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domenica 29 novembre 2009

Comunione e condominio - Assemblea dei condomini - Impugnazione delle deliberazioni - Innovazioni e modificazioni

Comunione e condominio - Assemblea dei condomini - Impugnazione delle deliberazioni -Innovazioni e modificazioni

In tema di regolare costituzione dell’assemblea condominiale e di validità delle delibere, devono ritenersi annullabili, ex art. 1137 c.c., le delibere adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale. Ne consegue che, deve qualificarsi annullabile, e non affetta da nullità, la delibera assembleare di approvazione di lavori da eseguirsi presso lo stabile condominiale che sia stata adottata con maggioranza inferiore a quella prevista per le innovazioni, sempre che le anzidette opere siano qualificabili come innovazioni e non siano soltanto finalizzate a migliorare la conservazione ed il godimento dello stabile.

In tema di spese condominiali necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni, nella specie inerenti lavori aventi ad oggetto la rivestitura a cappotto dei muri perimetrali del fabbricato condominiale, ai sensi dell’art. 1123, comma 1, c.c. dette spese devono essere ripartire tra i condomini in misura proporzionale al valore delle rispettive proprietà, e non in proporzione all’uso che ciascun condomino può farne, ex art. 1123, comma 2, c.c., atteso che, i muri perimetrali dell’edificio non sono suscettibili di un uso diverso da parte dei condomini e considerato che, nella specie, lo stesso regolamento condominiale prevedeva espressamente che le spese per la conservazione e manutenzione fossero ripartite in base alla tabella millesimale.

Cass. civ. Sez. II, 23-11-2009, n. 24658

TESTO COMPLETO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele - Presidente

Dott. GOLDONI Umberto - Consigliere

Dott. ATRIPALDI Umberto - Consigliere

Dott. MIGLIUCCI Emilio - rel. Consigliere

Dott. PETITTI Stefano - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25673/2004 proposto da:

TESTON DI MAZZON MARZIA ANNA & MAZZON FABIO & C SAS, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell'avvocato MANZI Luigi, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARLIN MASSIMO;

- ricorrente -

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona dell'Amministratore pro tempore G.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell'avvocato DI PIERRO Nicola, che lo rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1950/2003 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 29/12/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 29/09/2009 dal Consigliere Dott. EMILIO MIGLIUCCI;

udito l'Avvocato Emanuele COGLITORE, con delega depositata in udienza dell'Avvocato Luigi MANZI, difensore del ricorrente che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Teston di Mazzon Marzia & Mazzon Fabio & s.a.s. proponeva opposizione avverso il decreto con cui con cui le era stato ingiunto il pagamento di L. 18.162.000 a favore del Condominio (OMISSIS), a titolo di saldo di lavori aventi ad oggetto la rivestitura a cappotto dei muri perimetrali del fabbricato condominiale; deduceva che nulla era dalla medesima dovuto, chiedendo che venisse dichiarata la nullità della Delib. assembleare 28 luglio 1996, che aveva disposto l'esecuzione delle opere in questione con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge.

Il Condominio chiedeva il rigetto dell'opposizione.

Con sentenza n. 28/00 il Tribunale di Venezia sez. distaccata di Portogruaro rigettava l'opposizione.

Con sentenza dep. il 29 dicembre 2003 la Corte di appello di Venezia rigettava l'impugnazione proposta dalla Teston s.a.s..

I giudici di appello, nel respingere la tesi secondo cui la Delib. 28 luglio 1996, che aveva approvato i lavori in oggetto, sarebbe stata affetta da nullità perchè adottata con maggioranza inferiore a quella prevista per le innovazioni, escludeva che tali potessero qualificarsi le opere in questione, che erano consistite in lavori di rivestitura a cappotto sulle facciate, di posa di reti e pannelli e di conseguente nuova intonacatura e dovevano considerarsi, perciò, dirette a migliorare la conservazione e il godimento dell'immobile;

la ripartizione delle spese necessarie per la loro conservazione andava necessariamente fatta in misura proporzionale al valore delle proprietà di ciascun condomino e non, come invece preteso dall'appellante, a stregua della diversa misura del servizio reso ai singoli condomini, atteso che i muri perimetrali dell'edificio non sono suscettibili di un uso diverso da parte dei condomini; l'art. 7 del regolamento condominiale prevedeva espressamente che le spese per la conservazione e manutenzione fossero ripartite in base alla tabella millesimale. Ritenevano inammissibili gli ulteriori motivi di doglianza che non erano stati formulati con l'atto di appello.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la Teston di Mazzon Marzia & Mazzon Fabio & s.a.s. sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso il Condominio (OMISSIS) che ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, lamentando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e falsa applicazione dell'art. 1421 cod. civ., in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 3", censura la decisione gravata laddove aveva affermato "che avendo esaurito l'appellante ogni potere di impugnativa con l'atto di appello, non possono essere qui esaminati successivi e ulteriori motivi di doglianza" atteso che con l'atto di appello era stato dedotto che la somma di cui al decreto opposto non era dovuta ed era stato chiesto che fosse accertata e dichiarata la nullità della Delib. adottata all'assemblea del Condominio (OMISSIS) in data 28 luglio 1996, sulla quale si era fondato poi il decreto medesimo:

nelle more del giudizio di appello erano intervenute le sentenze n. 38/2002 e n. 156/2003 con le quali il Tribunale di Venezia, Sezione distaccata di Portogruaro aveva accertato la nullità della Delib. 28 luglio 1996; in particolare, con la comparsa conclusionale la ricorrente aveva, ancora, prodotto copia della sentenza n. 38/2002 pronunciata in un identico procedimento di opposizione a decreto proposto da altro soggetto proprietario di un'unità immobiliare del Condominio (OMISSIS), mentre copia del dispositivo della sentenza n. 156/2003 era stata allegata alla memoria di replica, posto che ancora non era disponibile la copia integrale: il giudice avrebbe dovuto rilevare d'ufficio la nullità della delibera accertata dalle decisioni sopra richiamate anche ove le deduzioni dell'appellante fossero state tardive, tenuto conto che la nullità della delibera condominiale può essere fatta da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice anche in grado di appello.

Con il secondo motivo la ricorrente, lamentando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1136 cod. civ. in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 3. Nullità della Delib. 28 luglio 1996", deduce la nullità della citata delibera eh era stata adottata con un numero di voti 419.96 millesimi, inferiore alla maggioranza indicata dall'art. 1136 cod. civ., comma 5, per approvazione delle innovazioni, dovendo così qualificarsi le opere deliberate secondo quanto emerso dall'elaborato redatto dal consulente tecnico nominato nel procedimento N.R.G. 15060/00 e depositato con la comparsa conclusionale; in ogni caso le opere in questione costituivano un intervento di manutenzione straordinaria che era stato approvato con una maggioranza inferiore a quella prescritta dall'art. 1136 cod. civ., comma 4, secondo quanto accertato con la sentenza n. 38 del 2002.

I motivi, essendo strettamente connessi, vanno trattati congiuntamente.

Le censure vanno disattese, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere in parte rettificata.

Va innanzitutto considerato che: 1) in tema di opposizione a decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emesso ai sensi dell'art. 63 disp. att. cod. civ., per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale, già impugnata in altro giudizio, ma solo questioni riguardanti l'efficacia della medesima. Tale delibera infatti costituisce titolo di credito del condominio e, di per sè, prova l'esistenza di tale credito e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condominio a pagare le somme nel giudizio di opposizione che quest'ultimo proponga contro tale decreto, ed il cui ambito è dunque ristretto alla sola verifica della esistenza e della efficacia della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. 2387/2003; 7261/2002; 11515/1999; 3302/1993).

2) debbono qualificarsi nulle le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto; debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto (S.U. 4806/2005).

Nella specie, l'opponente ha invocato la nullità della delibera posta a base dell'opposto decreto, deducendo che la stessa sarebbe stata adottata con maggioranza inferiore a quelle prescritta: secondo quel che si è detto, in tal modo ha denunciato un motivo non di nullità ma di annullabilità che andava fatto valere nel termine di cui all'art. 1137 cod. civ., con l'impugnazione della delibera al giudice competente, non potendo tale invalidità essere accertata neppure incidenter tantun dal giudice adito con l'opposizione avverso il decreto ingiuntivo relativo ai contributi deliberati dall'assemblea.

Nè, d'altra parte, potrebbe invocarsi la cosa giudicata per effetto delle sentenze menzionate dalla ricorrente, che avrebbero dichiarato la nullità della delibera in oggetto perchè - a prescindere dal rilevare la tardività della produzione avvenuta rispettivamente con la comparsa conclusionale e con la memoria di replica depositate nel giudizio di gravame, per cui la sentenza impugnata non le ha esaminate (e non ha potuto verificare in particolare il passaggio in giudicato), va osservato che mentre quella n. 38 del 2002 era stata emessa - secondo quanto affermato dalla stessa ricorrente - nei confronti di soggetto estraneo al presente giudizio (altro condomino) e dunque manca uno degli elementi necessari (l'identità soggettiva) per invocare nel presente giudizio la cosa giudicata, della decisione n. 156/2003 era stato prodotto - sempre secondo quanto affermato dalla ricorrente - il solo dispositivo e neppure nella presente sede di legittimità risulta depositata la sentenza con attestazione di passaggio in giudicato avvenuto in data successiva alla pronuncia della sentenza impugnata.

Con il terzo motivo la ricorrente, lamentando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Violazione dell'art. 1223 c.c., commi 2 e 3, in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 3.

Errata ripartizione delle spese. Violazione dell'art. 1123 c.c., commi 2 e 3. Contraddittorietà della motivazione", censura la sentenza impugnata laddove, nel disattendere la doglianza relativa alla ripartizione delle spese, aveva affermato "nè del resto l'appellante spiega come ogni condomino possa fare uso diverso e godere in maniera diversa del muro comune perimetrale", senza considerare che il Condominio (OMISSIS) è in sostanza un supercondominio, costituendo un complesso immobiliare a forma di "(OMISSIS)", disposto su quattro livelli, composto quindi da numerose unità: tre unità in proprietà Teston s.a.s. sono poste al pianterreno; una di queste, in particolare, adibita a pizzeria, è del tutto autonoma, non risulta collegata in alcun modo al corpo principale dell'edificio e non è stata interessata dal lavori condominiali di cui non ha in alcuna misura usufruito.

Il motivo va disatteso.

La sentenza impugnata, nel respingere la doglianza in ordine alla ripartizione delle spese relative ai lavori in questione, non si è limitata a fare riferimento all'art. 1123 cod. civ., comma 2, ma ha anche ritenuto che i muri perimetrali in oggetto erano comuni e che l'obbligo di contribuire al pagamento dei contributi condominiali in questione trovava comunque fondamento nella disposizione di cui all'art. 7 del regolamento di condominio, secondo cui erano a carico dei condomini gli oneri relativi ai muri perimetrali, così rinvenendo anche in tale fonte l'obbligo di pagamento: tale ratio decidendi non è stata censurata dal ricorrente e, perciò, è di per sè idonea a sorreggere la motivazione.

Al riguardo, va considerato che quando con il ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l'accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, "in toto" o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l'una o l'altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass. 16602/2005).

Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste a carico della ricorrente, risultata soccombente.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2009

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venerdì 27 novembre 2009

LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) - SPORT - COMPETIZIONE AGONISTICHE - LANCIO DI MATERIALE PERICOLOSO E ALTRO

LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) - SPORT - COMPETIZIONE AGONISTICHE - LANCIO DI MATERIALE PERICOLOSO E ALTRO - MISURE "EX ART. 6, COMMA SETTIMO, L. N. 401 DEL 1989 - SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO
Con la decisione in esame la Corte ha affermato che la misura del divieto di accesso nei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive nonché quella dell’obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia (art. 6, comma settimo, L. 13 dicembre 1989, n. 401) devono essere disposte anche con la sentenza di applicazione della pena per il reato previsto dall’art. 6 bis della legge citata.

