finalità di favorire o consolidare un’associazione di matrice mafiosa (Cass., Sez. I, 20/01/2000 n. 2884, P.G. in proc. Ferrara, rv. 215504; Sez. II, 10/11/2000 n. 13151, Gianfreda, rv. 218598; Sez. II, 8/7/2004 n. 44624, Alcamo, rv. 230243; Sez. I, 21/2/2007 n. 236284, Messina, rv. 236284). E però, condividendosi l’assunto teorico esposto nella più recente e lucida giurisprudenza di legittimità sul tema (Cass., Sez. V, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, rv. 235300; Sez. I, 6/11/2007 n. 1797/08, Comis, rv. 238642), deve convenirsi che in tanto non vi è materia, in astratto, per un concorso apparente di norme tra le due circostanze aggravanti, in quanto il motivo abietto venga, in concreto, riferito ad una ragione che non sia interamente sussumibile nel paradigma dell’ipotesi speciale, trovando altrimenti applicazione la sola disposizione particolare che regola l’aggravamento dei delitti commessi con il motivo, tra i tanti abietti, riconducibile al fine di agevolare associazioni mafiose, in cui resta “assorbita” l’aggravante comune. E ciò per effetto dell’esplicita clausola di riserva contenuta nel primo alinea dell’art. 61 c.p., che, siccome espressione del principio di specialità, è fatta salva, mediante il richiamo all’art. 15, anche dall’art. 68, comma 1 c.p. nel caso di circostanze complesse. Tornando alla situazione in esame e considerato che in relazione all’omicidio la circostanza del motivo abietto, nei termini fattuali della contestazione e dell’accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un quid pluris rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo camorristico locale, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata sia fornita di adeguata e logica motivazione ed abbia fatto buon governo del cennato principio di specialità sul punto che la duplice ragione aggravatrice, con riferimento sia all’art. 61 n. 1 c.p. sia all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, non presenta sostanza unitaria. 4. – Con riguardo alla statuizione della Corte distrettuale che ha escluso, per Sorrentino e Buonocore, l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, ritenuta incompatibile con l’imputazione omicidiaria aggravata ex art. 577 n. 3 e 4 c.p., siccome astrattamente punibile con l’ergastolo, ed al conseguente motivo di ricorso del P.G. sul punto, è necessario premettere che l’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 conv. in l. n. 203 del 1991, introduttivo della circostanza aggravante del cd. “metodo mafioso” e della cd. “agevolazione mafiosa”, dispone, al primo comma, che “per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà” e, al comma successivo (interpolato dall’art. 5, comma 1, l. n. 34 del 2003), che “le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante”. In ordine al quadro normativo, va anche rilevato che la formulazione del testo dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 si muove sulla falsariga di quanto già sancito dall’art. 1 d.l. n. 625 del 1979 conv. in l. n. 15 del 1980 (modificato dall’art. 5, comma 1, l. n. 34 del 2003), per i reati commessi “per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale”, ed è stata riprodotta, in modo non dissimile, nelle successive previsioni aggravatici: - dell’art. 7, comma 4 d.l. n. 419 del 1991 conv. in l. n. 172 del 1992, per i delitti di cui all’art. 407, comma 2 lett. a) nn. 1-6, c.p.p. aggravati ex artt. 111 e 112, comma 1 nn. 3 e 4 c.p.; - dell’art. 3 d.l. n. 122 del 1993 conv. in l. n. 205 del 1993, per i reati commessi “per finalità di discriminazione e di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità”; - dell’art. 4 l. n. 146 del 2006 in tema di “crimine organizzato transnazionale”. La circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, che si atteggia in due forme alternative, l’una a carattere oggettivo, consistente nell’impiego del metodo mafioso nella commissione del singolo reato, e l’altra, di natura soggettiva, costituita dallo scopo di agevolare, con il delitto posto in essere, l’attività dell’associazione di tipo mafioso (Cass., Sez. Un., 28/3/2001 n. 10, Cinalli, rv. 218377), dà luogo, quindi, per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, a un aumento della pena non inferiore a un terzo e non superiore alla metà. Aumento che, peraltro, non può essere bilanciato dal concorso di circostanze attenuanti, poiché l’eventuale comparazione, non esclusa dalla norma, può sfociare solo in una valutazione di subvalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti, a meno che il giudice (secondo la lettura offerta da C. cost., nn. 