La Sez. Un. hanno affermato l’inammissibilità dell’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 c.p.p., presentata da soggetto legittimato che non conosca la lingua italiana; infatti, l’impugnante, esercitando una facoltà personale e discrezionale, può valersi, in caso di indigenza, dell’assistenza di un proprio interprete di fiducia a spese dello Stato (vd. Corte cost., sent. n. 254 del 2007). La Sez. Un., inoltre, hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 109 e 143 c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., poiché le norme denunciate non limitano i diritti dei soggetti che non conoscono la lingua italiana alla difesa, all’impugnazione e alla parità delle parti e le disparità prospettate investono situazioni di mero fatto per le quali, se del caso, possono essere attivati appositi rimedi (patrocinio pubblico, restituzione in termini).
Testo Completo: Sentenza n. 36541 del 26 giugno 2008 - depositata il 24 settembre 2008
(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore P. Bardovagni)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza deliberata l’undici ottobre 2007, depositata il giorno successivo e notificata con traduzione in lingua russa il 7.12.2007, la Corte d’Appello di Roma, sull’opposizione dell’interessato, all’esito della trattazione camerale ex art. 704 C.P.P. ha dichiarato sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta di estradizione formulata dal Governo della Federazione Russa nei confronti di AKIMENKO Oleg, cittadino di quello Stato, colpito da mandato di cattura emesso dal Tribunale di Kaliningrad e tratto in Italia in arresto provvisorio – convalidato nei termini, con applicazione della custodia cautelare - il 22.2.2007. L’imputazione è di truffa (appropriazione indebita mediante inganno e abuso di fiducia, con gravissimo danno), reato previsto dall’art. 159 del Codice penale russo e sanzionato – nell’ipotesi aggravata contestata - con la reclusione fino ad un massimo di 10 anni in aggiunta alla pena ordinaria della multa, perché, dopo avere, in qualità di direttore generale della s.r.l. MASLOPRODUCT di Kaliningrad, firmato l’otto ottobre 2003 un contratto di apertura di credito con la banca “Moskovski Munitsipalny Bank” di Kaliningrad facendo uso di false certificazioni sulle disponibilità della ditta, avrebbe sottratto la relativa, ingente somma dal conto bancario.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta in forza della Convenzione europea di Parigi del 13.12.1957, resa esecutiva con L. 30.1.1963 n. 300, sia per l’aspetto formale (regolarità della documentazione prodotta) sia perché i fatti addebitati integravano reati comuni dolosi sanzionati con la restrizione oltre l’anno secondo le leggi penali di entrambi gli Stati, non vi era duplicazione di giudizio, non ricorrevano ipotesi di esclusione nè emergevano elementi per ritenere che l’incolpato fosse oggetto di persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità od opinioni politiche. L’esistenza della Convenzione escludeva ulteriori accertamenti in punto di gravità indiziaria (art. 705, co. 1, C.P.P.).
Il 12.12.2007 AKIMENKO dichiarava, nelle forme di cui all’art. 123 C.P.P., di proporre ricorso per cassazione presentando contestualmente conclusioni e motivi manoscritti, costituiti da un foglio in lingua italiana, con il quale chiede che venga riconosciuta l’insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione, e da un testo in lingua russa, cui rinvia per l’esposizione delle ragioni poste a fondamento della richiesta.
Con motivi aggiunti a firma dell’Avv. Pietro Asta, pervenuti il 28.3.2008, si chiedeva preliminarmente il differimento dell’udienza camerale fissata dinanzi alla VI Sezione di questa Corte onde produrre documentazione comprovante circostanze dedotte nello scritto in lingua straniera e consentire l’audizione personale del ricorrente, il quale non aveva ricevuto avviso dell’udienza dinanzi alla Corte d’Appello nella sua madrelingua e, pur avendo richiesto di presenziare, immediatamente prima della data fissata era stato trasferito nelle carceri di Iglesias e non tradotto. Venivano allegati - oltre ad una versione italiana a cura di parte dei motivi presentati in russo, di cui si sollecitava la formale traduzione ai sensi dell’art. 143 C.P.P. - vari documenti (in parte da tradurre), a sostegno dell’assunto di un’attività persecutoria delle autorità dello Stato d’origine, ostativa all’estradizione ex art. 698 C.P.P. perchè dovuta alle convinzioni politiche del soggetto ed al notevole contributo finanziario erogato alla stampa di opposizione. Ulteriori doglianze investono la genericità dell’imputazione, l’insussistenza di indizi di colpevolezza (posto fra l’altro che AKIMENKO era l’unico socio della MASLOPRODUKT), la mancata assunzione delle necessarie informazioni ex art. 704, co. 2, C.P.P. e l’inosservanza della detta disposizione nella parte in cui prescrive che venga “sentito il difensore” onde, non essendo comparsi i due fiduciari, se ne sarebbe dovuto nominare a tal fine uno d’ufficio.
Con ordinanza 31.3/10.4.2008 la VI Sezione ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, osservando che AKIMENKO non è in grado di parlare e comprendere l’italiano; la dichiarazione di ricorso con rinvio ai motivi redatti nella lingua madre va perciò intesa come implicita richiesta di traduzione. Non si ritiene che il ricorrente fosse obbligato a valersi di un interprete di parte, perché la ricerca dell’ausiliario e la versione italiana richiedono necessariamente un certo tempo – tanto più in stato di detenzione – mentre l’interessato ha diritto a fruire dell’intero termine concesso dalla legge per proporre impugnazione. Inoltre, l’esercizio di un potere di impulso processuale impone che il contenuto dell’atto sia asseverato da persona prescelta ed investita con le cautele e gli obblighi di cui all’art. 146 C.P.P.. La conclusione che l’autorità giudiziaria sia tenuta a procedere “ex officio” alla traduzione - come del resto per ogni scritto proveniente dall’imputato e acquisito agli atti, se redatto in lingua straniera - è peraltro in contrasto con il principio in precedenza affermato dalla stessa VI Sezione, secondo il quale l’assistenza gratuita di un interprete sarebbe garantita dall’art. 143 C.P.P. all’imputato che non conosce la lingua italiana soltanto per gli atti cui egli sia chiamato a partecipare e per quelli attraverso i quali viene messo in grado di comprendere l’accusa formulata contro di lui, e non invece per quelli che decida di redigere nel proprio interesse, come l’impugnazione, per i quali deve provvedere alla traduzione a sua cura. Di qui la necessità dell’intervento delle Sezioni Unite per prevenire il contrasto di giurisprudenza.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.
Con memoria depositata il 19.6.2008 l’Avv. Asta rappresenta che l’interpretazione dell’art. 143 C.P.P. prospettata dall’ordinanza di rimessione è l’unica che assicuri all’alloglotta l’effettività del diritto di impugnazione, e quindi la sola compatibile con la Costituzione e con gli obblighi internazionali assunti dallo Stato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite è dunque la seguente: “se sia ammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera, presentata da persona legittimata a proporla che non conosca la lingua italiana”.
Con specifico riferimento ad un atto di impulso processuale di parte privata il quesito ha trovato solo sporadica attenzione in dottrina e in giurisprudenza. Ai fini della soluzione è opportuna una previa ricognizione della portata e della reciproca interferenza delle fonti normative concernenti in generale l’uso della lingua nel processo e in particolare i mezzi apprestati per tutelare l’alloglotta e rendere comprensibili al giudice atti legittimamente assunti o acquisiti in idioma diverso da quello normativamente previsto.
L’art. 109 C.P.P. – sotto la rubrica “lingua degli atti” – prescrive che “gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana” (co. 1). Fanno seguito disposizioni dirette ad assicurare il bilinguismo in territori “dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta” (co. 2); infine, è stabilito che le prescrizioni dell’articolo “si osservano a pena di nullità” (co. 3). Tale disciplina non è priva di rilevanza costituzionale (Corte Cost. 20.1/11.2.1982 n. 28), rispondendo in definitiva al fondamentale principio che la sovranità appartiene al popolo (art. 1), in nome del quale viene esercitata la giurisdizione (art. 101), attraverso organi precostituiti per legge e, nei casi da questa previsti, con diretta partecipazione popolare (art. 102); ciò presuppone l’uso del mezzo di espressione comune alla collettività nazionale o, nei territori di insediamento, alle sue componenti minoritarie, tanto più in un ordinamento caratterizzato da almeno tendenziale pubblicità dell’attività giurisdizionale.
