INDAGINI PRELIMINARI - TARDIVA ISCRIZIONE DELLA NOTIZIA DI REATO – CONSEGUENZE
La Corte, chiamata a pronunciarsi in ordine alla possibilità o meno, per il giudice (nella specie si trattava del tribunale del riesame), di rideterminare la data dell’ iscrizione del nome dell’indagato nel “registro delle notizie di reato”, tardivamente effettuata dal Pubblico Ministero, con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti oltre la scadenza del termine di durata massima delle indagini, non ha affrontato il merito della questione stante l’ inammissibilità del ricorso (non avendo il ricorrente, da un canto, individuato gli atti compiuti a termini scaduti e, dall’altro, chiarito l’incidenza degli stessi sul complessivo compendio indiziario valutato dal giudice). La Corte ha tuttavia sottolineato l’incoerenza intrinseca di prospettazioni che, come quella di specie, sul presupposto di una tardiva iscrizione della notizia di reato, pretendano, nel caso di attribuibilità al giudice del potere di retrodatazione della stessa, di farne derivare l’inutilizzabilità, ex art. 407, comma terzo, cod. proc. pen., non solo degli atti di indagine compiuti oltre la scadenza del termine così rideterminato, ma anche degli atti compiuti antecedentemente alla formale iscrizione medesima, essendo tale seconda conseguenza non compatibile con la prima.
La Corte, chiamata a pronunciarsi in ordine alla possibilità o meno, per il giudice (nella specie si trattava del tribunale del riesame), di rideterminare la data dell’ iscrizione del nome dell’indagato nel “registro delle notizie di reato”, tardivamente effettuata dal Pubblico Ministero, con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti oltre la scadenza del termine di durata massima delle indagini, non ha affrontato il merito della questione stante l’ inammissibilità del ricorso (non avendo il ricorrente, da un canto, individuato gli atti compiuti a termini scaduti e, dall’altro, chiarito l’incidenza degli stessi sul complessivo compendio indiziario valutato dal giudice). La Corte ha tuttavia sottolineato l’incoerenza intrinseca di prospettazioni che, come quella di specie, sul presupposto di una tardiva iscrizione della notizia di reato, pretendano, nel caso di attribuibilità al giudice del potere di retrodatazione della stessa, di farne derivare l’inutilizzabilità, ex art. 407, comma terzo, cod. proc. pen., non solo degli atti di indagine compiuti oltre la scadenza del termine così rideterminato, ma anche degli atti compiuti antecedentemente alla formale iscrizione medesima, essendo tale seconda conseguenza non compatibile con la prima.
Quanto ad altro motivo del ricorso che pretendeva inutilizzabili dichiarazioni rese da persone informate sui fatti, le quali avrebbero, invece, dovuto essere esaminate ai sensi dell’art. 63 cod. proc. pen., la Corte ha, in consonanza con decisioni anche recenti, delle sezioni semplici, ribadito la necessità, ai fini dell’applicazione di tale norma, della sussistenza di indizi non equivoci di reità, non essendo sufficienti meri sospetti o semplici ipotesi investigative.