Testo Completo:
Sentenza n. 44026 del 6 ottobre 2009 – depositata il 18 novembre 2009(Sezione Prima Penale, Presidente A. Teresi, Relatore M. Gentile)

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MISURE CAUTELARI PERSONALI - IMPUGNAZIONI - RICHIESTA DI RIESAME - TELEGRAMMA MEDIANTE SERVIZIO TELEFONICO - INAMMISSIBILITA'

MISURE CAUTELARI PERSONALI - IMPUGNAZIONI - RICHIESTA DI RIESAME - TELEGRAMMA MEDIANTE SERVIZIO TELEFONICO - INAMMISSIBILITA'
In tema di misure cautelari personali, è inammissibile la richiesta di riesame proposta dal difensore mediante dettatura al servizio telefonico di un telegramma, trattandosi di una modalità che non garantisce certezza in ordine all’autenticità della provenienza e all’identità dell’impugnante.

Testo Completo:
Sentenza n. 44660 del 27 ottobre 2009 – depositata il 20 novembre 2009(Sezione Prima Penale, Presidente S. Chieffi, Relatore M. Cassano)

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STUPEFACENTI - IMPUTATO TOSSICODIPENDENTE O ALCOOLDIPENDENTE - ARRESTI DOMICILIARI - DISINTOSSICAZIONE PRESSO STRUTTURA RESIDENZIALE

STUPEFACENTI - IMPUTATO TOSSICODIPENDENTE O ALCOOLDIPENDENTE - ARRESTI DOMICILIARI - DISINTOSSICAZIONE PRESSO STRUTTURA RESIDENZIALE - LIMITAZIONE AI DELITTI DI RAPINA ED ESTORSIONE - ESCLUSIONE
Con la decisione in esame la Corte ha affermato che il principio che, a seguito delle modifiche introdotte all’art. 89 del d.P.R. n. 309 del 1990 dalla L. n. 49 del 2006, l’applicazione degli arresti domiciliari in luogo della misura detentiva carceraria nei confronti di imputato tossicodipendente od alcooldipendente - ovvero la sostituzione di quest’ultima con gli arresti domiciliari - può essere disposta solo nelle ipotesi in cui il trattamento di disintossicazione venga effettuato presso una struttura residenziale, non solo nel caso in cui si proceda per i reati di rapina aggravata ed estorsione aggravata, ma anche in ogni altro caso in cui il giudice ritenga sussistenti “particolari esigenze cautelari”.

Testo Completo:
Sentenza n. 43396 del 24 settembre 2009 – depositata il 13 novembre 2009(Sezione Terza Penale, Presidente P. Onorato, Relatore A. M. Lombardi)

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LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) – MANIFESTAZIONI SPORTIVE - OBBLIGO DI PRESENTAZIONE AD UN UFFICIO O COMANDO DI POLIZIA - SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO

LEGGI PENALI SPECIALI (ALTRE) – MANIFESTAZIONI SPORTIVE - OBBLIGO DI PRESENTAZIONE AD UN UFFICIO O COMANDO DI POLIZIA - SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO
Con la decisione in esame la Corte ha affermato che la misura del divieto di accesso nei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive nonché quella dell’obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia (art. 6, L. 13 dicembre 1989, n. 401) devono essere disposte anche con la sentenza di applicazione della pena.

Testo Completo:
Sentenza n. 44022 del 6 ottobre 2009 – depositata il 18 novembre 2009(Sezione Terza Penale, Presidente A. Teresi, Relatore M. Gentile)

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INGIURIA E DIFFAMAZIONE - RADIOCOMUNICAZIONI - TELEVISIONE IN GENERE

INGIURIA E DIFFAMAZIONE - RADIOCOMUNICAZIONI - TELEVISIONE IN GENERE

In tema di diffamazione a mezzo mass media, nel caso di talk show televisivi finalizzati alla rivisitazione di gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e di processo, la divulgazione di ipotesi investigative o di meri sospetti di inquirenti - veri o presunti che siano – rimasti privi di riscontro nelle indagini, sono tali da nuocere alla reputazione ed alla onorabilità delle persone che siano state ingiustamente sospettate, integrando il reato di cui all’art. 595, commi 1 e 2, c.p. La Cassazione chiarisce che, in tale ipotesi, non rilevi ai fini dell’operatività dell’esimente putativa del diritto di cronaca ex art. 51 c.p., la circostanza che il giornalista abbia attinto la notizia dalle agenzie di stampa, senza aver assolto all’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte.

Cass. pen. Sez. V Sent., 17/07/2009, n. 45051

Testo completo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIZZUTI Giuseppe - Presidente

Dott. COLONNESE Andrea - Consigliere

Dott. BEVERE Antonio - Consigliere

Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere

Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto il 13.3.2009 da:

avv.prof. SEVERINO PAOLA, difensore di V.B., nato a (OMISSIS), e di F.V., nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 5 novembre 2008. Letto il ricorso e la sentenza impugnata;

Letta la memoria difensiva depositata dall'avv. Luigi Di Maio nell'interesse delle parti civili;

Sentita la relazione del Consigliere Dott. Paolo Antonio Bruno;

Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dott. Oscar Cetrangolo, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Sentito, altresì, l'avv. Maurizio Bellicosa, sostituto processuale dell'avv. Severino, che ne ha chiesto, invece, l'accoglimento.

Svolgimento del processo
F.V. e V.B., nelle qualità di seguito specificate, erano chiamati a rispondere, innanzi al Tribunale di Roma dei seguenti addebiti: la F. del reato di cui all'art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3, perchè, quale autrice di un servizio giornalistico apparso nel corso della trasmissione televisiva (OMISSIS), sul delitto dell'(OMISSIS), offendeva la reputazione di M.P. nonchè dei di lui figli M.M. e M.D., accostando l'omicidio di F.D.T.A., rispettivamente moglie e madre dei predetti, a misteriosi conti miliardari, ad una relazione extraconiugale della vittima con un funzionario dei servizi segreti, ad un desiderio della vittima di divorziare, ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi, nonchè affermando che M.P. era stato sospettato dell'omicidio della moglie ma scagionato grazie all'analisi del DNA e che era stato accusato da una donna ( P.E., come si ricava dalle immagini) che avrebbe fornito ai magistrati nuovi elementi "consegnando anche gli abiti che l'uomo avrebbe indossato il giorno dell'omicidio"), omettendo di riferire che la P. era stata condannata per diffamazione a mezzo stampa in danno del M.; con le aggravanti dell'attribuzione di un fatto determinato e di avere arrecato offesa con un mezzo di ampia diffusione; il V. del delitto di cui all'art. 595 c.p., L. 6 agosto 1990, n. 223, art.30, comma 4, e L. 8 febbraio 1948, n. 41, art. 13, perchè, quale responsabile della trasmissione televisiva (OMISSIS) e delegato al controllo, non impediva la programmazione del servizio di cui al capo precedente e quindi la commissione del delitto di diffamazione, con attribuzione di un fatto determinato, in danno di M.P., M.M. e M.D..

Con sentenza del 21 giugno 2005, il Tribunale assolveva gli imputati dalla anzidette contestazioni con la formula dell'insussistenza del fatto.

Pronunciando sul gravame proposto, anche agli effetti penali, dalle parti civili avverso l'anzidetta pronuncia, la Corte di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha ribaltato il giudizio assolutorio, affermando la penale responsabilità degli imputati per i reati loro rispettivamente ascritti e, con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, li condannava alla pena di Euro 1.000,00, di multa ciascuno, con i doppi benefici per entrambi. Li condannava, altresì, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da determinare in separata sede.

Avverso la pronuncia anzidetta il difensore degli imputati ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

Motivi della decisione
1. - Il primo motivo di ricorso denuncia inosservanza delle norme processuali, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), in riferimento alla violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ai sensi degli artt. 521 e 522 c.p.p., nonchè il riferimento alla violazione del principio devolutivo dell'appello, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 1.

Deduce, al riguardo, che la Corte di Appello di Roma aveva utilizzato, per l'affermazione di penale responsabilità, parti della registrazione televisiva diverse dalla scheda giornalistica predisposta dalla F., in quanto relative al dibattito svoltosi successivamente in studio tra gli ospiti della serata, nonostante il capo d'imputazione fosse circoscritto al contenuto della stessa scheda ed il gravame delle parti civili avesse riguardato tale specifico oggetto, sul quale, pertanto, avrebbe dovuto restare circoscritto l'ambito di cognizione del giudice di appello.

Il secondo motivo eccepisce mancanza e manifesta illogicità di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in ordine all'affermazione di penale responsabilità nonchè inosservanza od erronea applicazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento ai criteri ed alle condizioni per il riconoscimento, in tema di diffamazione a mezzo radiotelevisione, dell'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, ai sensi degli artt. 51 e 595 c.p.. Argomenta, in proposito, che la trasmissione televisiva era stata rispettosa dei canoni di giudizio che devono presiedere al riconoscimento dell'esimente in parola, soprattutto in ragione della verità della notizia e tenuto conto che dallo sviluppo del servizio televisivo risultava, per implicito, che le ipotesi investigative non avevano trovato fondamento.

Il terzo motivo deduce inosservanza delle norme processuali, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione all'inammissibilità, ex art. 591 c.p.p., dell'appello della parte civile, ai sensi dell'art. 577 c.p.p., nei confronti dell'imputato V.B., ovvero mancanza e manifesta illogicità di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), nonchè inosservanza od erronea applicazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 595 c.p., e L. 6 agosto 1990, n. 223, art. 30, relativamente all'affermazione di responsabilità del ricorrente V.. In primo luogo, l'appello era inammissibile non potendo estendersi all'ipotesi di cui alla L. n. 223 del 1999, art. 30, comma 3, che, di fatto, era stata contestata all'imputato, al di là del riferimento all'art. 595 c.p.. In secondo luogo, anche ove l'imputazione potesse intendersi riferita al concorso nel reato di diffamazione, la motivazione sul punto era carente od assolutamente inidonea, risolvendosi nel mero, sintetico, inciso secondo cui il responsabile e conduttore.... - nemmeno in diretta -... ne risponde autonomamente come concorrente nel reato di diffamazione per "non aver impedito" il fatto e non per omesso controllo dell'articolo, figura questa estranea alle trasmissioni televisive di intrattenimento giornalistico.

2. - Ragioni d'ordine logico e di economia espositiva impongono di trattare, in linea preliminare, le questioni di rito, oggetto della prima e della quarta censura, siccome potenzialmente capaci - in caso di riconosciuta fondatezza - di definire in limine il giudizio, stante il loro carattere pregiudiziale.

La prima censura, relativa alla pretesa violazione del principio di contestazione, è priva di fondamento.

Non è, infatti, condivisibile l'argomento difensivo secondo cui il giudizio di colpevolezza espresso dal giudice di appello si sia affidato anche ad elementi estranei all'ambito fattuale del capo d'imputazione, segnatamente allo sviluppo del dibattito televisivo seguito alla presentazione della scheda predisposta dalla giornalista F..

Invero, l'insieme motivazionale della pronuncia impugnata non da adito a dubbi di sorta sulla piena coincidenza dell'ambito cognitivo ed argomentativo della Corte distrettuale con il contenuto della contestazione. Il solo riferimento alle affabulazionì degli esperti, ospiti della trasmissione, era infatti legato, nella struttura espositiva, alle ipotesi degli immancabili oscuri depistaggi, pure ventilate a margine dell'irrisolto giallo dell'(OMISSIS), senza però che le stesse costituissero novità rispetto al caleidoscopico scenario investigativo prospettato nel capo d'imputazione.

