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venerdì 27 novembre 2009

INGIURIA E DIFFAMAZIONE - RADIOCOMUNICAZIONI - TELEVISIONE IN GENERE

INGIURIA E DIFFAMAZIONE - RADIOCOMUNICAZIONI - TELEVISIONE IN GENERE

In tema di diffamazione a mezzo mass media, nel caso di talk show televisivi finalizzati alla rivisitazione di gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e di processo, la divulgazione di ipotesi investigative o di meri sospetti di inquirenti - veri o presunti che siano – rimasti privi di riscontro nelle indagini, sono tali da nuocere alla reputazione ed alla onorabilità delle persone che siano state ingiustamente sospettate, integrando il reato di cui all’art. 595, commi 1 e 2, c.p. La Cassazione chiarisce che, in tale ipotesi, non rilevi ai fini dell’operatività dell’esimente putativa del diritto di cronaca ex art. 51 c.p., la circostanza che il giornalista abbia attinto la notizia dalle agenzie di stampa, senza aver assolto all’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento riposto in buona fede sulla fonte.

Cass. pen. Sez. V Sent., 17/07/2009, n. 45051

Testo completo

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIZZUTI Giuseppe - Presidente

Dott. COLONNESE Andrea - Consigliere

Dott. BEVERE Antonio - Consigliere

Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere

Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto il 13.3.2009 da:

avv.prof. SEVERINO PAOLA, difensore di V.B., nato a (OMISSIS), e di F.V., nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 5 novembre 2008. Letto il ricorso e la sentenza impugnata;

Letta la memoria difensiva depositata dall'avv. Luigi Di Maio nell'interesse delle parti civili;

Sentita la relazione del Consigliere Dott. Paolo Antonio Bruno;

Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dott. Oscar Cetrangolo, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Sentito, altresì, l'avv. Maurizio Bellicosa, sostituto processuale dell'avv. Severino, che ne ha chiesto, invece, l'accoglimento.

Svolgimento del processo
F.V. e V.B., nelle qualità di seguito specificate, erano chiamati a rispondere, innanzi al Tribunale di Roma dei seguenti addebiti: la F. del reato di cui all'art. 595 c.p., commi 1, 2 e 3, perchè, quale autrice di un servizio giornalistico apparso nel corso della trasmissione televisiva (OMISSIS), sul delitto dell'(OMISSIS), offendeva la reputazione di M.P. nonchè dei di lui figli M.M. e M.D., accostando l'omicidio di F.D.T.A., rispettivamente moglie e madre dei predetti, a misteriosi conti miliardari, ad una relazione extraconiugale della vittima con un funzionario dei servizi segreti, ad un desiderio della vittima di divorziare, ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi, nonchè affermando che M.P. era stato sospettato dell'omicidio della moglie ma scagionato grazie all'analisi del DNA e che era stato accusato da una donna ( P.E., come si ricava dalle immagini) che avrebbe fornito ai magistrati nuovi elementi "consegnando anche gli abiti che l'uomo avrebbe indossato il giorno dell'omicidio"), omettendo di riferire che la P. era stata condannata per diffamazione a mezzo stampa in danno del M.; con le aggravanti dell'attribuzione di un fatto determinato e di avere arrecato offesa con un mezzo di ampia diffusione; il V. del delitto di cui all'art. 595 c.p., L. 6 agosto 1990, n. 223, art.30, comma 4, e L. 8 febbraio 1948, n. 41, art. 13, perchè, quale responsabile della trasmissione televisiva (OMISSIS) e delegato al controllo, non impediva la programmazione del servizio di cui al capo precedente e quindi la commissione del delitto di diffamazione, con attribuzione di un fatto determinato, in danno di M.P., M.M. e M.D..

Con sentenza del 21 giugno 2005, il Tribunale assolveva gli imputati dalla anzidette contestazioni con la formula dell'insussistenza del fatto.

Pronunciando sul gravame proposto, anche agli effetti penali, dalle parti civili avverso l'anzidetta pronuncia, la Corte di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, ha ribaltato il giudizio assolutorio, affermando la penale responsabilità degli imputati per i reati loro rispettivamente ascritti e, con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, li condannava alla pena di Euro 1.000,00, di multa ciascuno, con i doppi benefici per entrambi. Li condannava, altresì, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da determinare in separata sede.