Il controllo diffuso ed estrinseco da parte dell’opinione pubblica, connaturale all’ordinamento democratico – che postula la celebrazione del processo nella lingua usata dalla collettività del luogo di svolgimento – va peraltro reso compatibile con l’inviolabile diritto alla difesa quando un soggetto processuale non sia in grado di comprendere o parlare l’idioma usato nel giudizio. A tal fine il co. 3 dell’art. 111 della Costituzione – come novellato dalla Legge costituzionale 23.11.1999 n. 2 – stabilisce: “la legge assicura che la persona accusata di un reato… sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”. La specifica disciplina della materia è contenuta nell’art. 143 C.P.P., secondo il quale “l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa” (co. 1); seguono al co. 2 disposizioni concernenti la traduzione di atti e la ricezione di dichiarazioni di qualsiasi soggetto processuale alloglotta (“l’autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tale caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete”). La normativa nazionale si uniforma a quella dell’art. 6, co. 3, della Convenzione europea, secondo la quale “ogni accusato ha diritto soprattutto a: a) essere informato, nel più breve tempo, in una lingua che comprende e in maniera dettagliata, del contenuto dell’accusa elevata contro di lui;… e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza” (cfr. anche le sovrapponibili previsioni dell’art. 14 del Patto internazionale ratificato con la L. n. 881/1977); ciò in coerenza con la direttiva contenuta nell’art. 2, I periodo, della legge 16.2.1987 n. 81, di delega per l’emanazione del codice di rito (“il codice di procedura penale deve… adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”).
Come evidenziato dalla Corte Costituzionale (sentenza 12/19.1.1993 n. 10) tale complesso normativo, in quanto diretta attuazione del diritto inviolabile di ogni persona garantito dall’art. 25, co. 2, della Legge fondamentale, va interpretato nel senso di conferire alle disposizioni che all’esatta comprensione dell’accusa danno esplicita garanzia un significato espansivo diretto a renderle, nei limiti del possibile, concrete ed effettive. Ne segue che l’opera dell’interprete nominato dal giudice – in funzione di assistenza all’imputato, e non soltanto di collaborazione con l’autorità giudiziaria, a differenza di quanto avveniva sotto il codice abrogato (art. 326) – investe non solo gli atti orali cui il soggetto partecipa od assiste, ma anche quelli scritti a lui diretti, in quanto rispondenti alla finalità generale di garantire a chi non intende o non parla la lingua italiana di “comprendere l’accusa” e “seguire il compimento degli atti cui partecipa”. Questa ampia finalizzazione comporta che l’art. 143 C.P.P. sia suscettibile di un’applicazione estesa a tutte le ipotesi in cui l’imputato, ove non potesse giovarsi dell’ausilio dell’interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale. D’altra parte, essendo la norma in questione contenuta nel titolo dedicato alla “traduzione degli atti” e non distinguendo il diritto processuale penale, a differenza di quello civile, la figura del traduttore da quella dell’interprete, il diritto all’interprete ben può essere fatto valere e fruito ogni volta che l’imputato abbia, ai fini sopra indicati, necessità della traduzione in lingua conosciuta di atti a lui indirizzati, sia scritti che orali. Fra questi sono compresi l’atto introduttivo del giudizio (cfr. Corte Costituzionale n. 10/1993 citata; Cass., Sez. Un., 31.5/23.6.2000, Jakani), quello che dispone la custodia cautelare (Cass., Sez. Un., 24.9.2003/9.2.2004, Zalagaitis) - una volta accertata l’ignoranza della lingua e con eventuale slittamento della decorrenza del termine per l’impugnazione fino a che non sia conseguita la conoscenza del contenuto del provvedimento - e l’avviso della conclusione delle indagini preliminari (Cass., Sez. Un., 26.9/28.11.2006, Cieslinski e altri). Tali approdi interpretativi appaiono sostanzialmente conformi a quelli raggiunti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale è dovuta la traduzione di tutti quei documenti o atti del procedimento la cui comprensione è necessaria all’imputato per beneficiare di un equo processo (28.11.1978, Luedicke e altri c. Germania), sicchè il diritto all’assistenza dell’interprete non si limita alle dichiarazioni rese nel corso del giudizio, ma neppure esige la traduzione scritta di tutti gli elementi di prova o i documenti ufficiali della procedura, essendo sufficiente che permetta all’imputato di conoscere il caso che lo riguarda e di difendersi, consentendogli in particolare di fornire al giudice la propria versione dei fatti (19.12.1989, Kamasinski c. Austria; 24.2.2005, Husain c. Italia nonché, in grande Camera, 18.10.2006, Hermi c. Italia).
E’ altresì certo che, ai fini del miglior svolgimento dell’attività difensiva (ad es., per acquisire conoscenza integrale degli atti del procedimento, verificare l’esattezza della traduzione ufficiale, stendere difese scritte, interloquire con difensori, consulenti di parte, investigatori), l’imputato può valersi di interpreti di sua scelta, diversi da quello nominato d’ufficio (il quale è bensì tenuto a prestargli assistenza, ma soltanto in ambito endoprocessuale ed in posizione di obbiettiva “neutralità” circa il risultato della traduzione, in conformità all’obbligo di “far conoscere la verità” assunto con il conferimento dell’incarico ai sensi dell’art. 146, co. 2, C.P.P.). Poiché detta facoltà della parte privata rientra nella garanzia costituzionale del diritto alla difesa e al giusto processo, la Corte Costituzionale, con sentenza 20.6/6.7.2007 n. 254, ha riconosciuto l’illegittimità dell’art. 102 D.P.R. 30.5.2002 n. 115, nella parte in cui non prevede l’inclusione dei relativi oneri economici fra quelli coperti dall’ammissione dell’interessato non abbiente al patrocinio a spese dello Stato.
Le garanzie finora esaminate, espressamente riconosciute al soggetto incolpato di un reato, si estendono all’estradando: il legislatore nazionale ha infatti avuto cura di precisare (art. 697, co. 1, C.P.P.) che non è ammessa, ai fini dell’esecuzione di una condanna o di un provvedimento restrittivo della libertà personale, la consegna di un soggetto ad uno Stato estero in via breve e con modalità non garantite (in particolare, in forma apparente di espulsione), dovendo farsi a tal fine ricorso esclusivo alla procedura di estradizione regolata dalla legge e connotata – quando non vi sia consenso dell’interessato, assistito dal difensore – da una fase giurisdizionale in contraddittorio, nelle forme previste dagli artt. 701 e seguenti del codice di rito, che danno fra l’altro attuazione alla risoluzione 21.5.1975 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, concernente il diritto dell’estradando ad essere sentito dall’autorità giudiziaria. Ne segue che la persona di cui è richiesta l’estradizione, se ignora la lingua italiana, ha diritto all’assistenza dell’interprete al fine di esporre le proprie ragioni e partecipare coscientemente agli atti che ne richiedono la presenza; ciò non solo per la già evidenziata forza espansiva delle previsioni dell’art. 143 C.P.P. e perchè l’estradando è, nello Stato richiedente, “accusato” di un reato, ma in primo luogo perchè, altrimenti, le garanzie apprestate dalla legge sarebbero nei suoi confronti del tutto vane ed illusorie (v. anche, nella medesima prospettiva garantistica, Corte Cost. 8/16.6.2000 n. 198, 8/22.6.2000 n. 227 e 8/21.7.2004 n. 257, in tema di espulsione).