Non vi è stata, dunque, alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nè, tanto meno, del principio devolutivo del gravame. D'altronde, non risulta - ne è stata dedotta - alcun'apprezzabile violazione del diritto di difesa, al cui presidio è, notoriamente, preposto il precetto della contestazione.

La terza censura eccepisce - con esclusivo riferimento alla posizione del V. - l'inammissibilità del gravame delle parti civili, sub specie dell'improponibilità dello strumento di cui all'art. 577 c.p.p. (avuto riguardo al periodo di vigenza, anteriormente alla sua abrogazione), in ordine alla fattispecie colposa dell'omesso controllo dei responsabili delle trasmissioni televisive di cui alla L. n. 223 del 1990, art. 30, comma 3, che sarebbe stata, di fatto, contestata nella fattispecie in oggetto, al di là del riferimento nominalistico all'art. 30, comma 4, della stessa normativa.

L'eccezione difensiva è infondata, in quanto non corrisponde alla realtà sostanziale dell'addebito mosso al V., come riconosciuto fondato dal giudice di appello. Ed invero, balza evidente che il fatto contestato era, univocamente, formulato in termini di diffamazione ai sensi dell'art. 595 c.p., nella peculiare contestualizzazione del fatto - reato in seno alle trasmissioni televisive, così come previsto dal richiamato art. 30, comma 4. Tale contestazione è stata ritenuta fondata dalla Corte di merito che ha ravvisato la responsabilità dell'imputato in veste di concorrente nel reato di diffamazione per "non aver impedito" il fatto e non già per omesso controllo dell'articolo (figura questa estranea alle trasmissioni televisive di intrattenimento giornalistico).

Il rilievo di non aver impedito, nella parte incriminata, la messa in onda del dibattito televisivo, nonostante la trasmissione fosse in differita - come tale suscettibile di agevole verifica nell'esercizio dei poteri che, funzionalmente, competono al responsabile ed al delegato al controllo - è stato, correttamente, assunto come elemento sintomatico della fattispecie di concorso nel delitto di diffamazione aggravata. E, in ordine a tale ipotesi delittuosa, la parte civile, al tempo del gravame, aveva ancora il potere di impugnativa, anche agli effetti penali, a mente dell'art. 577 c.p.p., poi abrogato.

La seconda censura attiene, invece, al merito della vicenda, contestando, in punto di diritto, il diniego del reclamato esercizio del diritto di cronaca, ai sensi dell'art. 51 c.p..
All'esame della doglianza giova premettere un sintetico riferimento alla vicenda sostanziale ed al suo sviluppo procedurale.

Nel corso della trasmissione televisiva (OMISSIS) dedicata all'omicidio di F.D.T.A., noto alla cronaca nera come delitto dell'(OMISSIS) (dalla località in cui venne commesso), nell'ambito di una serie di inchieste sui più noti gialli irrisolti, il conduttore aveva sottoposto al dibattito in studio, come sempre affidato ad ospiti appositamente invitati, un servizio giornalistico (o scheda) predisposto da F.V.. In esso, si passavano in rassegna anche le variegate ipotesi a suo tempo formulate a margine del clamoroso evento delittuoso, accostandolo all'esistenza di misteriosi conti miliardari all'estero, alla relazione extraconiugale che la vittima avrebbe intrattenuto con un funzionario dei servizi segreti, al desiderio della stessa di divorziare dal marito M.P., ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi. Si era pure affermato che dell'omicidio era stato sospettato proprio il marito, poi scagionato grazie all'esame del DNA, accusato da una donna (tale P.E.) che, peraltro, aveva fornito agli inquirenti nuovi elementi, consegnando anche gli abiti che l'uomo avrebbe indossato il giorno dell'omicidio, senza però riferire che per tali dichiarazioni la stessa P. era stata, poi, dichiarata colpevole del reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del M..

A seguito di querela proposta dallo stesso M. e dai suoi figli, che avevano ritenuto diffamatorio il contenuto della trasmissione televisiva, il Tribunale di Roma, pur dando atto dell'incompletezza della notizia e dell'approssimazione dell'approccio giornalistico ad una vicenda di particolare complessità, aveva dubitato della valenza diffamatoria, osservando che, a tutto concedere, sarebbe stato operante nella fattispecie l'esimente dell'art. 51 c.p., ricorrendone tutti i presupposti, ossia l'interesse pubblico, la verità del fatto narrato e la continenza del modo espositivo.

Di tutt'altro avviso si è detta, poi, la Corte di merito, che ha, invece, rilevato l'obiettiva valenza diffamatoria del servizio. Al riguardo, ha osservato che dal verbale di trascrizione della trasmissione non risultava la doverosa precisazione che nessuna delle ipotesi prospettate a margine dell'omicidio, ciascuna di per sè diffamatoria, avesse trovato risconto nelle indagini. Infatti, la sola non conferma riguardava - piuttosto che le piste seguite - il solo fantomatico test DNA in persona del M. (o sull'abito asseritamente fornito dalla P.), in ordine al quale, peraltro, non era stata acquisito in atti alcun elemento di certezza.

Era certo, di contro, che non tutte le situazioni prospettate costituivano ipotesi investigative, in quanto alcune di esse (quali la presunta relazione adulterina od il desiderio della vittima di divorziare) erano solo congetture giornalistiche, peraltro storicamente smentite dalle persone informate nelle interviste giornalistiche prodotte dalle parti offese.

Era certo, altresì, che la P., che avrebbe riferito dell'abito del M. consegnato agli inquirenti, era stata condannata per diffamazione e della relativa sentenza, passata in giudicato, la giornalista F. non aveva dato atto.

Altre notizie, invece, venivano da precedenti servizi giornalistici o da notizie di agenzia, in ordine alle quali era mancato il benchè minimo controllo da parte dei responsabili della trasmissione.

In conclusione, la morte della nobildonna era stata gratuitamente accostata ad una serie di ipotesi oggettivamente diffamatorie, in un contesto oscuro ed inquietante di servizi segreti o depistaggi, con consequenziale pregiudizio per l'onore e la reputazione dei familiari.

Non ricorrevano i presupposti dell'esimente del diritto di cronaca, per mancanza di verità dei fatti riferiti, sub specie della mancata rigorosa verifica della attualità, al momento della trasmissione, delle variegate e più o meno immaginifiche ipotesi investigative ventilate durante le fasi (precedenti) delle indagini, senza costrutto condotte per anni.

3. - La lettura del giudice di appello appare formalmente e giuridicamente corretta e, in quanto tale, si sottrae al sindacato di legittimità.

Sulla base di congrua ed appagante motivazione, la Corte distrettuale ha ribaltato il giudizio di prime cure, dando specifico conto - confutandone la fondatezza - degli elementi argomentativi sulla base dei quali era maturato il diverso convincimento del primo giudice. In esito a tale percorso logico - argomentativo è pervenuta alla conclusione che la rappresentazione televisiva avesse carattere obiettivamente diffamatorio vuoi per intrinseco contenuto, correlato all'accostamento dell'omicidio ad inquietanti scenari, vuoi per l'incompletezza dell'informazione. Tale ultimo rilievo è stato coerentemente legato alla parzialità della notizia, alla quale non aveva fatto riscontro la necessaria precisazione che le ipotesi coltivate non avevano trovato alcuna conferma, al mancato approfondimento delle stesse ipotesi ed all'omesso rigoroso controllo delle fonti, che avrebbero consentito alla giornalista di prendere atto - e riferire - delle smentite che le stesse avevano aliunde trovato o delle pronunce dell'autorità giudiziaria che, con decisione irrevocabile, ne avevano stigmatizzato l'inconsistenza.

Il rilievo anzidetto, che esaltava il carattere oggettivamente denigratorio del servizio, è poi, correttamente, refluito sul diverso versante delle valutazioni riguardanti i presupposti dell'esimente del diritto di cronaca, al cui riconoscimento ostava proprio il difetto della verità della notizia, apprezzabile per la già rilevata incompletezza dell'informazione, con l'ulteriore profilo critico della mancanza di attualità della stessa, posto che si trattava di mere ipotesi e congetture che non avevano trovato alcun seguito investigativo.

Ulteriore profilo di lesività avrebbe potuto - e può ora ravvisarsi - nella violazione del diritto all'oblio, che, peculiare espressione del diritto alla riservatezza - costituzionalmente presidiato in quanto primaria ed indeclinabile esigenza della persona - ha trovato di recente significativi riconoscimenti nella giurisprudenza civile di questa Corte Suprema (cfr., tra le altre, Cass. sez. 3^, 9.4.1998, n. 3679). La nozione recepita dal giudice civile è nei termini descrittivi di giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata.

In siffatta accezione il diritto può avere un riflesso - sia pure indiretto - anche in ambito penale, siccome strettamente correlato al bene giuridico della reputazione, specificamente tutelato dalla norma incriminatrice della diffamazione. In particolare, con riferimento all'ipotesi della diffamazione a mezzo mass media, è risaputo che la libertà di stampa, precipua espressione del diritto di manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 Cost., comporta la compressione dei beni giuridici della riservatezza, dell'onore e della reputazione, che attenendo alla sfera dei diritti della persona, hanno pur essi dignità costituzionale (artt. 2 e 3 Cost.). Attualità della notizia ed attualità dell'interesse pubblico costituiscono risvolti di una delle condizioni alle quali è subordinato l'esercizio del diritto di cronaca o di critica che, sostanziando quel presidio costituzionale, giustifica il sacrificio degli anzidetti beni giuridici ed integra, sul piano penale, la speciale esimente di cui all'art. 51 c.p..
Il decorso del tempo può attenuare l'attualità della notizia e far scemare, al tempo stesso, anche l'interesse pubblico all'informazione.

Può anche verificarsi, nondimeno, che all'effetto di dissolvenza dell'attualità della notizia non faccia riscontro l'affievolimento dell'interesse pubblico o che - non più attuale la notizia - riviva, per qualsivoglia ragione, l'interesse alla sua diffusione.

Insomma, può non esservi corrispondenza o piena sovrapposizione cronologica tra attualità della notizia ed attualità dell'interesse pubblico alla divulgazione.

Nondimeno, in quest'ultima ipotesi, il persistente o rivitalizzato interesse pubblico, che - in costanza di attualità della notizia - doveva equilibrarsi con il diritto alla riservatezza, all'onore od alla reputazione, deve trovare - quando la notizia non è più attuale - un contemperamento con un nuovo diritto, quello all'oblio, come sopra delineato, anche nell'ulteriore accezione semantica di legittima aspettativa della persona ad essere dimenticata dall'opinione pubblica e rimossa dalla memoria collettiva.

In una rappresentazione plastica delle dinamiche ed interrelazioni tra i diritti coinvolti può tornare utile l'immagine rappresentativa della meccanica della molla compressa che si riespande ove venga meno la forza che la costringeva. I beni della riservatezza e della reputazione compressi dall'interesse pubblico all'informazione, quando la notizia è attuale, tendono a riespandersi con il trascorrere del tempo quando va, via via, scemando l'interesse pubblico. Ciò avviene, però, anche grazie alla forza propulsiva del diritto all'oblio progressivamente maturatosi.

La riattualizzazione dell'interesse pubblico può giustificare una nuova compressione di quei beni, ma deve trovare un nuovo punto di equilibrio con il diritto all'oblio, la cui maturazione, nel frattempo, può aver lenito o rimarginato l'offesa arrecata alla reputazione dalla notizia a suo tempo diffusa ovvero, addirittura, ricostituito la stessa reputazione ove questa, per gravità della vicenda, fosse stata distrutta dalla legittima informazione.

La ricerca di un giusto bilanciamento delle opposte esigenze è particolarmente delicata nell'ipotesi in cui si tratti di notizie relative ad indagini riguardanti un grave episodio delittuoso, che, a suo tempo, abbia destato enorme impressione nell'opinione pubblica e che, al pari di tanti altri, sia rimasto senza un colpevole.