Testo Completo:
Sentenza n. 23868 del 23 aprile 2009 - depositata il 10 giugno 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore F. Marzano)
Testo Completo:
Sentenza n. 23868 del 23 aprile 2009 - depositata il 10 giugno 2009(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore F. Marzano)
Svolgimento del procedimento
1.0 Il 24 giugno 2008 il Tribunale del riesame di Catanzaro confermava la misura della custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. del Tribunale della stessa città il 3 giugno 2008 nei confronti di Vincenzino Fruci, per imputazione di cui agli artt. 110, 81, cpv., 629, 1° e 2° comma (in relazione all’art. 628, ultimo comma) cod.pen., 7 L. n. 203/1991. 1.1 Nel pervenire alla resa statuizione i giudici del merito disattendevano alcune eccezioni difensive.Premesso che la difesa aveva sostenuto che gli imprenditori Eugenio e Sebastiano Sgromo avrebbero dovuto essere escussi quali persone sottoposte ad indagini per reati connessi o collegati, e non come persone offese, ritenevano infondata tale eccezione, rilevando che le dichiarazioni a riguardo rese dal collaboratore di giustizia Francesco Michienzi erano del tutto generiche e “non hanno la benché minima consistenza indiziaria ...”. 1.2 Posto, poi, che il ricorrente aveva anche “eccepito la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli Sgromo e da Michienzi Francesco (in altri procedimenti), per violazione dei termini di durata delle indagini preliminari ex art. 407, comma 3°, cod. proc. pen.”, rilevavano che, innanzitutto, “l’obbligo per il P.M. di trasmettere al Tribunale del riesame tutti gli atti rilevanti non si estende alla certificazione della data di iscrizione del procedimento ... “. Davano atto che “la difesa, tuttavia, essendo nelle sue facoltà, aveva richiesto, con esito negativo, all’ufficio del Pubblico Ministero, una specifica attestazione della data di iscrizione dei procedimenti penali citati e delle eventuali ordinanze di proroga delle indagini”; e ritenevano, quindi, che “l’eventuale immotivato diniego delle attestazioni richieste …, allo stato non apprezzabile all’evidenza in tal senso richiamandosi, nel provvedimento di rigetto del P.M., esigenze connesse al segreto istruttorio ed eventualmente rilevante sotto altri profili, non consente di addivenire né ad una pronuncia di inefficacia della misura cautelare …, né, tantomeno consente, senza i dovuti controlli, una pronuncia di inutilizzabilità degli atti assunti per violazione dei termini delle indagini preliminari”. 1.3 Il ricorrente, infine, aveva eccepito anche “la inutilizzabilità degli atti per la iscrizione ritardata della notizia di reato”. A tal riguardo il Tribunale rilevava che “la disposizione di cui all’art. 335 cod. pen., secondo cui l’iscrizione deve essere effettuata dal P.M. immediatamente, non prevede alcun termine entro il quale il P.M. deve provvedere ed è inoltre sprovvista di sanzione e può determinare esclusivamente, se ne ricorrono gli estremi, sanzioni disciplinari e penali”. 1.4 Nel merito, il Tribunale riteneva la gravità del quadro indiziario, rilevando, altresì, che “la ritenuta aggravante del metodo mafioso, che richiama la presunzione legale di pericolosità, allo stato non elisa da concreti elementi di segno contrario, ma suffragata dal precedente penale per associazione mafiosa, esime dal motivare in punto di esigenze cautelari ed adeguatezza della misura”. 2.0 Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso l’indagato, per mezzo dei difensori, denunziando:a) il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 309, 5° e 10° comma, cod. proc. pen.. . Deduce che il gravato provvedimento non avrebbe considerato che il principio secondo cui “l’obbligo per il pubblico ministero di trasmettere al tribunale del riesame tutti gli atti rilevanti non si estenderebbe alla certificazione della data di iscrizione del procedimento …, soffre un’eccezione quando sussistano dubbi sull’utilizzabilità degli atti processuali per inosservanza dei termini di durata massima delle indagini preliminari …”; b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’art. 63 cod. proc. pen.. Premesso che “l’assunto accusatorio … ruota attorno alla chiamata in correità del collaboratore di giustizia Francesco Michienzi ...”, rileva il ricorrente che “il collegio de libertate propende, in realtà senza profondersi in alcun sforzo motivatorio e soprattutto in modo assai contraddittorio rispetto alle premesse, per l’inconsistenza probatoria del rivelato dal Michenzi …, le cui delazioni, sebbene confortate dalle sommarie informazioni rese dagli stessi fratelli Sgromo, non avrebbero, infatti, comportato alcuna iscrizione ex art. 335 cod. proc. pen. a carico di questi ultimi, ‘solo potenzialmente indagabili’ …”; il Tribunale del riesame, quindi, “àncora la ritualità delle acquisizioni investigative di natura dichiarativa al mero dato formale derivante dalla mancata iscrizione degli Sgromo nel registro degli indagati”, così erroneamente applicando l’art. 63 cod. proc. pen.. Richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, rileva che “più aderente alla protezione degli interessi che vanno tutelati è … una considerazione sostanzialistica del caso, nel senso di non fermarsi solo al dato di quanto storicamente si è fatto nell’ambito dell’indagine, ma di considerare anche quanto si sarebbe dovuto fare rispetto alla situazione quale appariva al momento in cui le dichiarazioni sono state rese”. In definitiva, “la chiamata in correità del collaboratore di giustizia Francesco Michienzi …, non poteva che essere apprezzata dal requirente alla stregua di un’imputazione provvisoria, come tale meritevole di doveroso approfondimento investigativo … e, ancor prima, come una notitia criminis da ‘protocollare’, proprio a garanzia dei chiamati, nel registro degli indagati”;c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli artt. 335 e 407, 3° c., cod. proc. pen.. Lamenta il ricorrente che “la doglianza difensiva, tesa appunto ad eccepire l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., dei risultati probatori conseguiti scaduto il termine massimo di indagini computato non dal giorno in cui l’assistito è stato iscritto, ma da quello in cui avrebbe dovuto esserlo, viene lapidariamente disattesa dal Tribunale distrettuale …, laddove “l’omessa iscrizione nel registro degli indagati costituisce evidentemente un inammissibile espediente mediante il quale il pubblico ministero, differendo l’iscrizione … , si assicura, in spregio all’obbligo di immediata annotazione di cui all’art. 335 cod. proc. pen., incontrollabili margini temporali per lo svolgimento delle indagini …”. Da tanto, quindi – assume il ricorrente – discende la declaratoria di inutilizzabilità “di tutta l’attività di indagine svolta dopo il 2 aprile 2007 (termine non prorogato o non prorogato tempestivamente), calcolando il dies a quo dei termini investigativi dal 2 aprile 2006, giorno in cui Francesco Michienzi … ha circostanziatamente accusato per la prima volta Vincenzino Fruci …”. In subordine, il ricorrente chiede la “rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, perché scrutini la legittimità degli artt. 335, 405, comma 2, e 407, comma 3, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 3, 24, comma 2, e 111, comma 2-3, Cost., nella parte in cui non prevedono l’inutilizzabilità dell’attività investigativa compiuta oltre i termini di indagini computati non dal giorno in cui il soggetto viene iscritto nell’apposito registro, bensì dal giorno in cui, emergendo a suo carico indizi di reità, avrebbe dovuto essere iscritto”. 