Avverso la pronuncia anzidetta il difensore degli imputati ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

Motivi della decisione
1. - Il primo motivo di ricorso denuncia inosservanza delle norme processuali, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), in riferimento alla violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ai sensi degli artt. 521 e 522 c.p.p., nonchè il riferimento alla violazione del principio devolutivo dell'appello, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 1.

Deduce, al riguardo, che la Corte di Appello di Roma aveva utilizzato, per l'affermazione di penale responsabilità, parti della registrazione televisiva diverse dalla scheda giornalistica predisposta dalla F., in quanto relative al dibattito svoltosi successivamente in studio tra gli ospiti della serata, nonostante il capo d'imputazione fosse circoscritto al contenuto della stessa scheda ed il gravame delle parti civili avesse riguardato tale specifico oggetto, sul quale, pertanto, avrebbe dovuto restare circoscritto l'ambito di cognizione del giudice di appello.

Il secondo motivo eccepisce mancanza e manifesta illogicità di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), in ordine all'affermazione di penale responsabilità nonchè inosservanza od erronea applicazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento ai criteri ed alle condizioni per il riconoscimento, in tema di diffamazione a mezzo radiotelevisione, dell'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, ai sensi degli artt. 51 e 595 c.p.. Argomenta, in proposito, che la trasmissione televisiva era stata rispettosa dei canoni di giudizio che devono presiedere al riconoscimento dell'esimente in parola, soprattutto in ragione della verità della notizia e tenuto conto che dallo sviluppo del servizio televisivo risultava, per implicito, che le ipotesi investigative non avevano trovato fondamento.

Il terzo motivo deduce inosservanza delle norme processuali, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione all'inammissibilità, ex art. 591 c.p.p., dell'appello della parte civile, ai sensi dell'art. 577 c.p.p., nei confronti dell'imputato V.B., ovvero mancanza e manifesta illogicità di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), nonchè inosservanza od erronea applicazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 595 c.p., e L. 6 agosto 1990, n. 223, art. 30, relativamente all'affermazione di responsabilità del ricorrente V.. In primo luogo, l'appello era inammissibile non potendo estendersi all'ipotesi di cui alla L. n. 223 del 1999, art. 30, comma 3, che, di fatto, era stata contestata all'imputato, al di là del riferimento all'art. 595 c.p.. In secondo luogo, anche ove l'imputazione potesse intendersi riferita al concorso nel reato di diffamazione, la motivazione sul punto era carente od assolutamente inidonea, risolvendosi nel mero, sintetico, inciso secondo cui il responsabile e conduttore.... - nemmeno in diretta -... ne risponde autonomamente come concorrente nel reato di diffamazione per "non aver impedito" il fatto e non per omesso controllo dell'articolo, figura questa estranea alle trasmissioni televisive di intrattenimento giornalistico.

2. - Ragioni d'ordine logico e di economia espositiva impongono di trattare, in linea preliminare, le questioni di rito, oggetto della prima e della quarta censura, siccome potenzialmente capaci - in caso di riconosciuta fondatezza - di definire in limine il giudizio, stante il loro carattere pregiudiziale.

La prima censura, relativa alla pretesa violazione del principio di contestazione, è priva di fondamento.

Non è, infatti, condivisibile l'argomento difensivo secondo cui il giudizio di colpevolezza espresso dal giudice di appello si sia affidato anche ad elementi estranei all'ambito fattuale del capo d'imputazione, segnatamente allo sviluppo del dibattito televisivo seguito alla presentazione della scheda predisposta dalla giornalista F..

Invero, l'insieme motivazionale della pronuncia impugnata non da adito a dubbi di sorta sulla piena coincidenza dell'ambito cognitivo ed argomentativo della Corte distrettuale con il contenuto della contestazione. Il solo riferimento alle affabulazionì degli esperti, ospiti della trasmissione, era infatti legato, nella struttura espositiva, alle ipotesi degli immancabili oscuri depistaggi, pure ventilate a margine dell'irrisolto giallo dell'(OMISSIS), senza però che le stesse costituissero novità rispetto al caleidoscopico scenario investigativo prospettato nel capo d'imputazione.

Non vi è stata, dunque, alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nè, tanto meno, del principio devolutivo del gravame. D'altronde, non risulta - ne è stata dedotta - alcun'apprezzabile violazione del diritto di difesa, al cui presidio è, notoriamente, preposto il precetto della contestazione.