Anche se in sede di legittimità sono sconsigliate generalizzazioni esemplificative, proprio in quanto le enunciazioni di principio in materia penale risentono fortemente delle obiettive peculiarità del fatto, può comunque tentarsi una succinta schematizzazione, avendo ovviamente di mira le esigenze connesse alla cognizione dei fatti oggetto del presente giudizio.

Riferire, a distanza di tempo, dello sviluppo di indagini di polizia giudiziaria deve ritenersi consentito in una ricostruzione storica dell'evento, pure a distanza di tempo e persino in chiave di critica all'operato degli inquirenti ed al modo in cui è stata svolta l'inchiesta. Non solo, ma secondo un fatto di costume oggi invalso e, comunemente, accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale od a quella processuale. Iniziative di siffatto genere riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento nell'utenza e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace, nondimeno, per forza di persuasione, di sovrapporsi - ove acriticamente recepita dagli utenti - a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili.

Ma in tali casi l'obbligo deontologico del giornalista deve parametrarsi a criteri di rigore ancora maggiore dell'ordinario.

Non gli è, infatti, consentito, neppure in chiave retrospettiva, riferire di ipotesi investigative o di meri sospetti degli inquirenti (veri o presunti che siano) senza precisare, al tempo stesso, che quelle ipotesi o sospetti sono rimasti privi di riscontro.

Le ipotesi degli investigatori che non abbiano trovato conforto nelle indagini sono il nulla assoluto, cui deve essere inibita ogni rilevanza esterna in quanto la loro divulgazione, monca del relativo esito, è capace di nuocere alla reputazione ed all'onorabilità delle persone che siano state (ingiustamente) sospettate. Allo stesso modo - potrebbe dirsi - in cui non hanno dignità esterna e meritano di essere relegate nel dimenticatoio o definitivamente cestinate le bozze rivedute e corrette di un'opera letteraria o le riprese non riuscite di un grande film, tagliate in sede di montaggio.

Ove esigenze di ricostruzione storica od artistica lo richiedano e permanga - o si riattualizzi - l'interesse pubblico alla relativa propalazione, la notizia deve essere accompagnata dalla doverosa avvertenza che le tesi investigative sono rimaste a livello di mera ipotesi di lavoro in quanto non hanno trovato alcuna conferma o, addirittura, sono state decisamente smentite dallo sviluppo istruttorio.

Parimenti, può essere lecito riferire della qualità di indagato che una persona abbia assunto nell'ambito di una determinata inchiesta penale, ma - ove l'attività di indagine preliminare non abbia portato ad un epilogo tale da consentire il rinvio a giudizio e si sia conclusa con un decreto di archiviazione - il giornalista, che rievochi quella vicenda, è obbligato a darne conto, avendo il dovere giuridico di rendere una informazione completa e di effettuare, all'uopo, tutti i necessari controlli per verificare quale approdo abbia mai avuto quella determinata indagine.

Alla stessa stregua, egli può riferire di determinate attività investigative, ma è tenuto a comunicarne l'esito, perchè dire che una persona è stata perquisita, controllata, o sottoposta a particolari esami (quali, ad esempio, DNA, stub o quant'altro) - nel quadro di un'indagine per gravi fatti delittuosi - senza precisare che quegli accertamenti hanno avuto riscontro negativo significa ledere l'immagine e la reputazione della persona interessata ed il suo diritto all'oblio, come sopra enunciato.

Una notizia monca od incompleta è capace, infatti, di ledere l'onorabilità dell'interessato e la proiezione sociale della sua personalità. Solo la completezza dell'informazione può, infatti, consentire all'utente od al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore - o, semmai, di disvalore - su una data vicenda o su una determinata persona.

Quanto alle asserite fonti giornalistiche genericamente richiamate dagli imputati, l'avere acriticamente attinto ad esse od alle agenzie di stampa, senza ogni doverosa attività di verifica, non può giustificarne l'operato neanche a livello putativo, alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice secondo cui la scriminante putativa dell'esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto pubblicato, il giornalista abbia assolto all'obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, alfine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l'affidamento riposto in buona fede sulla fonte, e, quando si intende pubblicare la notizia di un fatto lesivo dell'altrui reputazione, la verifica, per una deontologica esigenza di garanzia, va fatta quando ciò è possibile, interpellando la persona che dalla pubblicazione risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni (cfr. Cass. Sez. 5^, 9.3.2006, n. 25003, Calabrese).

Nel caso di specie, correttamente il giudice di appello ha ritenuto che gli imputati, nelle rispettive qualità, siano venuti meno ai doveri deontologici con ciò arrecando un danno ingiusto al M. ed ai suoi familiari, pur essi lesi dall'offesa alla memoria della loro congiunta, la cui tragica scomparsa è stata gratuitamente accostata a fatti riservati di vita familiare od a scenari oscuri ed inquietanti, quali rivenienti da un coacervo di mere congetture investigative o giornalistiche rimaste prive di riscontro o persino smentite da sentenza divenuta irrevocabile.

4. - Per quanto precede il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo, anche in ordine alla condanna dei ricorrenti alla rifusione, in solido, delle spese di parte civili, che appare congruo ed equo determinare come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali nonchè in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquidata in Euro 3.000,00 comprensivi di onorari, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2009.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2009


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martedì 24 novembre 2009

SEPARAZIONE - AFFIDO DEI MINORI - LORO AUDIZIONE

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 6 - 21 ottobre 2009, n. 22238

(Presidente Carbone - Relatore Forte)

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Rieti, con decreto del 17 aprile 2007, sui ricorsi riuniti del 15 settembre e del 13 ottobre 2006 di K. A. A. e G. C., coniugi consensualmente separati con omologa del 6 giugno 2006, affermata la propria giurisdizione in luogo di quella dei giudici finlandesi, s'è dichiarato incompetente sulle istanze di modifica delle disposizioni accessorie alla separazione, presentate dalla

donna in rapporto al diritto di visita del padre ai due figli M. e M. C., nati ad omissis il omissis e il omissis, affidati nell'accordo omologato alla madre che, per ragioni di lavoro, si era trasferita in omissis con loro, domandando in quel paese pure il divorzio dal marito in data successiva, e sulla richiesta del C. di affidamento esclusivo a lui dei figli condotti all'estero contro la sua volontà, con ogni altra statuizione conseguenziale.

La Corte d'appello di Roma, sui reclami di entrambe le parti, con il decreto di cui in epigrafe, ha riaffermato la giurisdizione del giudice italiano impugnata dalla A., in base alle regole sulla litispendenza tra giudizi in materia di affidamento di minori pendenti in più Stati membri della CE, per essere stato adito il giudice italiano prima di quello finlandese, che, nel suo provvedimento interinale del 18 gennaio 2007, aveva disposto provvisoriamente incontri in quel paese tra padre e figli, “in attesa della decisione” della predetta Corte di merito.

È stato invece accolto l'appello del C. sulla competenza del primo giudice, da questo denegata a favore del tribunale per i minorenni, per essere stati i due figli sottratti e trattenuti illecitamente all'estero (Convenzione de L'Aja del 28 maggio 1970 e L. 15 gennaio 1994 n. 64), affermandosi che in primo grado si erano chieste modifiche di patti accessori alla separazione, su cui doveva decidere il tribunale, ai sensi dell'art. 710 c.p.c. La Corte di merito, ha affidato al C. i due minori, senza disporre la loro audizione chiesta con le conclusioni dal P.G. assegnandogli la casa familiare in omissis e confermando la sanzione irrogata alla donna di euro 5000,00 ai sensi dell'art. 709 ter c.p.c., per aver violato le disposizioni concordate in sede di separazione consensuale.

In secondo grado è stata invece respinta la richiesta del C. di un contributo a carico della moglie per il mantenimento dei figli, ritenendosi non provata la capacità contributiva di lei, condannata alle spese del grado per la soccombenza.

Per la cassazione di tale decreto propone ricorso principale di dodici motivi la A., cui resiste il C. con controricorso e ricorso incidentale di due motivi, cui controparte replica con altro controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. In via preliminare va rilevato che i due ricorsi proposti in questa sede già risultano iscritti con un solo numero di Ruolo generale e devono quindi valutarsi unitariamente.

1.1. Vanno rigettate le eccezioni del C. di inammissibilità del ricorso principale in rapporto alla procura al difensore della A., rilasciata su foglio separato congiunto materialmente al ricorso, ritenuta priva del requisito della specialità e a causa della natura non decisoria né definitiva del decreto impugnato, sempre modificabile e comunque emesso allo stato degli atti.

La procura in calce al ricorso è apposta su foglio congiunto ad esso e in essa vi è “delega” agli avvocati Martignetti a rappresentare e difendere la A. nel “presente giudizio”; nell'atto non si evidenziano espressioni incompatibili con la volontà della donna di essere rappresentata e difesa nella fase di legittimità conseguente al ricorso cui esso accede (Cass. 7 marzo 2006 n. 5868, 5 settembre 2005 n. 17768, 12 luglio 2005 n. 14611, 13 agosto 2004 n. 15738, 19 aprile 2002 n. 5722).

Le stesse sentenze citate nel controricorso del C. a sostegno della eccezione evidenziano che il contenuto della procura determina la inammissibilità della impugnazione soltanto qualora, dalla lettura di essa, sorgano dubbi in ordine al giudizio cui l'atto si riferisce, che rendano incompatibile la procura e il conferimento di poteri al difensore per il ricorso per cassazione (con Cass. n. 9173 del 2003 citata in ricorso, cfr. Cass. 21 marzo 2005 n. 6070 e 16 dicembre 2004 n. 23381). In rapporto alla ricorribilità ex art. 111 Cost. dei decreti emessi dalla Corte d'appello sui reclami contro i provvedimenti del tribunale sulle istanze di modifica di disposizioni accessorie alla separazione, essa certamente sussiste per il carattere di stabilità - sia pure temporanea e non permanente - di tali atti giurisdizionali, che li rende idonei al giudicato “rebus sic stantibus”, anche se ne è possibile la modifica per circostanze sopravvenute con altro procedimento camerale, essendo tali pronunce decisorie per un tempo indeterminato in rapporto alle mutevoli posizioni soggettive delle parti e dei figli minori, e definitive nei loro effetti fino all'eventuale modifica di dette posizioni accertata nei modi e forme previsti dalla legge (così Cass. 7 dicembre 2007 n. 25619 e 18 agosto 2006 n. 18187, 28 giugno 2006 n. 18627, 16 maggio 2005 n. 10229, 30 dicembre 2004 n. 24265, tra altre).

Tale conclusione non esclude la preclusione del ricorso per cassazione contro i provvedimenti urgenti emessi in via provvisoria e interinale nel corso del giudizio di separazione, a seguito di reclamo alla Corte d'appello contro le disposizioni date dal presidente nella comparizione personale dei coniugi, o dal G.I. in corso di causa (Cass. 6 novembre 2008 n. 26631). Diversa è pure la fattispecie di cui all'art. 317 bis c.c., relativa alla potestà genitoriale sul figlio naturale, nella quale il giudice, anche d'ufficio, interviene con propri provvedimenti “nell'esclusivo interesse del figlio”, senza incidere su pregresse statuizioni con valore di giudicato, per cui non è necessario che tali atti abbiano natura decisoria e idoneità a divenire con il medesimo effetto di legge tra le parti (S.U. ord. 8 aprile 2008 n. 9042, S.U. 30 novembre 2007 n. 25008, S.U. 15 luglio 2003 n. 11026 e 12 luglio 2002 n. 10128).

La stabilità del provvedimento giurisdizionale, che lo rende idoneo a divenire giudicato, può essere permanente o temporanea e, anche in tale secondo caso, allorché l'atto incida su diritti soggettivi delle parti, come accade nella fattispecie, è ovvia la sua decisorietà che ne comporta la ricorribilità ai sensi dell'art. 111 Cost. (sul tema, cfr. S.U. 9 gennaio 2001 n. 1).