3.0 Il ricorso veniva assegnato alla VI sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 4 febbraio 2009, ne disponeva la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen.. Rilevava la sezione rimettente che “questa Corte ha ripetutamente affermato il principio, secondo il quale l’omessa annotazione della notitia criminis sul registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., con l’indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta ad indagini ‘contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta’, non determina l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti fino al momento della effettiva iscrizione nel registro, poiché, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari, previsto dall’art. 407 cod. proc. pen., al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, e non dalla presunta data nella quale il Pubblico Ministero avrebbe dovuto iscriverla …, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del Pubblico Ministero negligente …”; e “tale principio è stato recentemente affermato in numerose decisioni di questa Corte …”, che ha “anche dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 335, 405, comma 2, 407, comma 3, cod. proc. pen., prospettata in riferimento agli artt. 2, 24 e 111 Cost. …”, nella parte in cui non prevedono uno specifico termine entro il quale deve procedersi alla iscrizione nel registro degli indagati …”. Nondimeno, “tale prevalente orientamento giurisprudenziale non ha, tuttavia, mancato di registrare dissensi” nella giurisprudenza di questa Suprema Corte. S’è, infatti, altra volta affermato che “la tardiva iscrizione del nome dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. non determina alcuna invalidità delle indagini preliminari, ma … consente al giudice di rideterminare il termine iniziale, in riferimento al momento in cui si sarebbe dovuta iscrivere la notizia di reato; con la conseguenza che la tardiva iscrizione può incidere sulla utilizzabilità delle indagini finali, ma non sulla utilizzabilità di quelle svolte prima della iscrizione e che il relativo accertamento non è censurabile in sede di legittimità qualora sia sorretto da congrua e logica motivazione”. E si è altra volta precisato che, “qualora le indagini superino il termine massimo stabilito dalla legge, non tutti gli atti sono inutilizzabili, ma solo quelli compiuti oltre quel termine, decorrente dal momento, che è compito del giudice individuare, in cui poteva e doveva avvenire l’iscrizione prescritta dall’art. 405, comma secondo, cod. proc. pen”. Indirizzi contrastanti sul punto – annota l’ordinanza di rimessione – sono anche riscontrabili in dottrina. 4.0 Il Primo Presidente ha fissato l’odierna udienza in Camera di Consiglio per la discussione del gravame. Motivi della decisione 5.0 Quanto al primo profilo di doglianza (come richiamato ai punti a) e c), supra), esso rimanda alla questione per la quale il procedimento è stato rimesso a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., e che può così sintetizzarsi: “se la tardiva iscrizione del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato consenta al giudice (nella specie: al tribunale del riesame) di rideterminare la data in cui si sarebbe dovuto iscrivere ai fini della inutilizzabilità degli atti compiuti oltre la scadenza del termine di durata massima delle indagini, in tal modo ridefinita”.L’esame di tale questione, tuttavia, presuppone che venga previamente saggiata la ritualità dei proposti motivi di censura, segnatamente in riferimento al disposto dell’art. 581, lett. c), cod. proc. pen., in termini di specificità e rilevanza decisoria delle “ragioni di diritto e degli elementi di fatto” prospettati.E tale scrutinio non può, nella specie, che risolversi negativamente.Occorre, invero, innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco di fondo che si annida nella tesi gravatoria del ricorrente, ribadito anche nella odierna discussione orale: che, cioè, la tardiva iscrizione dell’indagato nel relativo registro comporterebbe la inutilizzabilità di tutti gli atti di indagine svolti ed assunti, non solo di quelli eventualmente posti in essere tardivamente rispetto al termine di scadenza delle indagini preliminari che dovrebbe essere determinato tenuto conto, “sostanzialisticamente”, dell’epoca in cui la iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata, non da quella in qui sia stata “formalmente” eseguita.Ma così di certo non è.Ai sensi, difatti, dell’art, 407, 3° comma, cod. proc. pen., la comminatoria di inutilizzabilità degli