38 e 194 del 1985, della non dissimile disposizione dell’art. 1, comma 3, d.l. n. 625 del 1979) non ritenga di adottare il criterio meramente aritmetico, determinando, con distinte e successive operazioni, le diminuzioni proporzionali della pena per le eventuali attenuanti, ma all’esito dell’aumento dipendente dalla speciale aggravante.5. – Orbene, le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito “se la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, sia applicabile ai delitti 'punibili' in astratto con la pena dell’ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa dall’ergastolo”, quesito in ordine al quale si sono contrapposte in passato due linee interpretative. Secondo un primo orientamento (Cass., Sez. I, 14/5/2002 n. 28418, Erra, rv. 222119, e - ma trattasi di obiter dictum - Sez. I, 7/3/2003 n. 12610, cit., rv. 224084), decisamente minoritario e, in realtà, non più riproposto nella più recente giurisprudenza di legittimità, la suddetta aggravante non è applicabile ai delitti per i quali sia prevista in astratto la pena edittale dell’ergastolo, a nulla rilevando l’entità della sanzione inflitta in concreto. L’opposto, nettamente prevalente e più recente orientamento (Cass., Sez. I, 10/1/2002 n. 20499, Ferraioli, rv. 221443; Sez. I, 17/1/2006 n. 5651, La Fratta, rv. 234054; Sez. I, 22/12/2006 n. 1811/07, P.G. in proc. Masciopinto; Sez. V, 24/10/2006 n. 41332, Lupo, cit.; Sez. I, 21/11/2007 n. 46598, Centonza, rv. 238933; Sez. I, 4/3/2008 n. 14623, Abbrescia, rv. 240115; Sez. II, 13/3/2008 n. 13492, Angelino, rv. 239759; Sez. V, 16/5/2008 n. 32555, De Gregorio), sostiene, invece, che l’aggravante può essere validamente contestata anche con riferimento ad un delitto astrattamente punibile con l’ergastolo, fermo restando che essa potrà in concreto operare solo se, di fatto, venga inflitta una pena detentiva diversa dall’ergastolo. Le Sezioni Unite ritengono di condividere le ragioni che giustificano quest’ultimo indirizzo interpretativo.5.1. – Il punto di partenza del ragionamento che postula la soluzione condivisa dalle Sezioni Unite muove da un’attenta lettura delle linee logico-sistematiche, che connotano e dentro le quali s’iscrive - per i profili giuridici di rilievo sia sostanziale sia processuale - la ratio aggravatrice della norma di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Occorre premettere che, attesa la centralità e la proiezione funzionale dell’atto imputativo nel processo penale, il fatto storico, quale emerge dagli atti e dalle fonti di prova, va contestato dalla pubblica accusa nella sua interezza, a tutela del contraddittorio e del pieno rispetto del diritto di difesa. Né sembra esservi una plausibile ragione, una volta che ricorrano “metodo mafioso” o “agevolazione mafiosa”, perché “i fatti” secondari che si riferiscono alla suddetta aggravante e che assolvono la funzione di integrare la fattispecie criminosa tipica, non vengano contestati e non diventino anch’essi “oggetto di prova” ai sensi dell’art. 187 c.p.p., sol perché il delitto cui accedono (come, nella specie, l’omicidio commesso con premeditazione o per motivi abietti ex art. 577, primo comma nn. 3 e 4 c.p.) sia astrattamente sanzionato, indipendentemente da essi, con la pena edittale dell’ergastolo, finendo altrimenti l’atto contestativo di parte per avere un’influenza decisiva sulla determinazione della pena e sulla relativa potestà discrezionale del giudice. Conclusione, questa, cui era già pacificamente pervenuta la giurisprudenza di legittimità a proposito dell’archetipo costituito dalla speciale aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, prevista dall’art. 1 d.l. n. 625 del 1979 (Cass., Sez. I, 2/12/1985 n. 965/1986, P.G. in proc. Fernoni, rv. 171675). Neppure potrebbe obiettarsi l’inutilità del riferimento nell’imputazione ad un’aggravante che non determina alcun incremento del trattamento sanzionatorio, giacché questa caratteristica hanno, ai sensi dell’art. 72 c.p., tutte le aggravanti, comuni o non, contestate per reati già puniti con l’ergastolo o così punibili per effetto di aggravanti diverse. Va sottolineato, d’altro canto, che il riconoscimento dell’attenuante speciale della dissociazione attuosa di cui all’art. 8 d.l. n. 152 del 1991, da cui consegue (come da quella prevista dall’art. 4 d.l. n. 625 del 1979) la sterilizzazione dell’aggravante dell’art. 7 e la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione da dodici a venti anni, presuppone necessariamente che il fatto storico sia contestato nella sua interezza e sia valutato dal giudice nella sua portata complessiva.