Infine, per le pronunce emesse successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, come quella oggetto di ricorso, anche le carenze motivazionali denunciate in alcuni motivi dell'impugnazione principale e in quella incidentale, sono prospettabili ai sensi dell'art. 111 della Cost., in rapporto all'ultimo comma dell'art. 360 c.p.c. novellato dalla legge del 2006, che qualifica violazione di legge il n. 5 del primo comma della norma del codice di rito, in relazione ai principi del giusto processo, che non può che svolgersi nel contraddittorio tra le parti e concludersi con una pronuncia motivata, come sancito dalla norma costituzionale (in tal senso Cass. 5 giugno 2009 n. 12990 e 3 novembre 2008 n. 26426).

Tali principi valgono pure allorché oggetto di impugnazione sia un “decreto”, che in astratto può mancare di motivazione se non è espressamente imposta per legge (artt. 737 e 135 c.p.c.), e se prevista, è sommaria, dovendo dare conto delle ragioni per le quali i giudici incidono sui diritti delle parti per i principi del giusto processo (Cass. 13 febbraio 2004 n. 2776).

Nella concreta fattispecie i ricorsi, principale e incidentale, sono entrambi ammissibili anche per le parti in cui deducono carenze o difetti di motivazione del decreto impugnato.

2.1. I primi quattro motivi del ricorso principale propongono la questione di giurisdizione, denunciando il primo violazioni di legge e gli altri tre vizi motivazionali del decreto.

Si denuncia in primo luogo violazione e falsa applicazione degli artt. 8, 9, 10 e 12 del Regolamento del Consiglio della C.E. 27 novembre 2003 n. 2201/2003 dal decreto di merito che afferma la giurisdizione del giudice italiano invece di quella del giudice finlandese, per essersi i due figli minori del cui affidamento si tratta “stabilmente trasferiti in omissis pochi giorni prima dell'inizio del procedimento italiano” da parte della A.. Il citato Regolamento, all'art. 8, prevede la competenza generale delle autorità giurisdizionali dello Stato membro “per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro, alla data in cui sono adite” e nel caso M. e M. C. vivevano in omissis dal omissis, mentre G. C. ha adito il Tribunale di Rieti, chiedendo il loro affidamento esclusivo solo nell'omissis successivo, oltre omissis mesi dopo che i minori avevano lasciato la loro pregressa residenza italiana.

Il quesito di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. è il seguente: “Dica la Cassazione se la Corte di appello di Roma, avendo dichiarato in motivazione che i minori erano stati trasferiti in omissis pochi giorni prima dell'inizio del procedimento italiano promosso dal C. dinanzi al Tribunale di Rieti, per ottenere l'affido esclusivo dei figli, abbia errato nell'affermare la propria giurisdizione in luogo di quella del giudice finlandese, disapplicando l'art. 8 del Regolamento CE n. 2201/2003, non essendo più l'Italia il paese di residenza abituale dei figli minori”.

Il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso denunciano carenze motivazionali del decreto impugnato in ordine ai presupposti di fatto della rilevata giurisdizione del giudice italiano.

Dalla Corte di merito si afferma che nessuna delle parti ha chiesto l'affidamento dei minori “in forza della Convenzione dell'Aja”, essendosi domandata “più semplicemente, una modifica delle condizioni della separazione”, ma così non si giustifica la giurisdizione del giudice italiano, per il citato art. 8 che collega il potere di decidere al luogo ove risiede il minore al momento della domanda che nel caso era quello finlandese.

Il terzo motivo di ricorso censura il decreto d'appello, per avere fondato la affermazione della propria giurisdizione sul fatto che la stessa ricorrente si era rivolta “al Tribunale di Rieti per poi «scoprire» che questo non aveva giurisdizione”; in realtà la A. ha chiesto il 15 settembre 2006, nei tre mesi dal trasferimento dei figli, al giudice italiano la modifica del solo diritto di visita ai figli del padre, in ragione della ultrattività della residenza per tale tempo prevista nell'art. 9 del citato Regolamento CE.

Dopo oltre tre mesi dal cambio di residenza dei figli, il C. ad ottobre ha richiesto l'affidamento esclusivo dei figli, sul quale poteva decidere solo l'autorità giudiziaria finlandese e il decreto non giustifica la giurisdizione del giudice italiano.

Il quarto motivo di ricorso censura le carenze motivazionali del decreto in ordine alla circostanza in esso riportata che i giudici finlandesi avrebbero riconosciuto la giurisdizione dei giudici italiani, adottando solo provvedimenti urgenti e provvisori sugli incontri padre-figli, fino alla decisione dei giudici italiani.

Il Tribunale di Helsinki con provvedimento del 5 novembre 2007 ha riconosciuto la prevenzione della controversia sul diritto di visita del padre ai figli, di cui alla domanda della madre, e ha provveduto su di esso provvisoriamente, nulla affermando in ordine al loro affidamento esclusivo al C., avendo su tale domanda giurisdizione il giudice finlandese, ai sensi dell'art. 8 del Regolamento CE n. 2201/2003 e dovendo solo esso pronunciarsi sui diritti di visita accessori, ai sensi dell'art. 9 dello stesso Regolamento.

2.2. La questione della mancata audizione dei minori nel procedimento di merito è dedotta nel quinto e sesto motivo del ricorso principale; anzitutto si denuncia violazione dell'art. 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991 n. 176, dell'art. 6 capo B della Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei minori, aperta alla firma a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata in Italia con legge 20 marzo 2003 n. 77, dell'art. 23 del citato Regolamento CE n. 2001/2003, dell'art. 155 sexies c.c., applicabile in via estensiva o almeno analogica al procedimento di modifica delle condizioni di separazione, nonché degli artt. 3, 21 e 111 della Costituzione.

Afferma la A. che la Corte d'appello erroneamente non ha ascoltato i due minori, dei quali, nel corso del secondo grado il primo, M., ha compiuto omissis anni, mentre l'altro, M., pur avendo solo omissis anni, era dotato di capacità di discernimento, che avrebbe imposto la sua audizione ai sensi delle norme indicate, tenuto conto che il P.G. in data 6 luglio 2007 aveva chiesto che “la Corte ai fini della richiesta modifica del regime di affidamento voglia procedere alla necessaria istruttoria, verificando anche tramite l'audizione diretta dei minori, quale sia il regime di affidamento più adeguato alle esigenze dei medesimi e quale il più idoneo collocamento”.

Il quesito di diritto di cui all'art. 366 bis c.c. è il seguente: “dica la S.C. se il mancato ascolto nel procedimento dinanzi alla Corte d'appello di Roma del minore M. C., che aveva compiuto omissis anni nel corso del secondo grado e il mancato ascolto del minore M. all'epoca di omissis anni, e, comunque, il mancato accertamento della capacità di discernimento di quest'ultimo ai fini dell'ascolto da parte dell'autorità giudiziaria italiana, possa essere considerato violazione del principio dell'ascolto introdotto nell'ordinamento dalle Convenzioni internazionali, che ne riconoscono la rilevanza di cui si è dedotta la violazione, oltre che della Legge 15 gennaio 1994 n. 64, di ratifica della Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980 e dell' art. 155 sexies c.c., applicabile in via estensiva o analogica anche alla modifica delle condizioni di separazione.”.

A tale censura è connessa quella di cui al sesto motivo di ricorso, che lamenta l'omessa motivazione sul punto della mancata audizione dei minori, in rapporto alla modifica del loro affidamento, così privandosi loro del diritto di manifestare le proprie ragioni in una vicenda essenziale per la loro vita.

2.3. Il settimo e ottavo motivo di ricorso censurano il decreto per insufficiente motivazione sul ribaltamento dell'affidamento dei minori alla madre concordato nella separazione consensuale con l'affidamento esclusivo al padre, senza considerare la volontà manifestata dai figli di voler vivere con la madre e il fatto che essi non avevano più rapporti con il padre e avevano sofferto di disturbi psichici alla ripresa dei rapporti con lui. Nell'ottavo motivo, si deduce il carattere apodittico della presunta idoneità del padre a svolgere il compito di affidatario, con la esclusione immotivata che egli potesse assumere in futuro comportamenti pregiudizievoli ai figli, in rapporto alla modestia delle risultanze istruttorie del secondo grado.

Il nono e decimo motivo lamentano insufficiente motivazione del decreto in ordine all'affermazione che i minori sarebbero stati inseriti in un ambiente a loro estraneo, risultando invece che essi dalla nascita avevano trascorso le vacanze in omissis e in rapporto alla rilevata inidoneità della ricorrente a svolgere i compiti di affidataria, apoditticamente affermata, nonostante la donna avesse evidenziato la sua capacità di proteggere la prole anche dai comportamenti pregiudizievoli del padre.

L'undicesimo motivo del ricorso principale chiede che, con la cassazione del decreto, nella statuizione sull'affidamento al padre, sia ripristinata l'assegnazione della casa familiare alla madre, sotto il profilo dell'insufficiente motivazione a base di entrambe le predette statuizioni della Corte di merito, mentre il dodicesimo motivo deduce erronea valutazione della condotta della ricorrente nella fattispecie, che avrebbe determinato la irrogazione della sanzione di euro 5000,00, di cui all'art. 709 ter c.p.c. per inadempimento delle condizioni concordate della separazione consensuale.

3. Nel controricorso, il C. deduce che i figli sono stati trasferiti definitivamente in omissis non nel omissis ma dopo l'omissis di quell' anno, essendo stati fino a tale ultima data in Italia, a omissis, nella casa familiare.

Non è applicabile l'art. 9 del regolamento CE n. 2001 del 2003 alla fattispecie, perché la residenza abituale dei minori alla data delle domande non era in omissis e la norma citata disciplina la sola ipotesi di lecito trasferimento dei minori da uno ad altro Stato membro della U.E. e non il caso di illecita sottrazione dei minori, come il presente, per il quale la donna è stata condannata con decreto ai sensi dell'art. 388 c.p.

L'art. 12 del Regolamento n. 2201/2003 prevede inoltre il potere di decidere delle autorità giurisdizionali dello Stato membro, la cui giurisdizione sia stata accettata dalle parti, e nel caso entrambi i coniugi hanno adito il Tribunale di Rieti, da loro stessi riconosciuto competente.

Il Tribunale di Helsinki, con sentenza del 5 novembre 2007, ha dichiarato competente a decidere su affidamento e diritto di visita dei figli dei coniugi A.-C., la Corte d'appello di Roma già adita su tali questioni, risolvendo in favore di questa la litispendenza internazionale.

In rapporto alle denunciate insufficienze motivazionali, il C. ritiene che la natura di decreto della decisione impugnata ne consente una motivazione sommaria, confermando che i minori non sono stati ascoltati, perché la madre non li ha condotti in Italia, allorché il Tribunale di Rieti li aveva convocati per due volte per tale audizione.

3.1. Il ricorso incidentale del C. censura il decreto di merito in primo luogo per violazione e falsa applicazione dell'art. 155, commi due e quattro, c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per non avere la Corte d'appello di Roma disposto, contestualmente all'affido esclusivo dei figli al padre, la revoca del contributo posto a carico di questo per il loro mantenimento nella separazione consensuale omologata.

Ad avviso del ricorrente incidentale, venuto a mancare l'affidamento alla madre, consegue automatica la cessazione della causa dell'attribuzione patrimoniale in favore di lei.

Il quesito ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. chiede a questa Corte di dire “se, per quanto disposto dall'art. 155 c.c., la revoca dell'affidamento alla madre dei figli minori M. e M. e il contestuale loro affidamento al padre comporti quale necessaria conseguenza la revoca del contributo al mantenimento per i figli a carico del C. in favore della A., stabilito in sede di separazione consensuale”.