atti di indagine concerne solo quelli “compiuti dopo la scadenza del termine … ”, non anche, ovviamente, quelli compiuti nel termine prefissato dalla legge o prorogato dal giudice: sicché, richiamato anche il generale principio di tassatività delle nullità (art. 177 cod. proc. pen.), può discettarsi sulla determinazione del termine a quo, dal quale poi dipende ineluttabilmente la fissazione di quello ad quem, ma, una volta questi fissati e delimitati, secondo che si intenda privilegiare, alla stregua delle distinte opzioni sopra richiamate, quanto formalmente si è fatto o, piuttosto, quanto sostanzialisticamente avrebbe dovuto farsi, tutti gli atti di indagine compiuti medio tempore, e quindi nel lasso di tempo intercorrente tra i due individuati termini, sono sicuramente utilizzabili.Ed è stato già rilevato dal Giudice delle leggi che, in ogni caso, “il problema che può porsi attiene unicamente alla artificiosa dilazione del termine di durata massima delle indagini preliminari: vale a dire alla possibile elusione della sanzione di inutilizzabilità che, colpirebbe, ai sensi dell’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., gli atti di indagine collocati temporalmente ‘a valle’ della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata” (Corte Cost., ord. 7 luglio 2005, n. 307): a “valle”, dunque, e non “a monte”. E mette conto anche rilevare che lo stesso Giudice delle leggi ha ritenuto, ”all’evidenza, completamente antitetiche” le due prospettazioni, quella, cioè, di ritenere la inutilizzabilità degli atti compiuti oltre la scadenza del termine massimo di indagine, considerato il momento in cui la notizia di reato avrebbe dovuto essere effettivamente iscritta, e quella di ritenere la medesima sanzione processuale per gli atti compiuti prima della formale iscrizione nel registro ex art. 335 cod. proc. pen., se quest’ultima è avvenuta con ritardo “ingiustificabile” (Corte Cost., ord. 20 novembre 2006, n. 400). Per vero, è incongruo sostenere che gli atti compiuti prima della iscrizione “formale” siano solo per ciò inutilizzabili, coinvolgendo così nella stessa sanzione di inutilizzabilità gli atti compiuti “a monte” (pur nei limiti temporali individuati) e quelli compiuti “ a valle” (oltre quegli stessi limiti), in tal guisa prospettando un diverso (ed additivo) regime normativo, rispetto a quello delineato ed imposto dal legislatore, con indebito restringimento della durata delle indagini prevista dal codice di rito, se non con definitivo pregiudizio della stessa possibilità di ogni indagine. 5.1 Così delimitati l’ambito ed i termini della prospettabile questione al riguardo, quand’anche si accedesse al punto di vista del Fruci (secondo cui il tribunale del riesame avrebbe dovuto, in sostanza, “rimodulare” i termini di durata delle indagini preliminari), l’obbligo di specificità dei motivi (prescritto dal già citato art. 581 cod. proc. pen.) imponeva, evidentemente, al ricorrente di allegare e chiarire quali atti sarebbero stati posti in essere a termini scaduti, secondo tale propugnato criterio, e sarebbero, quindi, da considerare inutilizzabili; e se e quale incidenza essi abbiano avuto sul complessivo compendio indiziario valutato ed apprezzato dal giudice, sì da potersene inferire la loro decisività in riferimento al provvedimento impugnato (la c. d. prova di resistenza). Con principio espresso in riferimento alla eccepita inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche, ma evidentemente del tutto evocabile anche in subiecta materia, questa Suprema Corte ha già avuto occasione di chiarire che “è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, di indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato … ” (ex ceteris, Sez. V, 15 luglio 2008, n. 37694; Sez. IV, 9 giugno 2004, n. 33700. V. anche Sez. IV, 6 febbraio 2008, n. 14946; Sez. IV, 7 giugno 2006, n. 32747; Sez. IV, 3 novembre 2005, n. 2375/06). E s’è anche altra volta ulteriormente specificato che, in tema di ricorso per cassazione, “è affetta da genericità la censura con la quale la parte