Passando all’esame del quesito circa la validità dell’impugnazione personale corredata da motivi in lingua straniera, questa Corte - che in tema di estradizione conosce anche del merito (art. 706 C.P.P.) - è anzitutto chiamata a verificare se il soggetto comprenda la lingua italiana, poiché ciò escluderebbe in radice l’assistenza dell’interprete, in quanto né la lettera, né la “ratio” dell’art. 143 C.P.P. e delle norme correlate configurano un diritto indiscriminato dell’alloglotta, sol perché tale, all’uso nel processo della propria lingua (cfr. la già citata decisione di queste Sezioni Unite in proc. Jakani). In proposito la legge (ultimo periodo del co. 1 dell’art. 143 C.P.P.) fissa una presunzione relativa di conoscenza della lingua italiana da parte del cittadino; per lo straniero stabilisce la presunzione opposta – ai fini dell’invito ad eleggere domicilio nello Stato, ma con criterio ragionevolmente suscettibile di generale utilizzazione – soltanto se residente o dimorante all’estero (art. 169, co. 3, C.P.P.). Fuori di queste ipotesi, qui non rilevanti, è pertanto compito del giudice valutare caso per caso, alla stregua delle emergenze processuali e di eventuali allegazioni dell’interessato, se questi abbia una adeguata conoscenza della lingua del processo. Ora, la costante assistenza dell’interprete negli atti cui AKIMENKO ha partecipato, o che gli sono stati notificati, è da ritenere indicativa della mancanza di un sufficiente livello di comprensione della lingua italiana.
Ciò chiarito, sulla questione controversa in diritto si rinvengono due filoni interpretativi contrapposti.
Un primo orientamento afferma l’inammissibilità dell’impugnazione redatta in lingua straniera, non idonea a comunicare al giudice cui è rivolto il gravame le questioni devolute e le ragioni di doglianza con il veicolo linguistico usuale e prescritto, il che determina carenza degli elementi indicati dall’art. 581 C.P.P., con le conseguenze di cui al successivo art. 591; il diritto a conoscere nella propria lingua gli atti processuali al fine di predisporre la difesa non implica assistenza linguistica in attività difensive rimesse a scelte discrezionali ma vincolate nella forma, né consente, in particolare, di derogare alle tassative prescrizioni concernenti le impugnazioni, la cui traduzione dovrà semmai avvenire a cura di parte. Più in generale, la traduzione d’ufficio degli atti è assicurata dall’italiano nella diversa lingua conosciuta dal soggetto, ma non viceversa (Cass., Sez. VI, 20.6/18.10.1994, P.G. in proc. Bruzzaniti ed altri). Alla stessa conclusione perviene Cass., Sez. VI, 15.10/20.11.2002, Demiri, sul rilievo che la posizione dell’imputato il quale non conosce la lingua italiana è regolata dal co. 1 dell’art. 143 C.P.P.; il diritto all’assistenza ivi previsto, siccome inequivocamente inteso a consentire la comprensione dell’accusa e degli atti del procedimento cui sia chiamato a partecipare, non si estende a quegli atti - quale l’impugnazione - che l’imputato decida di redigere nel proprio interesse, dei quali può e deve procurare privatamente la necessaria traduzione.
L’opposto orientamento è rappresentato da una decisione (Cass., Sez. II, 15.12.1972/5.4.1973, Ervin e altro) pronunciata ancora nel vigore del codice di rito del 1930, nel quale era pure contenuta all’art. 137, co. 1, la prescrizione – sostanzialmente ripresa dai co. 1 e 3 dell’attuale art. 109 – che “tutti gli atti del procedimento penale devono essere compiuti in lingua italiana a pena di nullità”. La vicenda processuale presentava analogie con quella qui in esame (dichiarazione di ricorso degli imputati detenuti ricevuta a verbale in lingua italiana; motivi stesi in tedesco). La sentenza muove da una prospettiva storico-evolutiva di superamento degli orientamenti nazionalistici del passato (avvenuta abrogazione dell’art. 1 R.D.L. 15.10.1925 n. 1796, che stabiliva una sorta di irricevibilità di “istanze, atti, ricorsi e scritture in genere” non compilati in italiano, la cui presentazione si considerava “come non avvenuta” e inidonea ad interrompere la decorrenza dei termini processuali; introduzione di norme di tutela delle minoranze con gli statuti speciali delle Regioni mistilingui; intensificate forme di cooperazione internazionale; sopravvenuta ratifica della Convenzione europea, che si uniforma a principi già affermati con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10.12.1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite); osserva che, se la “trama verbalistica” del processo è necessariamente “strutturata nella lingua dello Stato che esercita la giurisdizione” anche per quanto riguarda gli atti di parte - i quali saranno recepiti, ove espressi in idioma diverso per ignoranza linguistica, attraverso la traduzione, eseguita con le formalità prescritte ad opera di soggetti abilitati che ne assicurino la fedele corrispondenza di contenuto – non vi è motivo di inibire l’uso della propria lingua a chi non è in grado di esprimersi in quella del processo ai fini dell’esercizio del fondamentale e indefettibile diritto alla difesa. In particolare, quanto all’impugnazione, una volta portata a conoscenza del giudice nelle forme prescritte la volontà di attivare il gravame questi è tenuto a recepire, con il mezzo previsto dalla legge, e valutare le ragioni di doglianza espresse in lingua straniera. Raggiunto con la traduzione lo scopo dell’atto, la nullità (di ordine relativo) prevista dall’art. 137 rimane sanata.
Nella stessa prospettiva si colloca l’ordinanza che ha rimesso la questione all’esame delle Sezioni Unite, del cui percorso argomentativo si è già dato conto.
Queste Sezioni Unite condividono il primo orientamento, con le precisazioni che seguono. Come rilevato dall’ordinanza di rimessione, fra gli “atti del procedimento penale” vanno compresi, quando producono effetti processuali, quelli di parte, e fra essi indubbiamente le impugnazioni, in quanto atti “propulsivi” del giudizio ad un grado ulteriore. Nel caso dell’alloglotta l’assistenza diretta di un interprete nominato d’ufficio nella fase di redazione del gravame non è presa in considerazione dall’orientamento giurisprudenziale qui disatteso; trattasi infatti, come esattamente sostenuto nelle decisioni di segno opposto, di attività non riconducibile alle finalità di comprensione, informazione e partecipazione garantite dal co. 1 dell’art. 143 C.P.P.. La traduzione ad opera dell’ufficio è invece concepita come adempimento successivo al deposito dell’impugnazione scritta in lingua straniera; viene in proposito richiamato il principio affermato da Cass., Sez. VI, 27.2/26.4.1995, Ascione, e Sez. III 19.3/13.5.2003, Cronk (cfr. anche Sez. V 20.2/31.5.2001, Rainer) secondo il quale l’obbligo di usare la lingua italiana si riferisce, per letterale previsione dell’art. 109 C.P.P., agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al procedimento medesimo, dei quali il giudice deve disporre la traduzione ai sensi dell’art. 143, co. 2, C.P.P.. Tale affermazione può essere condivisa nella sostanza (avvertendo peraltro che la citazione giurisprudenziale è indiscriminatamente riferita all’acquisizione documentale a fini di prova ed agli atti propriamente processuali) ma non rileva riguardo alla questione qui in esame. Infatti, con la pronuncia che chiude un grado di giudizio il procedimento acquisitivo degli elementi ed atti necessari alla decisione si esaurisce, e l’impugnazione è l’atto ulteriore che va “compiuto” per realizzare il passaggio al grado successivo. Essa, quindi, deve avere i requisiti prescritti a pena di inammissibilità ed essere come tale “riconoscibile”; la redazione in lingua straniera anche di una soltanto delle parti costitutive elencate nell’art. 581 C.P.P. non consente di “individuarla” come gravame, non essendone percepibile il significato attraverso il mezzo espressivo voluto dalla legge, tanto più in un sistema processuale che vieta al pubblico ufficiale ricevente di utilizzare personali conoscenze linguistiche (arg. ex co. 3 dell’art. 143 C.P.P.), del resto non estensibili a tutte le innumerevoli forme di linguaggio e scrittura esistenti. D’altra parte, la tesi qui criticata presuppone che l’atto venga recepito e produca i suoi effetti solo per mezzo e all’esito della disposta traduzione, da eseguirsi “nei termini stabiliti dallo stesso ufficio” giudiziario competente a ricevere l’impugnazione (v. punto 8 dell’ordinanza di rimessione). Ciò implicherebbe, quindi, un possibile slittamento dei termini di cui all’art. 585 C.P.P., entro i quali il gravame deve essere perfezionato a pena di decadenza, cioè una manipolazione “additiva” della norma certamente non consentita al giudice ordinario.