3.2. Il secondo motivo di ricorso incidentale denuncia poi la motivazione contraddittoria del decreto impugnato, ai sensi dell'art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c., per avere ritenuto non esservi elementi di prova per porre a carico di controparte, quale genitore non affidatario, un contributo da corrispondere all'affidatario per il mantenimento dei figli.

Si deduce violazione dell'art. 155, commi 2 e 4 c.c., per non avere il decreto imposto detto contributo a carico della madre, essendovi documentazione sufficiente per disporre tale contributo da parte della donna, come i documenti dal n. 35 al n. 42, allegati al fascicolo di parte, che fanno riferimento all'attività di omissis della donna, come una delle ragioni giustificatrici del trasferimento ad omissis.

Se il ricorrente incidentale, omissis, doveva contribuire al mantenimento dei figli con euro 500,00 al mese, certamente la donna avrebbe potuto corrispondere allo stesso titolo una somma maggiore al padre dei minori.

4.1. I primi quattro motivi del ricorso principale, attinenti alla questione di giurisdizione sono infondati e da rigettare. Effettivamente il criterio di collegamento su cui si fonda il riparto di giurisdizione tra autorità giurisdizionali di Stati membri della U.E., in ordine alle decisioni sull'affido e le modalità di visita a figli minori, in base all'art. 8 del Regolamento CE n. 2201 del 2003, è quello della residenza abituale del figlio, per il rapporto di prossimità del minore al giudice che deve decidere sulle modalità di vita di lui (su tale criterio cfr. S.U. 24 marzo 2006 n. 6585 e 7 marzo 2005 n. 4807 e sul principio di prossimità, utile per individuare il giudice territorialmente competente in rapporto all'affidamento di minori, cfr. la recente S.U. 9 dicembre 2008 n. 28975). La Corte d'appello - si afferma nel ricorso principale - non avrebbe tenuto conto che i minori si erano trasferiti in omissis dal omissis, prima dell'inizio dell'azione della A. per la modifica del diritto di visita del C. ai figli, per cui esattamente ella aveva adito il Tribunale di Rieti nel omissis successivo, cioè nei tre mesi dal mutamento di residenza abituale dei minori, come consentito dall'art. 9 del Regolamento CE citato, che sancisce, per tale limitato periodo di tempo, la ultraattività della preesistente residenza abituale dei minori, come criterio di collegamento per individuare tra le autorità giudiziarie degli Stati della U.E., quella avente giurisdizione in caso di trasferimento di uno dei coniugi con i figli in altro Stato membro della comunità.

Peraltro, il concetto di residenza abituale dei minori, come centro di vita e di relazioni degli stessi, corrisponde a fatti accertabili dal solo giudice del merito la cui decisione non è censurabile per cassazione se motivatamente accertata, (Cass. 19 ottobre 2006 n. 22507 e 10 ottobre 2003 n. 15145): la Corte d'appello ha ricostruito le circostanze relative alla vita di M. e M. C., evidenziando che essi avevano sempre vissuto a omissis fino alla separazione dei genitori e solo nel omissis erano stati condotti in omissis dalla madre, che si era impegnata in sede di separazione a rimanere in Italia e a risiedervi con i figli.

Ad avviso dei giudici di merito, la A. aveva dedotto, nel ricorso introduttivo dell'azione da lei iniziata dinanzi al Tribunale di Rieti nel settembre 2006 che, a quella data, ella aveva intenzione di trasferire la residenza propria e dei figli in omissis e non che il trasferimento era già avvenuto.

In sostanza, alla data di tale ricorso (5 - 15 settembre 2006), poteva presumersi sussistere ancora lo stabile rapporto dei minori con la casa familiare in omissis, la quale nel omissis precedente, con la omologazione, era stata assegnata alla madre, perché continuasse a vivervi con i figli.

Alla data della domanda di modifica dell'affidamento dei figli da parte del C. (13 ottobre 2006), lo stesso, avendo appreso dal ricorso della moglie per la prima volta la intenzione di lei di trasferirsi con i figli in omissis, ben poteva ritenere sussistere la giurisdizione del Tribunale di Rieti, ai sensi degli artt. 8 e 9 del Regolamento CE 2201/2003, potendo egli escludere, in base alle notizie fornite dalla controparte, che fossero già decorsi tre mesi dal cambio di residenza abituale dei minori, per cui egli pure poteva fruire della ultraattività della giurisdizione italiana di cui al citato art. 9 del Regolamento CE, facendo decorrere il termine trimestrale, per i principi del giusto processo e del contraddittorio, dalla intervenuta comunicazione a lui della mutata abituale residenza dei minori, ancora non avvenuta secondo le deduzioni del ricorso della A. all'inizio del mese di omissis.

A tale conoscenza fa del resto chiaro riferimento l'art. 10 del medesimo Regolamento CE, per il caso di “illecito” trasferimento all'estero dei minori, che, per tale sua natura, deve presumersi non conosciuto da chi agisce per la modifica delle condizioni della separazione consensuale ex artt. 711 e 710 c.p.c.

Correttamente quindi il C. ha chiesto al giudice italiano, l'affidamento in via esclusiva dei figli M. e M., a rettifica di quanto concordato con la moglie nella separazione consensuale, nel termine di tre mesi dalla data in cui egli ha avuto consapevolezza del possibile trasferimento della residenza abituale dei minori in omissis, ai sensi dell'art. 9 del Regolamento CE, indipendentemente dalla illiceità del mutamento della dimora abituale operato da controparte in violazione degli accordi di separazione, come accertato in sede penale.

Se l'autonomia dei due ricorsi delle parti, riuniti dal Tribunale di Rieti, esclude che la donna abbia accettato la giurisdizione del giudice italiano sulla domanda di affidamento esclusivo del C., sulla quale anzi ella ha sollevato subito l'eccezione di difetto di giurisdizione, con conseguente inapplicabilità dell'art. 12 del Regolamento per radicare i poteri cognitivi sulla domanda nel giudice italiano, certamente sussiste la connessione e litispendenza delle due cause riunite dinanzi al giudice italiano con quella di divorzio iniziata da A. successivamente dinanzi al Tribunale di Helsinki, che ha espressamente riconosciuto detta connessione.

L'art. 19 del Regolamento CE più volte citato chiarisce che nei casi di litispendenza e/o connessione, l'autorità giudiziaria adita successivamente, deve dichiarare la propria incompetenza a favore di quella investita della stessa questione o di questione connessa, anche se può emettere i provvedimenti urgenti di cui all'art. 20 nell'interesse dei minori.

Nel caso, correttamente il Tribunale di Helsinki ha dato le disposizioni urgenti relative ai minori C., riconoscendo però la giurisdizione del giudice italiano preventivamente adito sull'affidamento oggetto della domanda del padre e sul diritto di visita oggetto dell'azione della madre, non potendosi accogliere la deduzione di cui al ricorso principale sulla differenza tra le questioni proposte ai due giudici dei diversi Stati membri, apparendo esse almeno strettamente connesse se non identiche in rapporto al carattere accessorio di esse nel processo di divorzio, con conseguente applicabilità della disciplina che precede, per cui competente è comunque il giudice adito per primo e quindi quello italiano.

Se è vero che si è esattamente tenuto distinto il diritto di visita dall'istituto dell'affidamento, in rapporto al trasferimento all'estero o al mancato rientro di minori, che non si ritengono sottratti illecitamente all'altro genitore allorché l'allontanamento avviene ad opera dell'affidatario con il quale i minori devono convivere come nel caso (Cass. 2 luglio 2007 n. 14960, 14 luglio 2006 n. 16092 e 5 maggio 2006 n. 10374), non è però contestato che tale mobilità internazionale e mutabilità della residenza abituale, era stata convenzionalmente esclusa dai coniugi nelle condizioni da loro concordate della separazione, tanto che la ricorrente, come già detto, è stata anche condannata penalmente per mancata esecuzione dell'accordo omologato dal Tribunale di Rieti e ai sensi dell'art. 388 c.p. Esattamente la Corte d'appello ha qualificato “illecito” il mancato rientro dei minori in Italia, rilevando come il C. non avesse agito nella fattispecie in base alle Convenzioni dell'Aja del 1970 e 1980, per ottenere il ritorno dei figli nella casa familiare, con il ripristino del suo diritto di visita a mezzo dell'Autorità centrale di cui a tali accordi e ai sensi della L. 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica di essi, per cui la presente azione ha potuto continuare e non s'è dovuta sospendere in attesa dell'esito del procedimento di rientro dei figli (Cass. 15 ottobre 1997 n. 10090).

La rilevata violazione degli accordi di separazione, per effetto del trasferimento in omissis della residenza propria e dei minori ad opera della madre, in rapporto alla giurisdizione, comporta l'applicabilità dell'art. 10 del Regolamento più volte citato, per cui resta competente a decidere della responsabilità genitoriale sui minori il giudice della pregressa residenza abituale dei minori fino alla data dell'acquisizione della nuova residenza, finché non sia decorso “un anno” da quando chi aveva diritto a chiedere il ripristino del diritto di visita o il rientro, ha avuto conoscenza del cambio di residenza, per cui, anche per tale profilo, va affermata la giurisdizione del giudice italiano, da confermare in questa sede, con il rigetto del ricorso principale sulla questione relativa.

È infatti infondata anche la censura di cui al secondo motivo di ricorso principale, avendo esattamente la Corte di merito richiamato le citate Convenzioni de L'Aja, ratificate con la legge n. 64 del 1994, per riaffermare la sua giurisdizione, anche se non in collegamento all'art. 10 del Regolamento CE citato, essendo rilevante la circostanza che l'A. si fosse rivolta al giudice italiano nel omissis, informando della sua intenzione di trasferirsi all'estero solo in questa data e così rimettendo in termini il C. per proporre al giudice italiano la domanda di affidamento esclusivo (terzo motivo di ricorso), fermo restando il corretto richiamo alla decisione interlocutoria dei giudici finlandesi sui minori e alla litispendenza e connessione rilevata da costoro, che ancora una volta comporta il potere di decidere dei giudici italiani (quarto motivo).

4.2. Il quinto e sesto motivo di ricorso sono da ritenere invece fondati nei limiti che seguono, in rapporto alla mancata audizione dei figli nel presente procedimento, destinato a regolare in via esclusiva o prevalente interessi primari degli stessi minori, anche se M. ha compiuto omissis anni nel periodo tra la riserva della decisione e la pubblicazione del decreto impugnato (marzo 2008), mancando in questo atto ogni pronuncia motivata, anche di rigetto, sulla richiesta del P.G. del luglio 2007 di audizione dei due adolescenti e di ulteriore istruzione della causa, prima di decidere sulla modifica dello affidamento esclusivo alla madre concordato a giugno del 2006, riconoscendolo in favore del solo padre nel luglio 2008 dopo soli due anni dalla precedente soluzione (sull'obbligo di motivazione in ordine alla richiesta di audizione dei minori e al rigetto di essa, cfr. Cass. 23 luglio 2007 n. 6899).

Invero i minori che, ad avviso di questa Corte non possono considerarsi parti del procedimento (in tal senso sembra, sia pure con aperture, Cass. 10 ottobre 2003 n. 15145), sono stati esattamente ritenuti portatori di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori, in sede di affidamento o di disciplina del diritto di visita del genitore non affidatario e, per tale profilo, qualificati parti in senso sostanziale (così C. Cost. 30 gennaio 2002 n. 1).

Costituisce quindi violazione del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo il mancato ascolto dei minori oggetto di causa, censurato in questa sede, nella quale emergono chiari gli interessi rilevanti dei minori che sono in gioco nella vertenza e avrebbero resa necessaria la loro audizione (sul rilievo di tali interessi per la denuncia del vizio processuale del mancato ascolto dei minori cfr. Cass. 12 giugno 2007 n. 13761 e 18 giugno 2005 n. 13173, non rilevando i principi di insindacabilità della decisione di non procedere all'ascolto dei minori, in caso di potenziale dannosità di essa per i soggetti non sentiti, di cui a Cass. 27 luglio 2007 n. 16753, in difetto di qualsiasi pronuncia dei giudici di merito in tal senso).