5.2. – Mette conto soprattutto di rimarcare che la pretesa di far coincidere la ratio d’irrigidimento sanzionatorio del d.l. n. 152 del 1991 con il solo effetto dell’aumento di pena istituito dall’art. 7 tradirebbe l’intento del legislatore, che era apertamente quello di privilegiare una strategia trasversale e complessiva di contrasto al fenomeno delle criminalità organizzata, assai più ampia e articolata (ufficialmente annunziata nella relazione al d.d.l. 5367/C sulla conversione in legge del d.l. n. 5, primo della serie conclusasi con il d.l. n. 152) e destinata a dispiegare una serie più cospicua di effetti giuridici, ben oltre il momento applicativo della pena nel giudizio di cognizione, mediante l’instaurazione di un regime processuale differenziato e di meccanismi di esecuzione della pena in termini di più severa effettività. L’aggravante ad effetto speciale in esame viene, infatti, ad incidere sempre, pure in difetto di incremento della pena dell’ergastolo: - sia sul versante delle indagini, in ordine all’attribuzione delle funzioni di pubblico ministero all’ufficio di Procura distrettuale e di quelle di giudice per le indagini preliminari al G.i.p. distrettuale (artt. 51.3-bis e 328.1-bis c.p.p.), ai termini di durata delle indagini preliminari, alla loro proroga e divieto di sospensione nel periodo feriale (artt. 407.2 lett. a n. 3 e 406.5-bis c.p.p., art. 21-bis d.l. n. 306/92), ai criteri di scelta e ai termini di durata massima della custodia cautelare (art. 275.3, 303.1, lett. a n. 3 e lett. b n. 3-bis, e 304.2 c.p.p.), al regime delle intercettazioni (artt. 13 d.l. n. 152/91 e 295.3-bis c.p.p.); - sia sul terreno del dibattimento, per le particolari regole di acquisizione della prova dichiarativa (artt. 190-bis, comma 1 c.p.p., 146-bis e 147-bis n. att. c.p.p.); - sia sugli effetti patrimoniali della condanna, attesa l’ipotesi particolare di confisca prevista dall’art. 12-sexies d.l. n. 306/92; - sia, infine, sull’esecuzione della pena detentiva, quanto al divieto di sospensione della stessa (art. 656.9 lett. a c.p.p.), al trattamento penitenziario differenziato (artt. 4-bis, comma 1, 21, comma 1, 30-ter, comma 4, 41-bis, 47-ter, 50, comma 2, 58-ter, 58-quater l. n. 354 del 1975; artt. 37, comma 8, e 39, comma 2 d.P.R. n. 230 del 2000) ed all’esclusione dai benefici della sospensione condizionata dell’esecuzione - c.d. “indultino” - (art. 1, comma 3 lett. a l. n. 207 del 2003) e dell’indulto (art. 1, comma 2 lett. d l. n. 241 del 2006). 5.3. – Deve pertanto convenirsi con la citata e più recente giurisprudenza, la quale avverte che il primo comma dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, nel prevedere che la pena sia aumentata da un terzo alla metà per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, non esclude affatto, con riguardo ai reati puniti con la pena perpetua (come nel caso di specie di omicidio commesso con premeditazione e per motivi abietti), la contestabilità e l’operatività della speciale aggravante ad altri fini, ben potendosi anzi conseguire l’effetto aggravatorio nell’ipotesi di esclusione, all’esito del giudizio di cognizione, delle circostanze aggravanti comportanti l’ergastolo. La prescrizione de qua, al di là dell’ambiguità lessicale del termine “punibili”, è semplicemente diretta, in sostanza, a quantificare l’aumento di pena applicabile alla pena detentiva temporanea, concretamente irrogata in presenza dell’aggravante speciale, incremento che non è ovviamente ipotizzabile allorché la pena inflitta in concreto sia invece quella dell’ergastolo. Tra l’altro, l’opposta opzione interpretativa, nel senso del divieto di contestazione e di considerazione dell’aggravante speciale per i reati astrattamente punibili con la pena edittale perpetua, rendererebbe possibili talune conseguenze prive di logica razionalità e, com’è stato avvertito dalla più attenta giurisprudenza, seri problemi di legittimità costituzionale della disciplina normativa per violazione del principio di eguaglianza: - sia sotto il profilo che per delitti aggravati dalla circostanza in esame, punibili con pena diversa dall’ergastolo, potrebbero essere irrogate sanzioni più gravi rispetto a quelle inflitte, in concreto, per delitti pure ontologicamente aggravati dalla medesima circostanza ed astrattamente puniti con l’ergastolo in forza di altre circostanze, che non sopravvivano tuttavia alla differente qualificazione giuridica del fatto o al giudizio di bilanciamento con le attenuanti; - sia perché potrebbero dispiegarsi effetti preclusivi ingiustificatamente differenziati quanto all’accesso ai vari benefici in sede di esecuzione della pena e di trattamento penitenziario.
5.4. – Le precedenti riflessioni convergono dunque univocamente nel senso che “la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, è applicabile ai delitti astrattamente 'punibili' con la pena edittale dell’ergastolo, quando venga inflitta, in concreto, una pena detentiva diversa dall’ergastolo ”. Occorre inoltre precisare che “anche nel caso in cui venga inflitta in concreto la pena dell’ergastolo, l’aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, pur rimanendo 'inerte' nella determinazione della pena, va tuttavia contestata e presa in considerazione dal giudice nel suo significato di disvalore del fatto, sì da esplicare la sua efficacia ai fini diversi dalla determinazione della pena”. 6. – Ciò posto, poiché, nella specie, la Corte distrettuale non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto suindicato, risulta fondato il relativo motivo di ricorso del P.G. riguardante le posizioni di Sorrentino e Buonocore. La sentenza impugnata va dunque annullata anche per questo profilo, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di assise di appello di Salerno. P. Q. M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sorrentino Emanuele e Buonocore Mario, limitatamente all’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e, quanto al Sorrentino, al riconoscimento della diminuente di cui all’art. 116, comma 2 c.p., e rinvia per nuovo giudizio sui suddetti punti ad altra sezione della Corte di assise di appello di Salerno.
Rigetta i ricorsi degli imputati che condanna, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Così deliberato in Roma il 18 dicembre 2008.