La terza censura eccepisce - con esclusivo riferimento alla posizione del V. - l'inammissibilità del gravame delle parti civili, sub specie dell'improponibilità dello strumento di cui all'art. 577 c.p.p. (avuto riguardo al periodo di vigenza, anteriormente alla sua abrogazione), in ordine alla fattispecie colposa dell'omesso controllo dei responsabili delle trasmissioni televisive di cui alla L. n. 223 del 1990, art. 30, comma 3, che sarebbe stata, di fatto, contestata nella fattispecie in oggetto, al di là del riferimento nominalistico all'art. 30, comma 4, della stessa normativa.

L'eccezione difensiva è infondata, in quanto non corrisponde alla realtà sostanziale dell'addebito mosso al V., come riconosciuto fondato dal giudice di appello. Ed invero, balza evidente che il fatto contestato era, univocamente, formulato in termini di diffamazione ai sensi dell'art. 595 c.p., nella peculiare contestualizzazione del fatto - reato in seno alle trasmissioni televisive, così come previsto dal richiamato art. 30, comma 4. Tale contestazione è stata ritenuta fondata dalla Corte di merito che ha ravvisato la responsabilità dell'imputato in veste di concorrente nel reato di diffamazione per "non aver impedito" il fatto e non già per omesso controllo dell'articolo (figura questa estranea alle trasmissioni televisive di intrattenimento giornalistico).

Il rilievo di non aver impedito, nella parte incriminata, la messa in onda del dibattito televisivo, nonostante la trasmissione fosse in differita - come tale suscettibile di agevole verifica nell'esercizio dei poteri che, funzionalmente, competono al responsabile ed al delegato al controllo - è stato, correttamente, assunto come elemento sintomatico della fattispecie di concorso nel delitto di diffamazione aggravata. E, in ordine a tale ipotesi delittuosa, la parte civile, al tempo del gravame, aveva ancora il potere di impugnativa, anche agli effetti penali, a mente dell'art. 577 c.p.p., poi abrogato.

La seconda censura attiene, invece, al merito della vicenda, contestando, in punto di diritto, il diniego del reclamato esercizio del diritto di cronaca, ai sensi dell'art. 51 c.p..
All'esame della doglianza giova premettere un sintetico riferimento alla vicenda sostanziale ed al suo sviluppo procedurale.

Nel corso della trasmissione televisiva (OMISSIS) dedicata all'omicidio di F.D.T.A., noto alla cronaca nera come delitto dell'(OMISSIS) (dalla località in cui venne commesso), nell'ambito di una serie di inchieste sui più noti gialli irrisolti, il conduttore aveva sottoposto al dibattito in studio, come sempre affidato ad ospiti appositamente invitati, un servizio giornalistico (o scheda) predisposto da F.V.. In esso, si passavano in rassegna anche le variegate ipotesi a suo tempo formulate a margine del clamoroso evento delittuoso, accostandolo all'esistenza di misteriosi conti miliardari all'estero, alla relazione extraconiugale che la vittima avrebbe intrattenuto con un funzionario dei servizi segreti, al desiderio della stessa di divorziare dal marito M.P., ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi. Si era pure affermato che dell'omicidio era stato sospettato proprio il marito, poi scagionato grazie all'esame del DNA, accusato da una donna (tale P.E.) che, peraltro, aveva fornito agli inquirenti nuovi elementi, consegnando anche gli abiti che l'uomo avrebbe indossato il giorno dell'omicidio, senza però riferire che per tali dichiarazioni la stessa P. era stata, poi, dichiarata colpevole del reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del M..

A seguito di querela proposta dallo stesso M. e dai suoi figli, che avevano ritenuto diffamatorio il contenuto della trasmissione televisiva, il Tribunale di Roma, pur dando atto dell'incompletezza della notizia e dell'approssimazione dell'approccio giornalistico ad una vicenda di particolare complessità, aveva dubitato della valenza diffamatoria, osservando che, a tutto concedere, sarebbe stato operante nella fattispecie l'esimente dell'art. 51 c.p., ricorrendone tutti i presupposti, ossia l'interesse pubblico, la verità del fatto narrato e la continenza del modo espositivo.