eccepisce la inutilizzabilità di un atto, senza dedurne, al tempo stesso, la rilevanza probatoria, nel contesto degli altri elementi di prova” (Sez. VI, 18 ottobre 2000, n. 159/01); e s’è ancora chiarito che (in tema di attività di indagine asseritamente condotta prima che fosse intervenuto il decreto autorizzativo della riapertura della fase delle indagini preliminari), quando si prospetta la sussistenza di atti invalidi o viziati, “occorre dimostrare che essi abbiano effettivamente tenuto conto della attività illegittimamente espletata, apparendo indispensabile accertare se il giudice di merito, al fine di formare il proprio convincimento in relazione ad un provvedimento adottato, abbia concretamente fatto uso degli atti acquisiti al di fuori del codice di rito. Incombe dunque al ricorrente l’onere di specificare se e quali atti siano stati effettivamente posti a base della decisione che intende impugnare” (Sez. V., 12 febbraio 1999, n. 736; Sez. II, 23 gennaio 1998, n. 672).A tale onere, nella specie, il ricorrente non ha affatto ottemperato e tanto basta a ritenere la genericità, e perciò la inammissibilità, del motivo al riguardo proposto: il che rende, ovviamente, anche irrilevante ed assorbita la proposta questione di legittimità costituzionale. V’è solo da aggiungere che ad affrancare tale rilevato vizio genetico del gravame non può valere la prospettazione da parte del ricorrente di un mero “sospetto” di inutilizzabilità di atti investigativi per la rappresentata impossibilità di ottenere la documentazione in ricorso indicata: per vero, non sussiste, de iure condito, come correttamente rilevato dal provvedimento impugnato, per il Tribunale distrettuale in sede incidentale di riesame alcun obbligo di sindacare, rendendoli oggetto di acquisizione, provvedimenti resi ex art. 116 cod. proc. pen., peraltro concernenti altro procedimento; e solo de iure condendo il recente D.D.L., approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 6 febbraio 2009, predice la modifica dell’art. 405, secondo comma, cod. proc. pen., ivi prevedendosi che “il giudice verifica l’iscrizione operata dal pubblico ministero e determina la data nella quale essa doveva essere effettuata, anche agli effetti dell’art. 407, comma 3”e tale potere di verifica, tuttavia, ponendosi solo al momento della richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero: tutto ciò rafforza la tesi allo stato privilegiata.6.0 Il secondo profilo di doglianza (sub b), supra) concerne le dichiarazioni rese dai fratelli Eugenio e Sebastiano Sgromo.Come si è sopra ricordato, il ricorrente sostiene che le dichiarazioni di costoro sarebbero state illegittimamente assunte ai sensi dell’art. 351, anziché dell’art. 63 cod. proc. pen.; e cioè che tale seconda norma avrebbe dovuto essere applicata perché le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Francesco Michienzi avevano prospettato “il ruolo di intermediari che negli ipotetici episodi delittuosi contestati sarebbe stato svolto proprio dai germani, i quali giustappunto ‘fungevano da collegamento tra la cosca Anello e gli imprenditori locali che … erano regolarmente assoggettati al pagamento di una tangente’ …”. In sostanza, le dichiarazioni di Michienzi prospettavano elementi di penale responsabilità dei fratelli Sgromo e tale circostanza “non poteva che essere apprezzata dal requirente alla stregua di un’imputazione provvisoria, come tale meritevole di doveroso approfondimento investigativo … e, ancor prima, come una notitia criminis da ‘protocollare’, proprio a garanzia dei chiamati, nel registro degli indagati”: il Tribunale del riesame si sarebbe, invece, soffermato solo sul “mero dato formale derivante dalla mancata iscrizione degli Sgromo nel registro degli indagati …”, laddove non avrebbe dovuto fermarsi “solo al dato di quanto storicamente si è fatto …”, ma avrebbe dovuto “considerare anche quanto si sarebbe dovuto fare rispetto alla situazione quale appariva al momento in cui le dichiarazioni sono state rese”.6.1 Tale motivo è manifestamente infondato.
