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mercoledì 16 dicembre 2009

Sentenza 24 settembre 2007, n. 35488

Sentenza 24 settembre 2007, n. 35488
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 27.1.2006, confermava la sentenza 3.12.2002 del Tribunale di Foggia, che aveva affermato la responsabilità penale di Scelsi Domenico e Liso Beatrice in ordine ai delitti di cui:

a) agli artt. 110 e 483 cod. pen., in relaz. all’art. 26 della legge n. 15/1968, perché, in concorso tra loro, nelle qualità di legali rappresentanti, rispettivamente, della s.p.a. ICOP e della s.r.l. ELCA, società facenti parte del consorzio SIERP – avendo inviato all’Amministrazione provinciale di Foggia, nella richiesta di partecipazione alla procedura di licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione della nuova sede dell’Istituto polivalente di Manfredonia, due distinte dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali falsamente affermavano che le società anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999 (mentre, in realtà, detta iscrizione era stata conseguita dalla s.p.a. ICOP il 30.11.1999 e dalla s.r.l. ELCA il 14.12.1999) – attestavano falsamente fatti dei quali le rispettive dichiarazioni sostitutive erano destinate a provare la verità – in Foggia, l’1.12.1999

b) agli artt. 110, 48 e 479 cod. pen., perché, in concorso tra loro, con le condotte dianzi descritte, inducevano in errore, sull’effettiva esistenza di un requisito indispensabile di partecipazione alla licitazione privata, il dirigente dei servizi tecnici ed i componenti della Giunta provinciale, i quali, sulla base delle dette false dichiarazioni, attestavano falsamente negli atti pubblici rispettivamente adottati (verbali del 2.12.1999 e del 9.2.2000 e proposta di aggiudicazione dell’appalto del 26.1.2000) che le due imprese anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999

e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, ritenuto il concorso formale dei reati, aveva condannato ciascuno alla pena complessiva di anni uno di reclusione, concedendo ad entrambi i doppi benefici di legge.

La Corte territoriale rigettava le impugnazioni degli imputati volte a contestare la sussistenza delle figure criminose e poneva in rilievo, innanzitutto, la situazione di fatto accertata, non contestata dagli stessi appellanti.

Essi avevano partecipato alla licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione sopra specificati e, come richiesto dal bando, avevano allegato le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà nelle quali avevano attestato che la società da ciascuno rappresentata era iscritta all’Albo nazionale costruttori sin da data anteriore al 24 novembre 1999, requisito indispensabile per la partecipazione alla gara in quanto ad essa la detta iscrizione doveva preesistere.

Per le caratteristiche di convenienza della proposta di tali società, la aggiudicazione dell’appalto era avvenuta in loro favore ed i conseguenti atti deliberativi e dispositivi della procedura erano stati redatti sul presupposto – attestato dai pubblici ufficiali redigenti sulla base delle anzidette dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, facenti fede di quanto dichiarato – che le imprese aggiudicatarie presentavano il requisito della iscrizione all’ANC alla data della presentazione della offerta.

La Corte di merito osservava che:

-- la presentazione delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà con contenuto ideologicamente falso integra il reato previsto dall’art. 483 cod. pen., posto che del falso deve rispondere il dichiarante in relazione ad un preesistente obbligo di attestare il vero (art. 26 della legge n. 15 del 1968), senza che occorra la prova del dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico per la configurazione del reato;

-- la condotta in esame ha poi dato luogo, nella specie, ad un ulteriore reato continuato di falso ideologico, questa volta per induzione in errore dei pubblici ufficiali, posto che nei tre diversi atti specificati nel capo di imputazione, e precisamente nella parte dei provvedimenti destinata a far constare pubblicamente l’esistenza dei requisiti di legge, essi hanno dato atto del requisito della anteriorità della iscrizione delle imprese all’Albo.