L'audizione dei minori che, nel procedimento per il mancato illecito rientro nella originaria residenza abituale, non è imposta per legge, in ragione del carattere urgente e meramente ripristinatorio della situazione di tale procedura (Cass. 4 aprile 2007 n. 8481 e 19 dicembre 2003 n. 19544), anche in tale procedura si è però ritenuta in genere opportuna, se possibile (Cass. 4 aprile 2007 n. 8481 e la citata n. 15145 del 2003). Tale audizione era prevista dall'art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1991 che ritiene sussistere, in caso di riconoscimento della capacità di discernimento del minore, il diritto di questo “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa”, dandogli la possibilità “di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo riguarda”.

In base a tale norma sovranazionale l'ascolto dei minori oggetto del procedimento nelle opposizioni allo stato di adottabilità si è ritenuto di regola necessario (Cass. 9 giugno 2005 n. 12168, 26 novembre 2004 n. 22235, 21 marzo 2003 n. 4124, 16 luglio 2000 n. 9802, tutte al seguito di Cass. 13 luglio 1997 n. 9802).

L'audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l'art. 6 della Convenzione di Strasburgo sullo esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003 (Cass. 16 aprile 2007 n. 9094 e 18 marzo 2006 n. 6081), per cui ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (la citata Cass. n. 16753 del 2007).

La citata Convenzione di Strasburgo prevede che ogni decisione relativa ai minori indichi le fonti di informazioni da cui ha tratto le conclusioni che giustificano il provvedimento adottato anche in forma di decreto, nel quale deve, tenersi conto della opinione espressa dai minori, previa informazione a costoro delle istanze dei genitori nei loro riguardi e consultandoli personalmente sulle eventuali statuizioni da emettere, salvo che l'ascolto o l'audizione siano dannosi per gli interessi superiori dei minori stessi (in tal senso Cass., ord. 26 aprile 2007 n. 9094 e la giurisprudenza sopra richiamata).

In conclusione, il quesito conclusivo del quinto motivo di ricorso può avere risposta positiva, in rapporto alla dedotta violazione dell'art. 6 della Convenzione di Strasburgo, ratificata dalla legge n. 77 del 2003 e dell'art. 155 sexies c.c., introdotto dalla Legge 8 febbraio 2006 n. 54, dovendosi ritenere necessaria l'audizione del minore del cui affidamento deve disporsi, salvo che tale ascolto possa essere in contrasto con i suoi interessi fondamentali e dovendosi motivare l'eventuale assenza di discernimento dei minori che possa giustificarne l'omesso ascolto, con conseguente fondatezza anche del sesto motivo d'impugnazione nei limiti ora indicati e necessità di cassare l'intero decreto in rapporto alla dedotta omissione dei giudici di merito.

Neppure rileva in questa sede il tentativo del tribunale di Rieti di ascoltare i minori non andato a buon fine in un contesto nel quale però il primo giudice si è dichiarato incompetente a provvedere sull'affido dei figli al padre.

4.3. Restano quindi assorbiti tutti gli altri motivi del ricorso principale e quello incidentale.

Sarà il giudice del rinvio che potrà tenere conto se sussistente della volontà manifestata dai minori di rimanere a vivere con la madre (settimo motivo) e dovrà rivalutare l'affermata idoneità del C. e essere affidatario dei figli (ottavo motivo).

L'esigenza di audizione dei due minori per interpellarli sul loro affidamento, in ordine al loro ambiente di vita in omissis e in omissis e sulla capacità della madre di esercitare la potestà genitoriale, comporta assorbimento anche del nono e decimo motivo di ricorso, in rapporto all'assegnazione della casa familiare e all'eventuale sanzione ai sensi dell'art. 709 ter c.p.c. alla A., per inadempimento delle condizioni della separazione (undicesimo e dodicesimo motivo).

Anche i due motivi di ricorso incidentale, in quanto relativi alla revoca del contributo al mantenimento dei figli a carico del padre, di cui alla separazione consensuale, e alla condanna della madre a contribuire al mantenimento dei figli, devono riservarsi al giudizio di rinvio, all'esito dell'istruttoria da compiere e previa valutazione dell'interesse dei minori.

5. In conclusione questa Corte, riuniti i due ricorsi contro lo stesso decreto della Corte d'appello di Roma, deve rigettare i primi quattro motivi di quello principale, confermando la giurisdizione del giudice italiano, e accogliere il quinto e sesto motivo, che censurano la omessa audizione immotivata dei due minori prima della modifica dell'affidamento in favore del padre, con conseguente cassazione del decreto impugnato e assorbimento degli altri motivi della impugnazione principale e di quella incidentale e rinvio della presente causa ad altra sezione della stessa Corte d'appello di Roma in diversa composizione, perché si pronunci sulle domande delle parti, procedendo alla necessaria istruttoria e provvedendo su di esse e sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi quattro motivi di ricorso della A. e, confermata la giurisdizione del giudice italiano, accoglie il quinto e sesto motivo della stessa impugnazione, dichiarando assorbiti i residui motivi di questa e quella incidentale del C.; cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione, perché si pronunci sulle domande delle parti, previa convocazione dei minori per la loro audizione, decidendo anche la disciplina delle spese del presente giudizio di legittimità.


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lunedì 23 novembre 2009

Comunione legale - Acquisto del terzo

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 20 - 28 ottobre 2009, n. 22755

(Presidente Carbone - Relatore Nappi)

Svolgimento del processo


Il 25 giugno 1996 R. B. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Marsala l'ex marito P. B. e N. P., cui in data omissis lo stesso B. aveva venduto un alloggio, che in precedenza era stato destinato a casa coniugale sin dal suo acquisto in data omissis, benché entrambi i coniugi ne avessero all'epoca simulato la destinazione all'attività professionale del marito, per sottrarlo a scopo fiscale alla comunione legale.

Chiese dunque che, dichiarata la simulazione dell'atto pubblico per notar L. F. di acquisto dell'immobile a nome del solo P. B., fosse accertata la comune proprietà dell'alloggio in capo a entrambi i coniugi e ne fosse di conseguenza annullata la successiva vendita a N. P..

Ripropose così la domanda già proposta nel giudizio di separazione personale dei coniugi e trascritta il 10 luglio 1991, ma dichiarata inammissibile in quella sede.

Il tribunale qualificò la domanda di R. B. come azione di simulazione del contratto di compravendita stipulato dai coniugi B. per l'acquisto dell'immobile controverso. Ordinò pertanto l'integrazione del contraddittorio nei confronti di A. F. e M. L. A., danti causa di P. B. e R.

B.. E rigettò la domanda per mancanza di prova scritta.

La decisione, impugnata da R. B., fu tuttavia riformata dalla Corte d'appello di Palermo, che, qualificata la domanda come azione di accertamento della comunione legale, riconobbe R. B. comproprietaria dell'immobile e di conseguenza annullò il contratto di compravendita per notar C. stipulato da N. P. con il solo P. B..

Ritennero i giudici d'appello che l'indiscussa e comunque accertata destinazione dell'immobile a casa coniugale ne aveva determinato l'immediata inclusione nella comunione legale sin dall'acquisto, perché la dichiarazione resa da R. B. nell'atto pubblico di compravendita del omissis, circa la destinazione dell'immobile all'attività professionale del marito commercialista, non aveva avuto efficacia negoziale e non aveva comportato pertanto la sottrazione del bene alla comunione.

Contro la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione N. P., con un unico motivo d'impugnazione, cui resiste con controricorso R. B., che ha proposto altresì, ricorso incidentale condizionato e ha poi depositato anche una memoria. Mentre non ha spiegato difese P. B..

La prima sezione civile di questa corte, cui il ricorso era stato assegnato, ne ha sollecitato la rimessione alle Sezioni unite. Ha rilevato infatti un contrasto di giurisprudenza circa la disponibilità del diritto alla comunione legale su beni che per legge vi sarebbero inclusi; e la particolare importanza della consequenziale questione degli effetti nei confronti dei terzi acquirenti nel caso di sopravvenuto accertamento della comunione legale sui beni alienati dal coniuge unico intestatario.

Successivamente P. ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Disposta a norma dell'art. 335 c.p.c. la riunione dei ricorsi proposti contro la stessa sentenza, va innanzitutto rilevato che nella memoria depositata dalla controricorrente R. B. viene eccepita l'improcedibilità del ricorso principale per omessa notifica ai chiamati in causa A. F. e M. L. A..

Si tratta tuttavia di eccezione palesemente infondata, perché non è più in discussione in questo giudizio il contratto di compravendita cui parteciparono A. F. e M. L. A., bensì solo il contratto di compravendita stipulato da N. P. con P. B..

Né rileva in questa sede se violi l'art. 112 c.p.c. la modificazione della qualificazione giuridica della domanda da parte della corte d'appello, posto che si tratterebbe comunque di un error in procedendo non dedotto dal ricorrente e non rilevabile d'ufficio (Cass., sez. III, 17 gennaio 2007, n. 978, m. 596924).

2. Con l'unico complesso motivo del suo ricorso N. P. deduce violazione degli art. 179, 184, 1445 c.c., vizi di motivazione della decisione impugnata.

Lamenta innanzitutto che la corte d'appello non abbia tenuto conto della sua buona fede di terzo acquirente, cui non poteva addossarsi una responsabilità del solo P. B..

Eccepisce poi la prescrizione dell'azione di annullamento, perché proposta a oltre un anno sia dall'acquisto dell'immobile da parte dei coniugi B. sia dal successivo acquisto dello stesso immobile da parte sua.

Lamenta infine che la dichiarazione resa da R. B. all'atto dell'acquisto dell'immobile da parte del marito sia stata erroneamente qualificata come meramente ricognitiva, anziché negoziale, senza considerarne la destinazione a rifiutare gli effetti traslativi del contratto. E rilevato che su tale questione v'è contrasto di giurisprudenza, chiede che la questione sia risolta dalle Sezioni unite della corte.

3. Risulta preliminare l'esame dell'eccezione di prescrizione proposta dal ricorrente, perché, ove tale eccezione risultasse ammissibile e fondata, la conseguente dichiarazione di estinzione del diritto azionato da R. B. renderebbe irrilevante l'accertamento della sua effettiva esistenza (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581, m. 600910).

Sennonché, posto che quella prevista dall'art. 184 c.c. è effettivamente una prescrizione e non una decadenza (Cass., sez. II, 19 febbraio 1996, n. 1279, m. 495904), l'eccezione è inammissibile, perché il ricorrente non ha neppure allegato di averla già proposta sin dal giudizio di primo grado.

Infatti l'art. 345 comma 2 c.p.c. ammette che siano dedotte in appello nuove eccezioni solo quando sarebbero rilevabili d'ufficio.

Sicché, essendo quella di prescrizione un'eccezione non rilevabile d'ufficio (art. 2938 c.c.), il ricorrente avrebbe dovuto quantomeno allegare, non solo di averla dedotta già in primo grado, ma anche di averla poi riproposta in appello a norma dell'art. 346 c.p.c. (Cass., sez. L, 7 settembre 2007, n. 18901, m. 598866, Cass., sez. L, 12 novembre 2007, n. 23489, m. 600249). In mancanza di tale allegazione, l'eccezione di prescrizione è preclusa anche in questa sede.