Resta da stabilire se l’applicazione del co. 2 dell’art. 143 C.P.P. non possa essere “recuperata” in forza della sua ultima parte, secondo la quale l’alloglotta “che vuole… fare una dichiarazione” ha diritto all’assistenza dell’interprete e può compiere l’atto dichiarativo anche depositando uno scritto da tradurre a cura dell’ufficio e allegare al verbale. Tale linea interpretativa è peraltro preclusa dal fatto che il codice attuale (art. 581), soppressa la previgente distinzione tra il momento dichiarativo e quello espositivo, concepisce l’impugnazione come un atto scritto unitario, che deve essere presentato (artt. 123, 582) o spedito (art. 583) nella sua integrità all’organo competente a riceverlo, e non già recepito a verbale.
Si deve quindi concludere che l’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 C.P.P., in quanto non “riconoscibile” come atto del procedimento dotato dei requisiti formali e sostanziali necessari per attivare il gravame e individuarne oggetto e ragioni, soggiace alla specifica sanzione di inammissibilità in tal caso prevista (art. 591, co. 1 lett. c), indipendentemente dalla previsione di nullità (sanabile) degli atti processuali in genere, ove compiuti in lingua diversa dall’italiano.
Resta da stabilire se tale ricostruzione del tessuto normativo sia compatibile con la Costituzione. L’ordinanza di rimessione ha in proposito evidenziato che, nei confronti dell’alloglotta, il diritto a proporre personalmente l’impugnazione rimarrebbe vanificato dall’ignoranza della lingua; sviluppando tale concetto, la memoria della difesa evidenzia che vi sarebbero una violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 della Legge fondamentale) per effetto della ingiustificata disparità fra soggetti culturalmente inseriti nella collettività nazionale e persone non in possesso dello strumento linguistico necessario; una compressione non consentita del diritto alla difesa (art. 24), essendo precluso il gravame personale; una violazione dell’art. 111 novellato, venendo meno la garanzia del “giusto” processo con menomazione dell’effettività del contraddittorio e del diritto all’assistenza linguistica, riconosciuto “nel processo” senza esclusione della fase dell’impugnazione.
Le eccezioni di incostituzionalità sono manifestamente infondate. Infatti gli artt. 109 e 143 C.P.P., come sopra interpretati, non stabiliscono affatto una discriminatoria soppressione del diritto a proporre impugnazione personale nei confronti dello straniero, o in genere del soggetto non in grado di usare la lingua italiana; questi ben potrà esercitare tale diritto superando la difficoltà espressiva con l’assistenza di un proprio interprete e, se indigente, gli sarà consentito riversare il relativo carico economico sullo Stato attraverso l’istituto del patrocinio pubblico, come stabilito dalla ricordata sentenza 20.6/6.7.2007 n. 254 della Corte Costituzionale. Si tratta, dunque, di una difficoltà di mero fatto, del resto comune a varie categorie di persone, anche di madrelingua italiana, come gli analfabeti o gli inabili per difetto fisico a redigere un atto scritto (che, analogamente, avranno necessità di ricorrere all’assistenza di uno scrivano). In proposito va anche considerato che l’impugnazione, in quanto esercizio di una facoltà personale e discrezionale, postula un rapporto fiduciario fra l’impugnante e coloro che lo assistono nella redazione dell’atto, non compatibile con la designazione dell’interprete da parte dell’ufficio. E’ bensì vero che la ricerca dell’assistente e le operazioni di traduzione possono richiedere tempi in concreto incompatibili con il rispetto dei termini per impugnare, tanto più quando l’interessato si trovi in stato di detenzione; ma, se si tratta di una situazione obbiettivamente insuperabile e perciò riconducibile al concetto di forza maggiore, soccorre l’istituto della restituzione in termini di cui all’art. 175, co. 1, C.P.P. (cfr. Cass., Sez. V, 12.5/22.6.1995, Alegre, in tema di mancata percezione tempestiva del termine per proporre opposizione a decreto penale, dovuta ad ignoranza linguistica).
Ne segue che non vi è violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché nessuna discriminazione è stabilita dal codice di rito nei confronti degli alloglotti quanto al diritto di impugnazione, e le disparità denunciate investono situazioni di mero fatto; non vi è, conseguentemente, violazione del diritto alla difesa, al giusto processo e al contraddittorio; neppure è violato l’art. 111 della Legge fondamentale nella parte relativa all’assistenza dell’interprete che, per un atto personale e discrezionale come l’impugnazione, è connotata da un rapporto fiduciario soddisfatto con la scelta da parte dell’interessato, salvo ricorso, in caso di indigenza, al patrocinio pubblico per sostenere le spese resesi necessarie.
Vanno quindi affermati i seguenti principi:
E’ inammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 C.P.P., presentata da soggetto legittimato che non conosca la lingua italiana, considerato che l’avente diritto, esercitando una facoltà personale e discrezionale, può valersi dell’assistenza di un proprio interprete di fiducia, a spese dello Stato in caso di indigenza;
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 109 e 143 C.P.P. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, poiché le norme denunciate non limitano i diritti alla difesa, all’impugnazione ed alla parità delle parti dei soggetti che non conoscono la lingua italiana, e le disparità prospettate investono situazioni di mero fatto per le quali, se del caso, possono essere attivati appositi rimedi (patrocinio pubblico, restituzione in termini).
Ciò considerato, il ricorso per cassazione qui proposto, siccome corredato da motivi non in lingua italiana, va dichiarato inammissibile; l’inammissibilità, a norma dell’art. 585, co. 4, C.P.P., si estende ai motivi nuovi.
Quanto all’applicazione dell’art. 616 C.P.P., è stato talora affermato che al mancato accoglimento del ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello favorevole all’estradizione non consegue la condanna alle spese; queste non sarebbero classificabili nella categoria delle spese processuali vere e proprie, ma in quella più generica delle spese per l’amministrazione della giustizia, considerata la natura prevalentemente amministrativa del procedimento che prevede, solo in via incidentale, una fase di garanzia giurisdizionale il cui esito positivo, peraltro, non rende obbligatoria l’estradizione, affidata esclusivamente alla scelta politico-amministrativa del Ministro della Giustizia (Cass., Sez. VI, 18.11.1998/19.1.1999, Frederik); ciò anche in forza di disposizioni sulla ripartizione delle spese fra gli Stati contraenti contenute nei singoli trattati e, per quanto qui interessa, nell’art. 24 della Convenzione europea resa esecutiva con L. n. 300/1963 (“le spese derivanti dall’estradizione sul territorio della Parte richiesta saranno a carico di quest’ultima”; cfr. in proposito Cass., Sez. VI, 20.9/13.10.1995, Daimallah) nonchè dell’inquadramento dell’istituto nell’ambito dei rapporti interstatuali (Cass., Sez. VI, 9.1/24.2.1998, Mehanovich). Tale orientamento non sembra condivisibile, attesa la pacifica natura giurisdizionale del procedimento, nel quale l’estradando è parte, e quella di mezzo di impugnazione del ricorso per cassazione “anche per il merito” di cui all’art. 706 C.P.P.; ne segue che la sentenza di rigetto o di inammissibilità del gravame, esaurendo in via definitiva la fase incidentale di competenza dell’Autorità giudiziaria, determina la soccombenza del ricorrente, onde legittimamente ne viene disposta la condanna al pagamento delle spese della procedura (cfr., pure con riferimento a procedimento incidentale, Cass., Sez. Un., 5/20.7.1995, Galletto). Né d’altra parte l’esenzione dalle spese della parte privata può derivare dalla norma internazionale che regola esclusivamente i rapporti fra gli Stati contraenti (Cass., Sez. VI, 2/30.12.2004, Von Pinoci).