I giudici di appello argomentavano sulla esistenza del concorso tra i due reati, citando la giurisprudenza di questa Corte che lo sostiene quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, si pone anche in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale ha posto in essere (Cass., Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, il quale – con un unico motivo, formulato ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p. – ha chiesto di ritenere assorbito il reato sub B) (falso ideologico per induzione in errore, ex artt. 48 e 479 cod. pen.) in quello sub A) (falso ideologico del privato, ex art. 483 cod. pen.).

Viene evidenziato nel ricorso un contrasto esistente sul punto nella giurisprudenza di legittimità, ove una tesi diversa da quella recepita dai giudici del merito è orientata nel senso che il falso per induzione in errore del pubblico ufficiale sarebbe configurabile soltanto nella ipotesi in cui la falsa attestazione provenga da questi sulla base di dichiarazioni del privato che però egli integri con una attestazione di rispondenza al vero. Se invece l’attestazione proviene dal privato e il pubblico ufficiale la riporta come tale nell’atto pubblico a sua firma, ossia si limita a riprodurla, allora dovrebbe riconoscersi che di falso vi è solo la dichiarazione del privato, il quale ne è l’autore immediato, mentre non vi è falso per induzione con autore mediato (così Cass.: Sez. I, 26 maggio 1987, n. 2222, Crespi; Sez. VI, 28 giugno 1994, n. 8996, P.M. in proc. Zungoli).

Prospetta al riguardo la difesa che, nella motivazione della sentenza impugnata, non vi sarebbe menzione alcuna della attestazione integrativa (quid pluris) dei pubblici ufficiali sulla veridicità delle dichiarazioni dei privati e quindi non potrebbe configurarsi induzione in errore dei primi, con la conseguenza che gli imputati non potrebbero essere chiamati a rispondere del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. Tanto si evincerebbe anche dal tenore letterale degli atti pubblici indicati nel capo di imputazione.

La Corte territoriale, in particolare, non si sarebbe soffermata su due requisiti ineludibili per la configurazione del reato e nella specie mancanti: 1) il rilievo, ai fini della parte narrativa dell’atto pubblico, della falsa attestazione che ne costituisce la premessa; 2) l’obbligo giuridico di verifica, da parte dell’organo decidente, sul fatto falsamente attestato. Proprio la assenza di tale obbligo sarebbe sintomatico del fatto che i pubblici ufficiali si sono limitati a trasfondere negli atti a loro firma i fatti (falsi) attestati dai privati.

Si rappresenta, infine, che nella stessa sentenza Perfetto, evocata nella decisione impugnata e sostenitrice della possibilità del concorso fra i due reati in contestazione, la sussistenza del delitto ex artt. 48 e 479 cod. pen. sarebbe comunque subordinata ad un elemento non presente nel caso di specie: e cioè che la falsa attestazione del privato raccolta dal pubblico ufficiale sia utilizzata da questi per descrivere una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore.

Il ricorso è stato assegnato alla quinta Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all’udienza dell’11 aprile 2007, ha rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla materia e (con ordinanza depositata il successivo 20 aprile) ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.

Nell’ordinanza di rimessione è stato posto in rilievo come il tema effettivo del contrasto non sia tanto quello del concorso fra il reato di cui all’art. 483 cod. pen. e quello di falso ideologico per induzione (ex artt. 48 e 479 cod. pen.), quanto quello degli esatti termini per la configurazione di questo secondo reato, pure in presenza (o meno) del primo.

Il reato in questione si struttura per l’esistenza di una falsità del privato (quella del decipiens) che determina un’altra falsità – ideologica in atto pubblico – posta in essere dal deceptus (il pubblico ufficiale), che però non risponde di essa per mancanza di dolo.

La questione da risolvere, dunque, è se, nella specie, oltre al falso ideologico del privato ex art. 483 cod. pen., la condotta dei pubblici ufficiali abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui all’art. 479 cod. pen., tenendo conto, in punto di fatto, che, secondo l’accusa, nella specie i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto della attestazione dei privati sulla data della iscrizione all’Albo.