4. Risulta dunque rilevante la questione della natura e degli effetti della dichiarazione con la quale R. B., intervenuta nell'atto per notar L. F. stipulato da P. B. il omissis, riconobbe che l'immobile controverso veniva acquistato allo scopo di destinarlo all'attività professionale del marito commercialista. Ed è con riferimento a tale questione che s'è manifestato nella giurisprudenza di legittimità il contrasto denunciato dalla prima sezione civile di questa corte. I riferimenti normativi di questa controversa questione sono tre:

a) l'art. 177 comma 1 lettera a) c.c., che include nella comunione legale “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”;

b) l'art. 179 comma 1 c.c., che elenca i beni esclusi dalla comunione in quanto personali e tra gli altri vi annovera, alla lettera d), anche “i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione”;

c) l'art. 179 comma 2 c.c., laddove prevede che l'acquisto di beni immobili o equiparati, benché effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto, se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge e ove si tratti di “beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge” (art. 179, comma 1, lettera c), di “beni che servono all'esercizio della professione del coniuge” acquirente (art. 179, comma 1, lettera d), di “beni acquisiti con il prezzo del trasferimento” di altri beni già personali del coniuge acquirente (art. 179, comma 1, lettera f). 4.1 - Come risulta dalla citata ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, è controverso sia in dottrina sia in giurisprudenza se abbia natura meramente ricognitiva ovvero negoziale l'atto con il quale uno dei coniugi, intervenendo nel contratto stipulato dall'altro coniuge, riconosca a norma dell'art. 179 comma 2 c.c. la natura personale del bene acquistato e consenta perciò alla sua esclusione dalla comunione legale. Dalla natura meramente ricognitiva attribuita all'atto previsto dall'art. 179 comma 2 c.c., in particolare, un orientamento maggioritario della giurisprudenza di questa corte fa discendere l'enunciazione di un principio di indisponibilità del diritto alla comunione legale (Cass., sez. I, 27 febbraio 2003, n. 2954, m. 560743, Cass., sez. I, 24 settembre 2004, n. 192 50, m. 577347), benché ne riconosca poi la irretrattabilità, quale “dichiarazione a contenuto sostanzialmente confessorio, idonea a determinare l'effetto di una presunzione “juris et de jure” di non contitolarità dell'acquisto, di natura non assoluta ma superabile mediante la prova che la dichiarazione sia derivata da errore di fatto o da dolo e violenza nei limiti consentiti dalla legge” (Cass., sez. II, 6 marzo 2008, n. 6120, m. 602411, Cass., sez. I, 19 febbraio 2000, n. 1917, m. 534144).

Sennonché può certo ammettersi che la dichiarazione prevista dall'art. 179 comma 2 c.c. abbia natura ricognitiva e portata confessoria quando risulti descrittiva di una situazione di fatto, ma non quando sia solo espressiva di una manifestazione di intenti.

Infatti una dichiarazione di intenti può essere più o meno sincera o affidabile, ma non è una attestazione di fatti, predicabile di verità o di falsità; e quindi, secondo quanto prevede l'art. 2730 c.c., non può avere funzione di confessione (Cass., sez. un., 26 maggio 1965, n. 1038, m. 312020, Cass., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3033, m. 606575).

Esemplificando, può avere dunque natura ricognitiva la dichiarazione con la quale uno dei coniugi riconosca appunto che il corrispettivo dell'acquisto compiuto dall'altro coniuge viene pagato con il prezzo del trasferimento di altri beni già personali (art. 179, comma 1, lettera f). Ma non può attribuirsi natura ricognitiva alla dichiarazione con la quale uno dei coniugi esprima condivisione dell'intento dell'altro coniuge di destinare alla propria attività personale il bene che viene acquistato.

Certo, non può negarsi una peculiare efficacia probatoria all'intervento del coniuge non acquirente che sia effettivamente ricognitivo dei presupposti di fatto dell'esclusione dalla comunione del bene acquistato dall'altro coniuge. Ma il problema qui realmente in discussione non è tale possibile efficacia probatoria.

4.2 - Il problema che è effettivamente in discussione è se l'intervento ex art. 179 comma 2 c.c. del coniuge non acquirente sia elemento costitutivo della fattispecie cui si ricollegano gli effetti di esclusione dalla comunione del bene acquistato dall'altro coniuge.

Occorre dunque stabilire non solo se l'intervento adesivo del coniuge non acquirente sia condizione sufficiente dell'esclusione dalla comunione del bene acquistato dall'altro coniuge; ma anche se sia condizione necessaria di un tale effetto. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, infatti, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente è di per sé sufficiente all'esclusione dalla comunione del bene acquistato dall'altro coniuge, indipendentemente dall'effettiva natura personale del bene (Cass., sez. I, 2 giugno 1989, n. 2688, m. 462974).

Secondo altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non è sufficiente a escludere dalla comunione il bene acquistato dall'altro coniuge, ma è condizione necessaria di tale esclusione; sicché, quand'anche sia effettivamente personale, il bene rimane incluso nella comunione in mancanza dell'intervento adesivo del coniuge non acquirente (Cass., sez. I, 24 settembre 2004, n. 19250, m. 577347).

4.3 - Dalla stessa lettera dell'art. 179 comma 2 c.c. risulta peraltro che l'intervento adesivo del coniuge non acquirente non è di per sé sufficiente a escludere dalla comunione il bene che non sia effettivamente personale.

La norma prevede infatti che i beni acquistati risultano esclusi dalla comunione “ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge”. Sicché dall'atto deve risultare alcuna delle cause di esclusione della comunione tassativamente indicate nel primo comma dello stesso art. 179 c.c.; e l'effetto limitativo della comunione si produce solo “ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma”, vale a dire solo se i beni sono effettivamente personali. L'intervento adesivo del coniuge non acquirente può dunque rilevare solo come prova dei presupposti di tale effetto limitativo, quando, come s'è detto, assuma il significato di un'attestazione di fatti. Ma non rileva come atto negoziale di rinuncia alla comunione. E quando la natura personale del bene che viene acquistato sia dichiarata solo in ragione di una sua futura destinazione, sarà l'effettività di tale destinazione a determinarne l'esclusione dalla comunione, non certo la pur condivisa dichiarazione di intenti dei coniugi sulla sua futura destinazione.

Secondo il sistema definito dagli art. 177 e 179 comma 1 c.c., infatti, l'inclusione nella comunione legale è un effetto automatico dell'acquisto di un bene non personale da parte di alcuno dei coniugi in costanza di matrimonio. Ed è solo la natura effettivamente personale del bene a poterne determinare l'esclusione dalla comunione.

Se il legislatore avesse voluto riconoscere ai coniugi la facoltà di escludere ad libitum determinati beni dalla comunione, lo avrebbe fatto prescindendo dal riferimento alla natura personale dei beni, che condiziona invece gli effetti previsti dall'art. 179 comma 2 c.c..

Certo, potrebbe anche ritenersi che una tale facoltà debba essere riconosciuta ai coniugi per ragioni sistematiche, indipendentemente da un'espressa previsione legislativa. Come potrebbe ritenersi che, dopo C. cost., n. 91/1973, non possa negarsi a ciascun coniuge il diritto di donare anche indirettamente all'altro la proprietà esclusiva di beni non personali. Tuttavia tali facoltà non potrebbero affatto desumersi dall'art. 179 comma 2 c.c., che condiziona comunque l'effetto limitativo della comunione alla natura realmente personale del bene; e attribuisce all'intervento adesivo del coniuge non acquirente la sola funzione di riconoscimento dei presupposti di quella limitazione, ove effettivamente già esistenti.

4.4 - Deve nondimeno ritenersi che l'intervento adesivo del coniuge non acquirente sia condizione necessaria dell'esclusione dalla comunione del bene acquistato dall'altro coniuge. L'art. 179 comma 2 c.c. prevede infatti che l'esclusione della comunione ai sensi dell'art. 179 comma lettere c) d) e f) c.c. si abbia solo se la natura personale del bene sia dichiarata dall'acquirente con l'adesione dell'altro coniuge.

Sicché nei casi indicati la natura personale del bene non è sufficiente a escludere di per sé l'esclusione dalla comunione, se non risulti concordemente riconosciuta dai coniugi. E tuttavia l'intervento adesivo del coniuge non acquirente è richiesto solo in funzione di necessaria documentazione della natura personale del bene, unico presupposto sostanziale della sua esclusione dalla comunione.

Sicché l'eventuale inesistenza di quel presupposto potrà essere comunque oggetto di una successiva azione di accertamento, pur nei limiti dell'efficacia probatoria che l'intervento adesivo avrà in concreto assunto.

4.5 - Come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata, pertanto, il coniuge non acquirente può successivamente proporre domanda di accertamento della comunione legale anche rispetto a beni che siano stati acquistati come personali dall'altro coniuge, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente fosse intervenuto nel contratto per aderirvi.

Tuttavia, se l'intervento adesivo ex art. 179 comma 2 c.c. assunse il significato di riconoscimento dei già esistenti presupposti di fatto dell'esclusione del bene dalla comunione, l'azione di accertamento presupporrà la revoca di quella confessione stragiudiziale, nei limiti in cui è ammessa dall'art. 2732 c.c. Se invece, come nel caso in esame, l'intervento adesivo ex art. 179 comma 2 c.c. assunse il significato di mera manifestazione dei comuni intenti dei coniugi circa la destinazione del bene, occorrerà accertare quale destinazione il bene ebbe effettivamente, indipendentemente da ogni indagine sulla sincerità degli intenti così manifestati.

E poiché nel caso in esame è indiscusso che l'immobile, benché acquistato come bene personale, fu in realtà destinato a casa coniugale, il ricorso è sotto questo aspetto infondato.

5. Viene allora in considerazione l'ultima questione posta dal ricorrente principale, quella dell'opponibilità al terzo acquirente in buona fede del sopravvenuto accertamento della comunione legale sul bene vendutogli.

Come lo stesso ricorrente riconosce, all'azione proposta a norma dell'art. 184 c.c. è applicabile la disposizione dell'art. 1445 c.c., che fa salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento anche in pregiudizio dei diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede.

Quella prevista dall'art. 184 c.c. è infatti un'azione di annullamento (C. cost., n. 311/1988); e per tutto quanto non diversamente stabilito dalla norma speciale che la prevede, deve ritenersi applicabile la disciplina generale dell'azione di annullamento dei contratti.

L'art. 184 c.c., come l'art. 1445 c.c., si riferisce infatti a un caso di invalidazione dell'atto di acquisto del terzo per vizio del titolo del suo dante causa. E non rileva il fatto che il vizio del titolo del dante causa dipende nel caso dell'art. 184 c.c. da un'azione di accertamento, nel caso dell'art. 1445 c.c. da altra azione di annullamento.

Sicché deve ritenersi che, salvi gli effetti della trascrizione della domanda, il sopravvenuto accertamento della comunione legale non è opponibile al terzo acquirente di buona fede.

Nel caso in esame è indiscusso che il ricorrente trascrisse il suo atto di acquisto il omissis, prima della domanda di annullamento del contratto proposta il omissis da R. B..

È vero che l'attrice aveva già trascritto in data omissis la sua domanda di accertamento della comunione. Ma come risulta anche dalla sentenza impugnata, quella domanda fu dichiarata inammissibile il 26 novembre 1994.

Sicché la trascrizione non può giovare a R. B., che ripropose la sua domanda solo il omissis (Cass., sez. II, 9 gennaio 1993, n. 148, m. 480203).

Ne consegue che il sopravvenuto accertamento dell'appartenenza anche a R. B. del bene acquistato da N. P. può essere opposto al compratore solo se si dimostri che egli non era in buona fede.

Ma di tale questione la corte d'appello non s'è occupata affatto.

Va pertanto accolto sotto questo profilo il ricorso di N. P..

E la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, perché il giudice del merito proceda all'accertamento di tale fatto rilevante e controverso.

Del resto, con il ricorso incidentale condizionato, R. B. censura la sentenza impugnata per avere appunto omesso l'accertamento della mancanza di buona fede dell'acquirente. Sicché la sentenza impugnata va cassata anche in accoglimento del ricorso incidentale.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a sezioni unite, riuniti i ricorsi, accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso principale e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Palermo in diversa composizione.



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