Il ricorrente non va invece condannato anche al pagamento di una somma alla Cassa delle ammende, non essendo ravvisabili – nei termini indicati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 7/13.6.2000 n. 186 – profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, attesa la condizione di straniero alloglotta e la scarna e non univoca elaborazione giurisprudenziale della specifica materia.
P . Q . M .
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Testo Completo: Sentenza n. 36541 del 26 giugno 2008 - depositata il 24 settembre 2008
(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore P. Bardovagni)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza deliberata l’undici ottobre 2007, depositata il giorno successivo e notificata con traduzione in lingua russa il 7.12.2007, la Corte d’Appello di Roma, sull’opposizione dell’interessato, all’esito della trattazione camerale ex art. 704 C.P.P. ha dichiarato sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta di estradizione formulata dal Governo della Federazione Russa nei confronti di AKIMENKO Oleg, cittadino di quello Stato, colpito da mandato di cattura emesso dal Tribunale di Kaliningrad e tratto in Italia in arresto provvisorio – convalidato nei termini, con applicazione della custodia cautelare - il 22.2.2007. L’imputazione è di truffa (appropriazione indebita mediante inganno e abuso di fiducia, con gravissimo danno), reato previsto dall’art. 159 del Codice penale russo e sanzionato – nell’ipotesi aggravata contestata - con la reclusione fino ad un massimo di 10 anni in aggiunta alla pena ordinaria della multa, perché, dopo avere, in qualità di direttore generale della s.r.l. MASLOPRODUCT di Kaliningrad, firmato l’otto ottobre 2003 un contratto di apertura di credito con la banca “Moskovski Munitsipalny Bank” di Kaliningrad facendo uso di false certificazioni sulle disponibilità della ditta, avrebbe sottratto la relativa, ingente somma dal conto bancario.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta in forza della Convenzione europea di Parigi del 13.12.1957, resa esecutiva con L. 30.1.1963 n. 300, sia per l’aspetto formale (regolarità della documentazione prodotta) sia perché i fatti addebitati integravano reati comuni dolosi sanzionati con la restrizione oltre l’anno secondo le leggi penali di entrambi gli Stati, non vi era duplicazione di giudizio, non ricorrevano ipotesi di esclusione nè emergevano elementi per ritenere che l’incolpato fosse oggetto di persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità od opinioni politiche. L’esistenza della Convenzione escludeva ulteriori accertamenti in punto di gravità indiziaria (art. 705, co. 1, C.P.P.).
Il 12.12.2007 AKIMENKO dichiarava, nelle forme di cui all’art. 123 C.P.P., di proporre ricorso per cassazione presentando contestualmente conclusioni e motivi manoscritti, costituiti da un foglio in lingua italiana, con il quale chiede che venga riconosciuta l’insussistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione, e da un testo in lingua russa, cui rinvia per l’esposizione delle ragioni poste a fondamento della richiesta.
Con motivi aggiunti a firma dell’Avv. Pietro Asta, pervenuti il 28.3.2008, si chiedeva preliminarmente il differimento dell’udienza camerale fissata dinanzi alla VI Sezione di questa Corte onde produrre documentazione comprovante circostanze dedotte nello scritto in lingua straniera e consentire l’audizione personale del ricorrente, il quale non aveva ricevuto avviso dell’udienza dinanzi alla Corte d’Appello nella sua madrelingua e, pur avendo richiesto di presenziare, immediatamente prima della data fissata era stato trasferito nelle carceri di Iglesias e non tradotto. Venivano allegati - oltre ad una versione italiana a cura di parte dei motivi presentati in russo, di cui si sollecitava la formale traduzione ai sensi dell’art. 143 C.P.P. - vari documenti (in parte da tradurre), a sostegno dell’assunto di un’attività persecutoria delle autorità dello Stato d’origine, ostativa all’estradizione ex art. 698 C.P.P. perchè dovuta alle convinzioni politiche del soggetto ed al notevole contributo finanziario erogato alla stampa di opposizione. Ulteriori doglianze investono la genericità dell’imputazione, l’insussistenza di indizi di colpevolezza (posto fra l’altro che AKIMENKO era l’unico socio della MASLOPRODUKT), la mancata assunzione delle necessarie informazioni ex art. 704, co. 2, C.P.P. e l’inosservanza della detta disposizione nella parte in cui prescrive che venga “sentito il difensore” onde, non essendo comparsi i due fiduciari, se ne sarebbe dovuto nominare a tal fine uno d’ufficio.
Con ordinanza 31.3/10.4.2008 la VI Sezione ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, osservando che AKIMENKO non è in grado di parlare e comprendere l’italiano; la dichiarazione di ricorso con rinvio ai motivi redatti nella lingua madre va perciò intesa come implicita richiesta di traduzione. Non si ritiene che il ricorrente fosse obbligato a valersi di un interprete di parte, perché la ricerca dell’ausiliario e la versione italiana richiedono necessariamente un certo tempo – tanto più in stato di detenzione – mentre l’interessato ha diritto a fruire dell’intero termine concesso dalla legge per proporre impugnazione. Inoltre, l’esercizio di un potere di impulso processuale impone che il contenuto dell’atto sia asseverato da persona prescelta ed investita con le cautele e gli obblighi di cui all’art. 146 C.P.P.. La conclusione che l’autorità giudiziaria sia tenuta a procedere “ex officio” alla traduzione - come del resto per ogni scritto proveniente dall’imputato e acquisito agli atti, se redatto in lingua straniera - è peraltro in contrasto con il principio in precedenza affermato dalla stessa VI Sezione, secondo il quale l’assistenza gratuita di un interprete sarebbe garantita dall’art. 143 C.P.P. all’imputato che non conosce la lingua italiana soltanto per gli atti cui egli sia chiamato a partecipare e per quelli attraverso i quali viene messo in grado di comprendere l’accusa formulata contro di lui, e non invece per quelli che decida di redigere nel proprio interesse, come l’impugnazione, per i quali deve provvedere alla traduzione a sua cura. Di qui la necessità dell’intervento delle Sezioni Unite per prevenire il contrasto di giurisprudenza.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza camerale.
Con memoria depositata il 19.6.2008 l’Avv. Asta rappresenta che l’interpretazione dell’art. 143 C.P.P. prospettata dall’ordinanza di rimessione è l’unica che assicuri all’alloglotta l’effettività del diritto di impugnazione, e quindi la sola compatibile con la Costituzione e con gli obblighi internazionali assunti dallo Stato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite è dunque la seguente: “se sia ammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera, presentata da persona legittimata a proporla che non conosca la lingua italiana”.
Con specifico riferimento ad un atto di impulso processuale di parte privata il quesito ha trovato solo sporadica attenzione in dottrina e in giurisprudenza. Ai fini della soluzione è opportuna una previa ricognizione della portata e della reciproca interferenza delle fonti normative concernenti in generale l’uso della lingua nel processo e in particolare i mezzi apprestati per tutelare l’alloglotta e rendere comprensibili al giudice atti legittimamente assunti o acquisiti in idioma diverso da quello normativamente previsto.
L’art. 109 C.P.P. – sotto la rubrica “lingua degli atti” – prescrive che “gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana” (co. 1). Fanno seguito disposizioni dirette ad assicurare il bilinguismo in territori “dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta” (co. 2); infine, è stabilito che le prescrizioni dell’articolo “si osservano a pena di nullità” (co. 3). Tale disciplina non è priva di rilevanza costituzionale (Corte Cost. 20.1/11.2.1982 n. 28), rispondendo in definitiva al fondamentale principio che la sovranità appartiene al popolo (art. 1), in nome del quale viene esercitata la giurisdizione (art. 101), attraverso organi precostituiti per legge e, nei casi da questa previsti, con diretta partecipazione popolare (art. 102); ciò presuppone l’uso del mezzo di espressione comune alla collettività nazionale o, nei territori di insediamento, alle sue componenti minoritarie, tanto più in un ordinamento caratterizzato da almeno tendenziale pubblicità dell’attività giurisdizionale.