Il panorama giurisprudenziale che è sullo sfondo della vicenda processuale vede, da un lato, la presa di posizione delle Sezioni Unite con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, nella cui motivazione si legge che l’atto pubblico, nel quale sia richiamato altro atto ideologicamente falso, è anch’esso falso, quantomeno perché certifica l’esistenza di attestazioni presumendole “vere”, con la conseguenza che se, invece, le attestazioni richiamate sono false, è falso pure l’atto pubblico che le pone a premessa.

L’opposto orientamento è quello secondo cui la falsità ideologica del privato non concorre con il delitto di falso per induzione in errore del pubblico ufficiale quando l’atto pubblico da questi adottato, a seguito della presentazione dell’atto falso del privato, non è inteso ad accertare proprio “il fatto” oggetto della attestazione falsa del privato ma, più semplicemente, l’esistenza dell’“atto” del privato in cui, questi, ha trasfuso l’attestazione di un certo fatto (così Sez. V: 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini; 20 giugno 2006, n. 21209, Bartolazzi).

Ancora, la sentenza della Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, afferma che solo quando il pubblico ufficiale, inconsapevolmente, raccolga dal privato una falsa attestazione relativa a fatti dei quali essa è destinata a provare la verità e quando detta attestazione venga poi utilizzata dal soggetto ingannato per descrivere od attestare una situazione di fatto più ampia di quella certificata dal mentitore, resta integrata la fattispecie del falso ideologico per induzione (artt. 48-479, 48-480, 48-481 cod. pen.), la quale può concorrere con il delitto di cui all’art. 483 cod. pen., quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, è in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale, in quanto autore mediato, ha posto in essere.

Dunque, secondo quest’ultimo orientamento, il pubblico ufficiale, quando si limita a riportare la esistenza della attestazione del privato (poi risultata falsa), non realizza una attestazione falsa ma svolge una argomentazione errata (consistente nel presupporre come vero il fatto attestato dal privato) che dà luogo ad una conclusione falsa. Tale distinzione non è ritenuta rilevante, invece, nell’anzidetta sentenza delle Sezioni unite.

Il Primo Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso deve essere rigettato perché infondato.

1. Sussiste anzitutto, nella fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 483 cod. pen., considerato che nelle due distinte dichiarazioni sostitutive di certificazione (destinate a provare la verità dei fatti dichiarati) gli imputati hanno falsamente attestato il possesso, da parte delle imprese societarie da loro rappresentate, di un requisito indispensabile per la partecipazione all’appalto e, a maggior ragione, per la relativa aggiudicazione.

Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero [vedi Sezioni Unite: 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e 9.3.2000, n. 28, Gabrielli].

Per l’individuazione delle norme giuridiche che, nella specie, istituiscono l’efficacia probante della dichiarazione sostitutiva, equiparandola anche alla dichiarazione fatta a pubblico ufficiale ai fini e per gli effetti dell’applicazione delle sanzioni del codice penale, va ricordato che la “dichiarazione sostitutiva di certificazione” è stata inizialmente regolata dall’art. 2 della legge 4.1.1968, n. 15 (Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme) – abrogata dall’art. 77 del D.P.R. n. 445/2000 – ed essa è destinata, tra l’altro, a comprovare “le iscrizioni in albi o elenchi tenuti dalla pubblica amministrazione” (tale deve intendersi l’Albo nazionale costruttori).

La stessa legge n. 15/1968 richiedeva che la dichiarazione sostitutiva di certificazione fosse sottoscritta dall’interessato e autenticata, stabilendo che le dichiarazioni autenticate “sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

All’epoca dei fatti per i quali si procede vigeva la legge 15.5.1997, n. 127 (c.d. Bassanini bis), come modificata dalla legge 16.6.1998, n. 191 (c.d. Bassanini ter), ed era stata eliminata la necessità di autenticazione della firma, sostituita dalla produzione, in una con la dichiarazione, della fotocopia non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore (modalità attuata in concreto nella vicenda che ci occupa).