Di tutt'altro avviso si è detta, poi, la Corte di merito, che ha, invece, rilevato l'obiettiva valenza diffamatoria del servizio. Al riguardo, ha osservato che dal verbale di trascrizione della trasmissione non risultava la doverosa precisazione che nessuna delle ipotesi prospettate a margine dell'omicidio, ciascuna di per sè diffamatoria, avesse trovato risconto nelle indagini. Infatti, la sola non conferma riguardava - piuttosto che le piste seguite - il solo fantomatico test DNA in persona del M. (o sull'abito asseritamente fornito dalla P.), in ordine al quale, peraltro, non era stata acquisito in atti alcun elemento di certezza.

Era certo, di contro, che non tutte le situazioni prospettate costituivano ipotesi investigative, in quanto alcune di esse (quali la presunta relazione adulterina od il desiderio della vittima di divorziare) erano solo congetture giornalistiche, peraltro storicamente smentite dalle persone informate nelle interviste giornalistiche prodotte dalle parti offese.

Era certo, altresì, che la P., che avrebbe riferito dell'abito del M. consegnato agli inquirenti, era stata condannata per diffamazione e della relativa sentenza, passata in giudicato, la giornalista F. non aveva dato atto.

Altre notizie, invece, venivano da precedenti servizi giornalistici o da notizie di agenzia, in ordine alle quali era mancato il benchè minimo controllo da parte dei responsabili della trasmissione.

In conclusione, la morte della nobildonna era stata gratuitamente accostata ad una serie di ipotesi oggettivamente diffamatorie, in un contesto oscuro ed inquietante di servizi segreti o depistaggi, con consequenziale pregiudizio per l'onore e la reputazione dei familiari.

Non ricorrevano i presupposti dell'esimente del diritto di cronaca, per mancanza di verità dei fatti riferiti, sub specie della mancata rigorosa verifica della attualità, al momento della trasmissione, delle variegate e più o meno immaginifiche ipotesi investigative ventilate durante le fasi (precedenti) delle indagini, senza costrutto condotte per anni.

3. - La lettura del giudice di appello appare formalmente e giuridicamente corretta e, in quanto tale, si sottrae al sindacato di legittimità.

Sulla base di congrua ed appagante motivazione, la Corte distrettuale ha ribaltato il giudizio di prime cure, dando specifico conto - confutandone la fondatezza - degli elementi argomentativi sulla base dei quali era maturato il diverso convincimento del primo giudice. In esito a tale percorso logico - argomentativo è pervenuta alla conclusione che la rappresentazione televisiva avesse carattere obiettivamente diffamatorio vuoi per intrinseco contenuto, correlato all'accostamento dell'omicidio ad inquietanti scenari, vuoi per l'incompletezza dell'informazione. Tale ultimo rilievo è stato coerentemente legato alla parzialità della notizia, alla quale non aveva fatto riscontro la necessaria precisazione che le ipotesi coltivate non avevano trovato alcuna conferma, al mancato approfondimento delle stesse ipotesi ed all'omesso rigoroso controllo delle fonti, che avrebbero consentito alla giornalista di prendere atto - e riferire - delle smentite che le stesse avevano aliunde trovato o delle pronunce dell'autorità giudiziaria che, con decisione irrevocabile, ne avevano stigmatizzato l'inconsistenza.

Il rilievo anzidetto, che esaltava il carattere oggettivamente denigratorio del servizio, è poi, correttamente, refluito sul diverso versante delle valutazioni riguardanti i presupposti dell'esimente del diritto di cronaca, al cui riconoscimento ostava proprio il difetto della verità della notizia, apprezzabile per la già rilevata incompletezza dell'informazione, con l'ulteriore profilo critico della mancanza di attualità della stessa, posto che si trattava di mere ipotesi e congetture che non avevano trovato alcun seguito investigativo.

Ulteriore profilo di lesività avrebbe potuto - e può ora ravvisarsi - nella violazione del diritto all'oblio, che, peculiare espressione del diritto alla riservatezza - costituzionalmente presidiato in quanto primaria ed indeclinabile esigenza della persona - ha trovato di recente significativi riconoscimenti nella giurisprudenza civile di questa Corte Suprema (cfr., tra le altre, Cass. sez. 3^, 9.4.1998, n. 3679). La nozione recepita dal giudice civile è nei termini descrittivi di giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata.