Il controllo diffuso ed estrinseco da parte dell’opinione pubblica, connaturale all’ordinamento democratico – che postula la celebrazione del processo nella lingua usata dalla collettività del luogo di svolgimento – va peraltro reso compatibile con l’inviolabile diritto alla difesa quando un soggetto processuale non sia in grado di comprendere o parlare l’idioma usato nel giudizio. A tal fine il co. 3 dell’art. 111 della Costituzione – come novellato dalla Legge costituzionale 23.11.1999 n. 2 – stabilisce: “la legge assicura che la persona accusata di un reato… sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”. La specifica disciplina della materia è contenuta nell’art. 143 C.P.P., secondo il quale “l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa” (co. 1); seguono al co. 2 disposizioni concernenti la traduzione di atti e la ricezione di dichiarazioni di qualsiasi soggetto processuale alloglotta (“l’autorità procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile ovvero la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana. La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tale caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita dall’interprete”). La normativa nazionale si uniforma a quella dell’art. 6, co. 3, della Convenzione europea, secondo la quale “ogni accusato ha diritto soprattutto a: a) essere informato, nel più breve tempo, in una lingua che comprende e in maniera dettagliata, del contenuto dell’accusa elevata contro di lui;… e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza” (cfr. anche le sovrapponibili previsioni dell’art. 14 del Patto internazionale ratificato con la L. n. 881/1977); ciò in coerenza con la direttiva contenuta nell’art. 2, I periodo, della legge 16.2.1987 n. 81, di delega per l’emanazione del codice di rito (“il codice di procedura penale deve… adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”).
Come evidenziato dalla Corte Costituzionale (sentenza 12/19.1.1993 n. 10) tale complesso normativo, in quanto diretta attuazione del diritto inviolabile di ogni persona garantito dall’art. 25, co. 2, della Legge fondamentale, va interpretato nel senso di conferire alle disposizioni che all’esatta comprensione dell’accusa danno esplicita garanzia un significato espansivo diretto a renderle, nei limiti del possibile, concrete ed effettive. Ne segue che l’opera dell’interprete nominato dal giudice – in funzione di assistenza all’imputato, e non soltanto di collaborazione con l’autorità giudiziaria, a differenza di quanto avveniva sotto il codice abrogato (art. 326) – investe non solo gli atti orali cui il soggetto partecipa od assiste, ma anche quelli scritti a lui diretti, in quanto rispondenti alla finalità generale di garantire a chi non intende o non parla la lingua italiana di “comprendere l’accusa” e “seguire il compimento degli atti cui partecipa”. Questa ampia finalizzazione comporta che l’art. 143 C.P.P. sia suscettibile di un’applicazione estesa a tutte le ipotesi in cui l’imputato, ove non potesse giovarsi dell’ausilio dell’interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale. D’altra parte, essendo la norma in questione contenuta nel titolo dedicato alla “traduzione degli atti” e non distinguendo il diritto processuale penale, a differenza di quello civile, la figura del traduttore da quella dell’interprete, il diritto all’interprete ben può essere fatto valere e fruito ogni volta che l’imputato abbia, ai fini sopra indicati, necessità della traduzione in lingua conosciuta di atti a lui indirizzati, sia scritti che orali. Fra questi sono compresi l’atto introduttivo del giudizio (cfr. Corte Costituzionale n. 10/1993 citata; Cass., Sez. Un., 31.5/23.6.2000, Jakani), quello che dispone la custodia cautelare (Cass., Sez. Un., 24.9.2003/9.2.2004, Zalagaitis) - una volta accertata l’ignoranza della lingua e con eventuale slittamento della decorrenza del termine per l’impugnazione fino a che non sia conseguita la conoscenza del contenuto del provvedimento - e l’avviso della conclusione delle indagini preliminari (Cass., Sez. Un., 26.9/28.11.2006, Cieslinski e altri). Tali approdi interpretativi appaiono sostanzialmente conformi a quelli raggiunti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale è dovuta la traduzione di tutti quei documenti o atti del procedimento la cui comprensione è necessaria all’imputato per beneficiare di un equo processo (28.11.1978, Luedicke e altri c. Germania), sicchè il diritto all’assistenza dell’interprete non si limita alle dichiarazioni rese nel corso del giudizio, ma neppure esige la traduzione scritta di tutti gli elementi di prova o i documenti ufficiali della procedura, essendo sufficiente che permetta all’imputato di conoscere il caso che lo riguarda e di difendersi, consentendogli in particolare di fornire al giudice la propria versione dei fatti (19.12.1989, Kamasinski c. Austria; 24.2.2005, Husain c. Italia nonché, in grande Camera, 18.10.2006, Hermi c. Italia).
E’ altresì certo che, ai fini del miglior svolgimento dell’attività difensiva (ad es., per acquisire conoscenza integrale degli atti del procedimento, verificare l’esattezza della traduzione ufficiale, stendere difese scritte, interloquire con difensori, consulenti di parte, investigatori), l’imputato può valersi di interpreti di sua scelta, diversi da quello nominato d’ufficio (il quale è bensì tenuto a prestargli assistenza, ma soltanto in ambito endoprocessuale ed in posizione di obbiettiva “neutralità” circa il risultato della traduzione, in conformità all’obbligo di “far conoscere la verità” assunto con il conferimento dell’incarico ai sensi dell’art. 146, co. 2, C.P.P.). Poiché detta facoltà della parte privata rientra nella garanzia costituzionale del diritto alla difesa e al giusto processo, la Corte Costituzionale, con sentenza 20.6/6.7.2007 n. 254, ha riconosciuto l’illegittimità dell’art. 102 D.P.R. 30.5.2002 n. 115, nella parte in cui non prevede l’inclusione dei relativi oneri economici fra quelli coperti dall’ammissione dell’interessato non abbiente al patrocinio a spese dello Stato.
Le garanzie finora esaminate, espressamente riconosciute al soggetto incolpato di un reato, si estendono all’estradando: il legislatore nazionale ha infatti avuto cura di precisare (art. 697, co. 1, C.P.P.) che non è ammessa, ai fini dell’esecuzione di una condanna o di un provvedimento restrittivo della libertà personale, la consegna di un soggetto ad uno Stato estero in via breve e con modalità non garantite (in particolare, in forma apparente di espulsione), dovendo farsi a tal fine ricorso esclusivo alla procedura di estradizione regolata dalla legge e connotata – quando non vi sia consenso dell’interessato, assistito dal difensore – da una fase giurisdizionale in contraddittorio, nelle forme previste dagli artt. 701 e seguenti del codice di rito, che danno fra l’altro attuazione alla risoluzione 21.5.1975 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, concernente il diritto dell’estradando ad essere sentito dall’autorità giudiziaria. Ne segue che la persona di cui è richiesta l’estradizione, se ignora la lingua italiana, ha diritto all’assistenza dell’interprete al fine di esporre le proprie ragioni e partecipare coscientemente agli atti che ne richiedono la presenza; ciò non solo per la già evidenziata forza espansiva delle previsioni dell’art. 143 C.P.P. e perchè l’estradando è, nello Stato richiedente, “accusato” di un reato, ma in primo luogo perchè, altrimenti, le garanzie apprestate dalla legge sarebbero nei suoi confronti del tutto vane ed illusorie (v. anche, nella medesima prospettiva garantistica, Corte Cost. 8/16.6.2000 n. 198, 8/22.6.2000 n. 227 e 8/21.7.2004 n. 257, in tema di espulsione).