La materia ha trovato poi sistemazione organica nel D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa), che ha stabilito la non necessità di autentica di firma per le dichiarazioni sostitutive di certificazione, ribadendo, ai fini penali, che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 … sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

Ciò non significa, però, che soltanto a fare data dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 445/2000 le dichiarazioni sostitutive di certificazione non richiedenti autentica di firma (come quelle rese nel procedimento in esame) possano considerarsi, ai fini penali, come fatte a pubblico ufficiale e, quindi, presentino uno dei requisiti rilevanti per la configurazione del delitto di cui all’art. 483 cod. pen.

E’ vero che nella legge n. 15/1968 la parificazione della presentazione della dichiarazione sostitutiva alle dichiarazioni direttamente fatte a pubblico ufficiale riguardava le dichiarazioni ritualmente autenticate; deve però ritenersi che, caduta la obbligatorietà dell’autenticazione, era venuta meno la necessità della sussistenza di tale condizione ma non anche la doverosità dell’equiparazione già operata dall’art. 26 della stessa legge n. 15/1968 e ribadita dal legislatore del 2000, che, con il Testo unico (in conformità ai principi fissati dalla legge-delega 8.3.1999, n. 50), non ha innovato ma ha recepito e riorganizzato le precedenti normazioni.

Nella fattispecie in esame, in conclusione, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. non può ritenersi escluso dalla circostanza che le attestazioni dei ricorrenti (concernenti l’iscrizione delle società da loro rappresentate all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999) sono contenute in autocertificazioni recanti sottoscrizioni non autenticate ma ritualmente prodotte, a corredo della istanza principale, unitamente alla fotocopia di un documento di identificazione (secondo le modalità all’epoca previste dalla legge).

2. Tanto premesso, va rilevato che la questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato (del quale, nella specie, è ravvisata la sussistenza) concorra con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto pubblico al quale l’attestazione inerisca e quali siano le condizioni per la configurazione di questo secondo reato, in presenza (o meno) del primo.

3. In relazione alla individuazione delle condizioni di configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte Suprema.

3.1 Le Sezioni Unite – con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti – hanno avuto modo di pronunciarsi sulla portata del falso ideologico in atto pubblico mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, in una fattispecie, però, nella quale non risultava valorizzata la presenza di condotte presupposte rilevanti ai sensi dell’art. 483 cod. pen..

La vicenda che aveva dato luogo alla questione era quella del rilascio di un diploma di laurea, previa redazione del verbale della relativa seduta, atto, quest’ultimo, nel quale si era attestato il superamento, da parte del laureando, degli esami del corso, mentre tale superamento non era mai avvenuto, essendo stato documentato dall’interessato, con la complicità di un dipendente della università, mediante falsi statini di esame e falsi verbali delle sedute di esame.

Il giudice del merito era pervenuto ad una pronuncia assolutoria, avendo escluso la configurabilità del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. sul presupposto che il verbale dell’esame di laurea e il relativo diploma non attesterebbero e non proverebbero la verità del fatto presupposto (superamento degli esami del corso) in quanto la Commissione ne prenderebbe atto senza effettuare alcun accertamento.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto tale ragionamento non condivisibile ed hanno affermato che tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Il provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.

Le Sezioni Unite hanno argomentato, al riguardo, che “Il procedimento di formazione di qualsiasi atto amministrativo prevede come primo momento l’accertamento dei presupposti, accertamento che viene compiuto dalla stessa autorità che deve porre in essere l’atto o direttamente o, più frequentemente, sulla base di documenti che possono consistere anche in atti pubblici e certificati rilasciati da altre autorità; e l’accertamento trova poi la sua attestazione nel preambolo dell’atto, quali che siano le espressioni usate, usualmente concise tipo "Visti gli atti relativi a ..." "Visti gli attestati ....", peraltro da intendere nel senso che con le stesse viene attestato, sulla base dei documenti, dei certificati etc. forniti dal richiedente all’ufficio, la sussistenza dei presupposti dell’atto. E quindi, se detti documenti, certificati etc. sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva che anche la conseguente attestazione circa l’esistenza dei presupposti è falsa”.