In siffatta accezione il diritto può avere un riflesso - sia pure indiretto - anche in ambito penale, siccome strettamente correlato al bene giuridico della reputazione, specificamente tutelato dalla norma incriminatrice della diffamazione. In particolare, con riferimento all'ipotesi della diffamazione a mezzo mass media, è risaputo che la libertà di stampa, precipua espressione del diritto di manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 Cost., comporta la compressione dei beni giuridici della riservatezza, dell'onore e della reputazione, che attenendo alla sfera dei diritti della persona, hanno pur essi dignità costituzionale (artt. 2 e 3 Cost.). Attualità della notizia ed attualità dell'interesse pubblico costituiscono risvolti di una delle condizioni alle quali è subordinato l'esercizio del diritto di cronaca o di critica che, sostanziando quel presidio costituzionale, giustifica il sacrificio degli anzidetti beni giuridici ed integra, sul piano penale, la speciale esimente di cui all'art. 51 c.p..
Il decorso del tempo può attenuare l'attualità della notizia e far scemare, al tempo stesso, anche l'interesse pubblico all'informazione.

Può anche verificarsi, nondimeno, che all'effetto di dissolvenza dell'attualità della notizia non faccia riscontro l'affievolimento dell'interesse pubblico o che - non più attuale la notizia - riviva, per qualsivoglia ragione, l'interesse alla sua diffusione.

Insomma, può non esservi corrispondenza o piena sovrapposizione cronologica tra attualità della notizia ed attualità dell'interesse pubblico alla divulgazione.

Nondimeno, in quest'ultima ipotesi, il persistente o rivitalizzato interesse pubblico, che - in costanza di attualità della notizia - doveva equilibrarsi con il diritto alla riservatezza, all'onore od alla reputazione, deve trovare - quando la notizia non è più attuale - un contemperamento con un nuovo diritto, quello all'oblio, come sopra delineato, anche nell'ulteriore accezione semantica di legittima aspettativa della persona ad essere dimenticata dall'opinione pubblica e rimossa dalla memoria collettiva.

In una rappresentazione plastica delle dinamiche ed interrelazioni tra i diritti coinvolti può tornare utile l'immagine rappresentativa della meccanica della molla compressa che si riespande ove venga meno la forza che la costringeva. I beni della riservatezza e della reputazione compressi dall'interesse pubblico all'informazione, quando la notizia è attuale, tendono a riespandersi con il trascorrere del tempo quando va, via via, scemando l'interesse pubblico. Ciò avviene, però, anche grazie alla forza propulsiva del diritto all'oblio progressivamente maturatosi.

La riattualizzazione dell'interesse pubblico può giustificare una nuova compressione di quei beni, ma deve trovare un nuovo punto di equilibrio con il diritto all'oblio, la cui maturazione, nel frattempo, può aver lenito o rimarginato l'offesa arrecata alla reputazione dalla notizia a suo tempo diffusa ovvero, addirittura, ricostituito la stessa reputazione ove questa, per gravità della vicenda, fosse stata distrutta dalla legittima informazione.

La ricerca di un giusto bilanciamento delle opposte esigenze è particolarmente delicata nell'ipotesi in cui si tratti di notizie relative ad indagini riguardanti un grave episodio delittuoso, che, a suo tempo, abbia destato enorme impressione nell'opinione pubblica e che, al pari di tanti altri, sia rimasto senza un colpevole.

Anche se in sede di legittimità sono sconsigliate generalizzazioni esemplificative, proprio in quanto le enunciazioni di principio in materia penale risentono fortemente delle obiettive peculiarità del fatto, può comunque tentarsi una succinta schematizzazione, avendo ovviamente di mira le esigenze connesse alla cognizione dei fatti oggetto del presente giudizio.

Riferire, a distanza di tempo, dello sviluppo di indagini di polizia giudiziaria deve ritenersi consentito in una ricostruzione storica dell'evento, pure a distanza di tempo e persino in chiave di critica all'operato degli inquirenti ed al modo in cui è stata svolta l'inchiesta. Non solo, ma secondo un fatto di costume oggi invalso e, comunemente, accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale od a quella processuale. Iniziative di siffatto genere riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento nell'utenza e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace, nondimeno, per forza di persuasione, di sovrapporsi - ove acriticamente recepita dagli utenti - a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili.