Passando all’esame del quesito circa la validità dell’impugnazione personale corredata da motivi in lingua straniera, questa Corte - che in tema di estradizione conosce anche del merito (art. 706 C.P.P.) - è anzitutto chiamata a verificare se il soggetto comprenda la lingua italiana, poiché ciò escluderebbe in radice l’assistenza dell’interprete, in quanto né la lettera, né la “ratio” dell’art. 143 C.P.P. e delle norme correlate configurano un diritto indiscriminato dell’alloglotta, sol perché tale, all’uso nel processo della propria lingua (cfr. la già citata decisione di queste Sezioni Unite in proc. Jakani). In proposito la legge (ultimo periodo del co. 1 dell’art. 143 C.P.P.) fissa una presunzione relativa di conoscenza della lingua italiana da parte del cittadino; per lo straniero stabilisce la presunzione opposta – ai fini dell’invito ad eleggere domicilio nello Stato, ma con criterio ragionevolmente suscettibile di generale utilizzazione – soltanto se residente o dimorante all’estero (art. 169, co. 3, C.P.P.). Fuori di queste ipotesi, qui non rilevanti, è pertanto compito del giudice valutare caso per caso, alla stregua delle emergenze processuali e di eventuali allegazioni dell’interessato, se questi abbia una adeguata conoscenza della lingua del processo. Ora, la costante assistenza dell’interprete negli atti cui AKIMENKO ha partecipato, o che gli sono stati notificati, è da ritenere indicativa della mancanza di un sufficiente livello di comprensione della lingua italiana.
Ciò chiarito, sulla questione controversa in diritto si rinvengono due filoni interpretativi contrapposti.
Un primo orientamento afferma l’inammissibilità dell’impugnazione redatta in lingua straniera, non idonea a comunicare al giudice cui è rivolto il gravame le questioni devolute e le ragioni di doglianza con il veicolo linguistico usuale e prescritto, il che determina carenza degli elementi indicati dall’art. 581 C.P.P., con le conseguenze di cui al successivo art. 591; il diritto a conoscere nella propria lingua gli atti processuali al fine di predisporre la difesa non implica assistenza linguistica in attività difensive rimesse a scelte discrezionali ma vincolate nella forma, né consente, in particolare, di derogare alle tassative prescrizioni concernenti le impugnazioni, la cui traduzione dovrà semmai avvenire a cura di parte. Più in generale, la traduzione d’ufficio degli atti è assicurata dall’italiano nella diversa lingua conosciuta dal soggetto, ma non viceversa (Cass., Sez. VI, 20.6/18.10.1994, P.G. in proc. Bruzzaniti ed altri). Alla stessa conclusione perviene Cass., Sez. VI, 15.10/20.11.2002, Demiri, sul rilievo che la posizione dell’imputato il quale non conosce la lingua italiana è regolata dal co. 1 dell’art. 143 C.P.P.; il diritto all’assistenza ivi previsto, siccome inequivocamente inteso a consentire la comprensione dell’accusa e degli atti del procedimento cui sia chiamato a partecipare, non si estende a quegli atti - quale l’impugnazione - che l’imputato decida di redigere nel proprio interesse, dei quali può e deve procurare privatamente la necessaria traduzione.
L’opposto orientamento è rappresentato da una decisione (Cass., Sez. II, 15.12.1972/5.4.1973, Ervin e altro) pronunciata ancora nel vigore del codice di rito del 1930, nel quale era pure contenuta all’art. 137, co. 1, la prescrizione – sostanzialmente ripresa dai co. 1 e 3 dell’attuale art. 109 – che “tutti gli atti del procedimento penale devono essere compiuti in lingua italiana a pena di nullità”. La vicenda processuale presentava analogie con quella qui in esame (dichiarazione di ricorso degli imputati detenuti ricevuta a verbale in lingua italiana; motivi stesi in tedesco). La sentenza muove da una prospettiva storico-evolutiva di superamento degli orientamenti nazionalistici del passato (avvenuta abrogazione dell’art. 1 R.D.L. 15.10.1925 n. 1796, che stabiliva una sorta di irricevibilità di “istanze, atti, ricorsi e scritture in genere” non compilati in italiano, la cui presentazione si considerava “come non avvenuta” e inidonea ad interrompere la decorrenza dei termini processuali; introduzione di norme di tutela delle minoranze con gli statuti speciali delle Regioni mistilingui; intensificate forme di cooperazione internazionale; sopravvenuta ratifica della Convenzione europea, che si uniforma a principi già affermati con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10.12.1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite); osserva che, se la “trama verbalistica” del processo è necessariamente “strutturata nella lingua dello Stato che esercita la giurisdizione” anche per quanto riguarda gli atti di parte - i quali saranno recepiti, ove espressi in idioma diverso per ignoranza linguistica, attraverso la traduzione, eseguita con le formalità prescritte ad opera di soggetti abilitati che ne assicurino la fedele corrispondenza di contenuto – non vi è motivo di inibire l’uso della propria lingua a chi non è in grado di esprimersi in quella del processo ai fini dell’esercizio del fondamentale e indefettibile diritto alla difesa. In particolare, quanto all’impugnazione, una volta portata a conoscenza del giudice nelle forme prescritte la volontà di attivare il gravame questi è tenuto a recepire, con il mezzo previsto dalla legge, e valutare le ragioni di doglianza espresse in lingua straniera. Raggiunto con la traduzione lo scopo dell’atto, la nullità (di ordine relativo) prevista dall’art. 137 rimane sanata.
Nella stessa prospettiva si colloca l’ordinanza che ha rimesso la questione all’esame delle Sezioni Unite, del cui percorso argomentativo si è già dato conto.
Queste Sezioni Unite condividono il primo orientamento, con le precisazioni che seguono. Come rilevato dall’ordinanza di rimessione, fra gli “atti del procedimento penale” vanno compresi, quando producono effetti processuali, quelli di parte, e fra essi indubbiamente le impugnazioni, in quanto atti “propulsivi” del giudizio ad un grado ulteriore. Nel caso dell’alloglotta l’assistenza diretta di un interprete nominato d’ufficio nella fase di redazione del gravame non è presa in considerazione dall’orientamento giurisprudenziale qui disatteso; trattasi infatti, come esattamente sostenuto nelle decisioni di segno opposto, di attività non riconducibile alle finalità di comprensione, informazione e partecipazione garantite dal co. 1 dell’art. 143 C.P.P.. La traduzione ad opera dell’ufficio è invece concepita come adempimento successivo al deposito dell’impugnazione scritta in lingua straniera; viene in proposito richiamato il principio affermato da Cass., Sez. VI, 27.2/26.4.1995, Ascione, e Sez. III 19.3/13.5.2003, Cronk (cfr. anche Sez. V 20.2/31.5.2001, Rainer) secondo il quale l’obbligo di usare la lingua italiana si riferisce, per letterale previsione dell’art. 109 C.P.P., agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al procedimento medesimo, dei quali il giudice deve disporre la traduzione ai sensi dell’art. 143, co. 2, C.P.P.. Tale affermazione può essere condivisa nella sostanza (avvertendo peraltro che la citazione giurisprudenziale è indiscriminatamente riferita all’acquisizione documentale a fini di prova ed agli atti propriamente processuali) ma non rileva riguardo alla questione qui in esame. Infatti, con la pronuncia che chiude un grado di giudizio il procedimento acquisitivo degli elementi ed atti necessari alla decisione si esaurisce, e l’impugnazione è l’atto ulteriore che va “compiuto” per realizzare il passaggio al grado successivo. Essa, quindi, deve avere i requisiti prescritti a pena di inammissibilità ed essere come tale “riconoscibile”; la redazione in lingua straniera anche di una soltanto delle parti costitutive elencate nell’art. 581 C.P.P. non consente di “individuarla” come gravame, non essendone percepibile il significato attraverso il mezzo espressivo voluto dalla legge, tanto più in un sistema processuale che vieta al pubblico ufficiale ricevente di utilizzare personali conoscenze linguistiche (arg. ex co. 3 dell’art. 143 C.P.P.), del resto non estensibili a tutte le innumerevoli forme di linguaggio e scrittura esistenti. D’altra parte, la tesi qui criticata presuppone che l’atto venga recepito e produca i suoi effetti solo per mezzo e all’esito della disposta traduzione, da eseguirsi “nei termini stabiliti dallo stesso ufficio” giudiziario competente a ricevere l’impugnazione (v. punto 8 dell’ordinanza di rimessione). Ciò implicherebbe, quindi, un possibile slittamento dei termini di cui all’art. 585 C.P.P., entro i quali il gravame deve essere perfezionato a pena di decadenza, cioè una manipolazione “additiva” della norma certamente non consentita al giudice ordinario.