A tale orientamento si sono conformate alcune successive decisioni delle Sezioni semplici di questa Corte Suprema (vedi Sez. VI, 19 gennaio 1996, n. 607 Ceccarello; Sez. V, 5 marzo 1997, n. 2043, Bornigia; Sez. V, 28 gennaio 2005, n. 2703, Foffi, quest’ultima in una fattispecie di falsa attestazione dell’iscrizione negli elenchi degli invalidi civili, utilizzata per ottenere un posto di lavoro con preferenza rispetto agli altri aspiranti).

3.2 Altro orientamento giurisprudenziale si pone in termini riduttivi rispetto all’anzidetta interpretazione “totalizzante” delle Sezioni Unite ed afferma la configurabilità di fattispecie nelle quali il falso per induzione non sussiste nei suoi elementi costitutivi, perché il tipo di attestazione che il pubblico ufficiale redige non è falso: ciò si verifica quando la attestazione ha ad oggetto non il fatto attestato (falsamente) dal privato ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa attestazione, cioè l’esistenza dell’atto (contenente la falsa attestazione) proveniente dal privato.

In tali ipotesi non si può parlare di falsità ideologica commessa, sia pure senza dolo, dal pubblico ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta corrisponde a quanto realmente esistente, anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque, un’attestazione falsa, ma la mera espressione di un’argomentazione errata. Può ravvisarsi, invece, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. (o 495 a seconda dell’oggetto delle dichiarazioni) quando la attestazione del privato al pubblico ufficiale in atto pubblico abbia avuto ad oggetto fatti dei quali l’atto era destinato a provare la verità.

In questo senso si è espressa la V Sezione, con la sentenza 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, che riprende integralmente la diffusa motivazione della sentenza 4 gennaio 1995, n. 1408, Scarvaci.

Secondo queste sentenze, in particolare:

“Perché si renda applicabile l’art. 48 cod. pen. ai reati di falso è necessario che l’autore immediato (il soggetto ingannato) non si limiti ad esprimere una argomentazione errata ma compia una attestazione falsa.

Le ipotesi possibili sono cinque:

a) il soggetto ingannato si limita a riprodurre la dichiarazione del mentitore, documentandola;

b) ovvero, pur ponendola espressamente a premessa di una propria argomentazione, non giunge a conclusioni errate;

c) il soggetto ingannato non solo riproduce la dichiarazione del mentitore ma la utilizza anche come premessa di una argomentazione che sbocchi in una conclusione errata;

d) il soggetto ingannato descrive e attesta lo stesso fatto rappresentato nella dichiarazione del mentitore, ma senza far cenno di tale dichiarazione;

e) il soggetto ingannato descrive o attesta una situazione più ampia di quella rappresentata dal mentitore”.

Soltanto l’ultima fattispecie integra la ipotesi del falso per induzione in errore del pubblico ufficiale.

“Nelle prime due ipotesi non può trovare applicazione l’art. 48 cod. pen., in quanto l’attestazione del soggetto destinatario dell’inganno non è falsa: non è falsa nel caso a), perchè essa rappresenta un fatto effettivamente verificatosi, vale a dire la dichiarazione del mentitore; non lo è nel caso b), perché la falsità della dichiarazione del mentitore non si estende alla conclusione del ragionamento in cui funge da premessa.

L’art. 48 non può trovare applicazione neppure nel caso sub c), perché sebbene siano false sia le dichiarazioni del mentitore sia la conclusione del soggetto ingannato, costui commette un errore non un falso. La proposizione che viene assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato, infatti, non è immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì della intervenuta dichiarazione di costui: è una attestazione della attestazione ed è vera.