Ma in tali casi l'obbligo deontologico del giornalista deve parametrarsi a criteri di rigore ancora maggiore dell'ordinario.

Non gli è, infatti, consentito, neppure in chiave retrospettiva, riferire di ipotesi investigative o di meri sospetti degli inquirenti (veri o presunti che siano) senza precisare, al tempo stesso, che quelle ipotesi o sospetti sono rimasti privi di riscontro.

Le ipotesi degli investigatori che non abbiano trovato conforto nelle indagini sono il nulla assoluto, cui deve essere inibita ogni rilevanza esterna in quanto la loro divulgazione, monca del relativo esito, è capace di nuocere alla reputazione ed all'onorabilità delle persone che siano state (ingiustamente) sospettate. Allo stesso modo - potrebbe dirsi - in cui non hanno dignità esterna e meritano di essere relegate nel dimenticatoio o definitivamente cestinate le bozze rivedute e corrette di un'opera letteraria o le riprese non riuscite di un grande film, tagliate in sede di montaggio.

Ove esigenze di ricostruzione storica od artistica lo richiedano e permanga - o si riattualizzi - l'interesse pubblico alla relativa propalazione, la notizia deve essere accompagnata dalla doverosa avvertenza che le tesi investigative sono rimaste a livello di mera ipotesi di lavoro in quanto non hanno trovato alcuna conferma o, addirittura, sono state decisamente smentite dallo sviluppo istruttorio.

Parimenti, può essere lecito riferire della qualità di indagato che una persona abbia assunto nell'ambito di una determinata inchiesta penale, ma - ove l'attività di indagine preliminare non abbia portato ad un epilogo tale da consentire il rinvio a giudizio e si sia conclusa con un decreto di archiviazione - il giornalista, che rievochi quella vicenda, è obbligato a darne conto, avendo il dovere giuridico di rendere una informazione completa e di effettuare, all'uopo, tutti i necessari controlli per verificare quale approdo abbia mai avuto quella determinata indagine.

Alla stessa stregua, egli può riferire di determinate attività investigative, ma è tenuto a comunicarne l'esito, perchè dire che una persona è stata perquisita, controllata, o sottoposta a particolari esami (quali, ad esempio, DNA, stub o quant'altro) - nel quadro di un'indagine per gravi fatti delittuosi - senza precisare che quegli accertamenti hanno avuto riscontro negativo significa ledere l'immagine e la reputazione della persona interessata ed il suo diritto all'oblio, come sopra enunciato.

Una notizia monca od incompleta è capace, infatti, di ledere l'onorabilità dell'interessato e la proiezione sociale della sua personalità. Solo la completezza dell'informazione può, infatti, consentire all'utente od al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore - o, semmai, di disvalore - su una data vicenda o su una determinata persona.

Quanto alle asserite fonti giornalistiche genericamente richiamate dagli imputati, l'avere acriticamente attinto ad esse od alle agenzie di stampa, senza ogni doverosa attività di verifica, non può giustificarne l'operato neanche a livello putativo, alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice secondo cui la scriminante putativa dell'esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto pubblicato, il giornalista abbia assolto all'obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, alfine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l'affidamento riposto in buona fede sulla fonte, e, quando si intende pubblicare la notizia di un fatto lesivo dell'altrui reputazione, la verifica, per una deontologica esigenza di garanzia, va fatta quando ciò è possibile, interpellando la persona che dalla pubblicazione risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni (cfr. Cass. Sez. 5^, 9.3.2006, n. 25003, Calabrese).

Nel caso di specie, correttamente il giudice di appello ha ritenuto che gli imputati, nelle rispettive qualità, siano venuti meno ai doveri deontologici con ciò arrecando un danno ingiusto al M. ed ai suoi familiari, pur essi lesi dall'offesa alla memoria della loro congiunta, la cui tragica scomparsa è stata gratuitamente accostata a fatti riservati di vita familiare od a scenari oscuri ed inquietanti, quali rivenienti da un coacervo di mere congetture investigative o giornalistiche rimaste prive di riscontro o persino smentite da sentenza divenuta irrevocabile.

4. - Per quanto precede il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo, anche in ordine alla condanna dei ricorrenti alla rifusione, in solido, delle spese di parte civili, che appare congruo ed equo determinare come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali nonchè in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquidata in Euro 3.000,00 comprensivi di onorari, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 17 luglio 2009.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2009


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