Resta da stabilire se l’applicazione del co. 2 dell’art. 143 C.P.P. non possa essere “recuperata” in forza della sua ultima parte, secondo la quale l’alloglotta “che vuole… fare una dichiarazione” ha diritto all’assistenza dell’interprete e può compiere l’atto dichiarativo anche depositando uno scritto da tradurre a cura dell’ufficio e allegare al verbale. Tale linea interpretativa è peraltro preclusa dal fatto che il codice attuale (art. 581), soppressa la previgente distinzione tra il momento dichiarativo e quello espositivo, concepisce l’impugnazione come un atto scritto unitario, che deve essere presentato (artt. 123, 582) o spedito (art. 583) nella sua integrità all’organo competente a riceverlo, e non già recepito a verbale.
Si deve quindi concludere che l’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 C.P.P., in quanto non “riconoscibile” come atto del procedimento dotato dei requisiti formali e sostanziali necessari per attivare il gravame e individuarne oggetto e ragioni, soggiace alla specifica sanzione di inammissibilità in tal caso prevista (art. 591, co. 1 lett. c), indipendentemente dalla previsione di nullità (sanabile) degli atti processuali in genere, ove compiuti in lingua diversa dall’italiano.
Resta da stabilire se tale ricostruzione del tessuto normativo sia compatibile con la Costituzione. L’ordinanza di rimessione ha in proposito evidenziato che, nei confronti dell’alloglotta, il diritto a proporre personalmente l’impugnazione rimarrebbe vanificato dall’ignoranza della lingua; sviluppando tale concetto, la memoria della difesa evidenzia che vi sarebbero una violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 della Legge fondamentale) per effetto della ingiustificata disparità fra soggetti culturalmente inseriti nella collettività nazionale e persone non in possesso dello strumento linguistico necessario; una compressione non consentita del diritto alla difesa (art. 24), essendo precluso il gravame personale; una violazione dell’art. 111 novellato, venendo meno la garanzia del “giusto” processo con menomazione dell’effettività del contraddittorio e del diritto all’assistenza linguistica, riconosciuto “nel processo” senza esclusione della fase dell’impugnazione.
Le eccezioni di incostituzionalità sono manifestamente infondate. Infatti gli artt. 109 e 143 C.P.P., come sopra interpretati, non stabiliscono affatto una discriminatoria soppressione del diritto a proporre impugnazione personale nei confronti dello straniero, o in genere del soggetto non in grado di usare la lingua italiana; questi ben potrà esercitare tale diritto superando la difficoltà espressiva con l’assistenza di un proprio interprete e, se indigente, gli sarà consentito riversare il relativo carico economico sullo Stato attraverso l’istituto del patrocinio pubblico, come stabilito dalla ricordata sentenza 20.6/6.7.2007 n. 254 della Corte Costituzionale. Si tratta, dunque, di una difficoltà di mero fatto, del resto comune a varie categorie di persone, anche di madrelingua italiana, come gli analfabeti o gli inabili per difetto fisico a redigere un atto scritto (che, analogamente, avranno necessità di ricorrere all’assistenza di uno scrivano). In proposito va anche considerato che l’impugnazione, in quanto esercizio di una facoltà personale e discrezionale, postula un rapporto fiduciario fra l’impugnante e coloro che lo assistono nella redazione dell’atto, non compatibile con la designazione dell’interprete da parte dell’ufficio. E’ bensì vero che la ricerca dell’assistente e le operazioni di traduzione possono richiedere tempi in concreto incompatibili con il rispetto dei termini per impugnare, tanto più quando l’interessato si trovi in stato di detenzione; ma, se si tratta di una situazione obbiettivamente insuperabile e perciò riconducibile al concetto di forza maggiore, soccorre l’istituto della restituzione in termini di cui all’art. 175, co. 1, C.P.P. (cfr. Cass., Sez. V, 12.5/22.6.1995, Alegre, in tema di mancata percezione tempestiva del termine per proporre opposizione a decreto penale, dovuta ad ignoranza linguistica).
Ne segue che non vi è violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché nessuna discriminazione è stabilita dal codice di rito nei confronti degli alloglotti quanto al diritto di impugnazione, e le disparità denunciate investono situazioni di mero fatto; non vi è, conseguentemente, violazione del diritto alla difesa, al giusto processo e al contraddittorio; neppure è violato l’art. 111 della Legge fondamentale nella parte relativa all’assistenza dell’interprete che, per un atto personale e discrezionale come l’impugnazione, è connotata da un rapporto fiduciario soddisfatto con la scelta da parte dell’interessato, salvo ricorso, in caso di indigenza, al patrocinio pubblico per sostenere le spese resesi necessarie.
Vanno quindi affermati i seguenti principi:
E’ inammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 C.P.P., presentata da soggetto legittimato che non conosca la lingua italiana, considerato che l’avente diritto, esercitando una facoltà personale e discrezionale, può valersi dell’assistenza di un proprio interprete di fiducia, a spese dello Stato in caso di indigenza;
E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 109 e 143 C.P.P. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, poiché le norme denunciate non limitano i diritti alla difesa, all’impugnazione ed alla parità delle parti dei soggetti che non conoscono la lingua italiana, e le disparità prospettate investono situazioni di mero fatto per le quali, se del caso, possono essere attivati appositi rimedi (patrocinio pubblico, restituzione in termini).
Ciò considerato, il ricorso per cassazione qui proposto, siccome corredato da motivi non in lingua italiana, va dichiarato inammissibile; l’inammissibilità, a norma dell’art. 585, co. 4, C.P.P., si estende ai motivi nuovi.
Quanto all’applicazione dell’art. 616 C.P.P., è stato talora affermato che al mancato accoglimento del ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello favorevole all’estradizione non consegue la condanna alle spese; queste non sarebbero classificabili nella categoria delle spese processuali vere e proprie, ma in quella più generica delle spese per l’amministrazione della giustizia, considerata la natura prevalentemente amministrativa del procedimento che prevede, solo in via incidentale, una fase di garanzia giurisdizionale il cui esito positivo, peraltro, non rende obbligatoria l’estradizione, affidata esclusivamente alla scelta politico-amministrativa del Ministro della Giustizia (Cass., Sez. VI, 18.11.1998/19.1.1999, Frederik); ciò anche in forza di disposizioni sulla ripartizione delle spese fra gli Stati contraenti contenute nei singoli trattati e, per quanto qui interessa, nell’art. 24 della Convenzione europea resa esecutiva con L. n. 300/1963 (“le spese derivanti dall’estradizione sul territorio della Parte richiesta saranno a carico di quest’ultima”; cfr. in proposito Cass., Sez. VI, 20.9/13.10.1995, Daimallah) nonchè dell’inquadramento dell’istituto nell’ambito dei rapporti interstatuali (Cass., Sez. VI, 9.1/24.2.1998, Mehanovich). Tale orientamento non sembra condivisibile, attesa la pacifica natura giurisdizionale del procedimento, nel quale l’estradando è parte, e quella di mezzo di impugnazione del ricorso per cassazione “anche per il merito” di cui all’art. 706 C.P.P.; ne segue che la sentenza di rigetto o di inammissibilità del gravame, esaurendo in via definitiva la fase incidentale di competenza dell’Autorità giudiziaria, determina la soccombenza del ricorrente, onde legittimamente ne viene disposta la condanna al pagamento delle spese della procedura (cfr., pure con riferimento a procedimento incidentale, Cass., Sez. Un., 5/20.7.1995, Galletto). Né d’altra parte l’esenzione dalle spese della parte privata può derivare dalla norma internazionale che regola esclusivamente i rapporti fra gli Stati contraenti (Cass., Sez. VI, 2/30.12.2004, Von Pinoci).
Il ricorrente non va invece condannato anche al pagamento di una somma alla Cassa delle ammende, non essendo ravvisabili – nei termini indicati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 7/13.6.2000 n. 186 – profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, attesa la condizione di straniero alloglotta e la scarna e non univoca elaborazione giurisprudenziale della specifica materia.
P . Q . M .
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.