Giova innanzitutto rilevare, sotto un profilo d’ordine generale e sistematico, che ha già avuto modo questa Suprema Corte di rilevare che la condizione di soggetti che sin dall’inizio avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di imputati o di persone sottoposte ad indagine “non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, occorrendo invece che tali vicende, per come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non poter formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi” (Sez. I, 29 gennaio 2002, n. 8099; Sez. I, 8 novembre 2007, n. 4060). La sanzione di cui all’art. 63, secondo comma, cod. proc. pen. “opera solo nei casi in cui, a carico dell’interessato, sussistano prima dell’escussione indizi non equivoci di reità e tali indizi siano conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante” (Sez. II, 2 ottobre 2008, n. 39380). E queste stesse Sezioni Unite hanno di già rilevato che “la coordinata lettera dei due commi della norma” (art. 63 cod. proc. pen.”) postula “che siano già acquisiti ‘indizi di reità’. E’ stato quindi ripetutamente evidenziato che gli elementi a carico del dichiarante devono assumere la consistenza dell’indizio, non potendo la sua posizione di persona informata essere mutata dall’esistenza di sospetti o ipotesi investigative”, conclusione, questa, “coerente con la presunzione di non colpevolezza, con l’onere probatorio dell’accusa e con la strumentalità rispetto all’accertamento della verità materiale, principi cui è improntato l’intero sistema processuale” (Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 21832).
Quindi, in definitiva, l’obbligo di “protocollare la notizia”, come assume il ricorrente, insorge solo nel momento in cui si concretizzi “l’esistenza di responsabilità penali” in capo al dichiarante, di “elementi non equivoci di reità”, non di meri “sospetti”, generiche allegazioni, o prospettabili ipotesi investigative non postulanti necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico del dichiarante medesimo, né tampoco “intuizioni personali dell’interrogante”. 6.2 A fronte di tali principi reiteratamente affermati dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, il provvedimento impugnato ha chiaramente esplicitato che “emerge dagli atti un ruolo generico di intermediari degli imprenditori Sgromo … che, però, si sono proposti essi stessi come vittime del sistema”; e “le dichiarazioni di Michienzi, in ordine al ruolo svolto dagli Sgromo nel settore estorsivo senza alcuna puntualizzazione di fatti e circostanze ad essi addebitati, non hanno la benché minima consistenza indiziaria né in relazione a singole e definite ipotesi estorsive, né tantomeno con riguardo ad una partecipazione dei due imprenditori alla cosca Anello, esclusa espressamente dal collaboratore …”. Come si vede, la definitiva valutazione dei giudici del merito al riguardo esclude del tutto la sussistenza di quelle condizioni, cui sopra si accennava, che avrebbero dovuto imporre di “protocollare” una concreta, effettiva, realmente sussistente notizia di reato nei confronti dei due dichiaranti, al di fuori di “meri sospetti” o di possibili ulteriori attività investigative non direttamente collegate ad un ruolo criminale da essi svolto: sono stati motivatamente riscontrati solo elementi del tutto generici, inconsistenti, sotto il profilo degli “indizi di reato” eventualmente riconducibili agli stessi, finendo col darsi atto che “la partecipazione dei due imprenditori” all’associazione criminale, che “regolarmente” assoggettava “al pagamento di una tangente” quanti dovevano “eseguire lavori nella zona sottoposta al suo controllo”, è stata “esclusa espressamente dal collaboratore”.A tal punto, la diversa allegazione del ricorrente al riguardo si limita, in sostanza, a rappresentare una diversa prospettazione dei fatti ed una opposta valutazione degli elementi valutati in sede di merito. Ma, ovviamente, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di verificare la congruità logica dell’apparato argomentativo che sorregge il provvedimento impugnato (Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 930/1996); id., 31 maggio 2000, n. 12). E nella specie deve riconoscersi la inscalfittibile acribia cui l’apparato motivazionale appare improntato, considerato anche che il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606.1, lett. e), cod. proc. pen. dall’art. 8 della L. 20 febbraio 2006, n. 46 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”. 7.0 Alle svolte argomentazioni consegue la inammissibilità del ricorso. A tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente, come evidenziata dagli stessi vizi genetici rilevati (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in favore della cassa delle ammende.Deve, altresì, disporsi che copia del presente provvedimento sia trasmesso al Direttore dell’istituto penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art. 94, c. 1-ter, disp. att. del cod. proc. pen.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di mille euro alla cassa delle ammende. Si comunichi a norma dell’art. 94, c. 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..