La falsità della conclusione dell’argomento, quindi, non dipende dalla falsità della premessa (che è vera), bensì dalla invalidità dell’argomento nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria della attestazione del mentitore senza considerare la possibilità che questa sia falsa. In altri termini, si assume come premessa il fatto che è intervenuta l’attestazione del mentitore e si trae la conclusione come se la premessa fosse direttamente il fatto rappresentato in quella attestazione.

In tutte queste ipotesi è invece configurabile il reato previsto dall’art. 483 cod. pen. o quelli previsti dagli artt. 495, 496, 567 comma 2, ove ne ricorrano i presupposti specifici. Si tratta infatti di fattispecie nelle quali si richiede la falsità di una dichiarazione proveniente da un privato che viene recepita come tale nella attestazione di un pubblico ufficiale, il quale non commette neppure oggettivamente alcuna falsità.

Nell’ipotesi d) il soggetto ingannato descrive come se fosse stato sa lui direttamente constatato il medesimo fatto che invece appreso dalla dichiarazione mendace del mentitore: non pare possa dubitarsi che in questo caso non si rende applicabile l’art. 48 cod. pen. perché è lo stesso soggetto ingannato a commettere una falsità ideologica, nel momento in cui fa apparire come da lui percepiti i fatti che gli sono stati riferiti.

Risulta invece applicabile l’art. 48 cod. pen. nella ipotesi e), perché in essa la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi dell’inganno che determina nel soggetto ingannato una conoscenza errata, e di conseguenza una falsa attestazione da lui proveniente anche se solo oggettivamente”.

Con la sentenza della Sez. V, 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini è stato poi affermato, pur sulla base di principi omogenei a quelli enunciati nella sentenza Perfetto, che si può configurare il falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ingannato, del quale deve rispondere colui che ha reso la dichiarazione mendace, ove sia riscontrabile nell’atto stesso un quid pluris (cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto all’attestazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, sicché (come rilevato dalla Sez. V, con la sentenza 12 gennaio 2007, n. 545, Cogoni) “la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi che determina la falsa attestazione del soggetto ingannato”.

Altre pronunzie, infine, hanno escluso ogni responsabilità del privato autore della falsa attestazione nel caso in cui sussista un obbligo, non adempiuto, del pubblico ufficiale di accertare la veridicità della dichiarazione (così Sez. V, 25 gennaio 2005, n. 2253, Lorenzetto).

Si è espressa, invece, per l’irrilevanza della possibilità di controllo da parte del pubblico ufficiale sempre la V Sezione, con la sentenza 14 febbraio 2003, n. 7390, Porcaro.

4. Nel quadro giurisprudenziale dianzi delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite, con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti, secondo il quale tutte le volte in cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Va riconfermato, al riguardo, che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti, giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che concernano altri “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479, ultima parte, cod. pen.).

5. L’opposto orientamento non può essere condiviso.

Il pubblico ufficiale, invero – allorquando nell’atto da lui formato fa riferimento ad atti o a “dichiarazioni sostitutive” (non veri) provenienti dal privato e riferiti a presupposti richiesti per la legittima emanazione dello stesso atto pubblico – non si limita ad “attestare l’attestazione del mentitore” né a “supporre che quella attestazione sia veridica”, ma compie, sia pure implicitamente, una attestazione falsa circa la sussistenza effettiva di quei presupposti indefettibili: attestazione di rispondenza a verità che si connette alla funzione fidefaciente che la legge assegna alle dichiarazioni sostitutive dei privati.

La premessa, contenuta nella parte descrittiva dell’atto, non è la mera circostanza che sia intervenuta un’attestazione del mentitore o che questi abbia prodotto un atto determinato, bensì che il fatto rappresentato in quell’atto o in quella “dichiarazione sostitutiva” sia certo, effettivamente accaduto ed integri l’esistenza di un elemento necessario per l’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale. Quest’ultimo perviene ad una conclusione errata ma l’errore non si connette alla interpretazione e/o alla valutazione soggettiva di ciò che è ontologicamente esistente, costituendo invece il frutto di un falso determinato dalla falsità oggettiva dei presupposti attestati nella premessa, sicché viene esternata una non veridica rappresentazione della realtà e ad essa viene conferita pubblica fede.

Stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno e l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l’atto pubblico è destinato a provare la verità.

Si configurano perciò, anche sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una seconda concretatasi nell’induzione in errore del pubblico ufficiale mediante la produzione della stessa ai fini dell’integrazione di un presupposto dell’atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica.

Nell’atto del pubblico ufficiale non deve necessariamente riscontrarsi un “quid pluris” (cioè una situazione di fatto più ampia) rispetto alla dichiarazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal privato, poiché il reato previsto e sanzionato dell’art. 479 cod. pen. può essere commesso con modalità molteplici (come risulta evidente dalla stessa formulazione della norma incriminatrice) ed in particolare attraverso la falsa attestazione non soltanto di vicende che hanno comportato la partecipazione attiva e diretta del pubblico ufficiale, bensì anche e comunque, indipendentemente da ciò che questi ha compiuto, di “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità” (art. 479, ultima parte, cod. pen.), fatti suscettibili di prova storica attraverso la loro attestazione.

La falsa premessa deve concernere un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità e ciò va inteso anche quale “immutatio veri” circa l’esistenza di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato.

Restano escluse le ipotesi in cui il pubblico ufficiale al quale l’inganno era rivolto sia caduto in errore “per causa propria”, e l’art. 48 cod. pen., per il richiamo al precedente art. 47, ammette pure la possibilità che l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa rappresentazione e che, di conseguenza, quest’ultimo debba eventualmente rispondere a titolo di colpa del fatto commesso.

6. Ne consegue l’affermazione del principio secondo il quale il delitto di falsa attestazione del privato (di cui all’art. 483 cod. pen.) può concorrere – quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.), sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.

7. Sussiste pertanto, nella specie, anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen., poiché le false dichiarazioni degli imputati, già costituenti di per sé reato, si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti da pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche, tenuto conto che:

-- nel verbale del 2 dicembre 1999, la competente Commissione ha ammesso alla gara le società rappresentate dai ricorrenti, attestando la regolarità delle loro domande di partecipazione e la rituale produzione dei documenti richiesti nel relativo invito (ove veniva indicata, quale condizione indefettibile, la necessità della iscrizione all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999);

-- nel verbale del 26 gennaio 2000, la Giunta provinciale ha ribadito la regolarità della documentazione presentata dalle imprese partecipanti alla gara, con ciò attestando l’esistenza di tutti i presupposti per l’assegnazione dell’appalto.

Detti atti della P.A. erano destinati a provare la verità dell’esistenza degli enunciati presupposti nell’ambito di un determinato procedimento di licitazione privata ed erano produttivi di effetti, anzitutto nei confronti degli altri partecipanti alla gara, proprio in virtù di detta esistenza. Un asserito presupposto essenziale, invece, non esisteva in concreto e la falsa configurazione dello stesso ha consentito l’aggiudicazione dell’appalto con preferenza rispetto alle altre imprese concorrenti.

Incongruo sarebbe il riferimento ad un obbligo, non adempiuto, dei pubblici ufficiali di accertare la veridicità della dichiarazione: il meccanismo di semplificazione amministrativa, introdotto dalle c.d. leggi Bassanini e culminato nel T.U. n. 445 del 2000, assegna infatti una funzione fidefaciente alle attestazioni dei privati, che si riflette automaticamente sugli elementi attestativi della P.A., senza che questa abbia il dovere di effettuare controlli o di acquisire conoscenze dirette.

8. Il ricorso, per tutte le argomentazioni svolte dianzi, deve essere rigettato ed i ricorrenti devono essere condannati, in solido, al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,

visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p.,

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

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