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mercoledì 18 marzo 2009

REATI CONTRO LA PERSONA - TRATTAMENTO CHIRURGICO - MANCATA ACQUISIZIONE DEL CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE

REATI CONTRO LA PERSONA - TRATTAMENTO CHIRURGICO - MANCATA ACQUISIZIONE DEL CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE - INTERVENTO ESEGUITO NEL RISPETTO DEI PROTOCOLLI E DELLE LEGES ARTIS E CON ESITO FAUSTO - RILEVANZA PENALE EX ARTT. 582 E 610 C.P. - ESCLUSIONE
Le Sezioni Unite hanno escluso la rilevanza penale – con riguardo sia al reato di cui all’art. 582 cod. pen., sia a quello di cui all’art. 610 cod. pen. – della condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo.

Testo Completo:
Sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008 – depositata il 21 gennaio 2009 (Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli. Relatore A. Macchia)

Ritenuto in fatto

1. – (omissis) , ricoverata nel reparto di ginecologia dell’Ospedale di Cattolica, il 20 novembre 1997 fu sottoposta dal dott. (omissis) ad un intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a salpingectomia che determinò l’asportazione della tuba sinistra. Alla stregua della ricostruzione operata dai giudici del merito, l’intervento demolitorio risultò essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media; tuttavia, secondo l’assunto accusatorio, senza il consenso validamente prestato dalla paziente, informata soltanto della laparoscopia. Secondo i primi giudici, infatti, già in fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili l’evoluzione di tale intervento in operativo e l’elevata probabilità di asportazione della salpinge, la non opportunità dell’interruzione dell’intervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto dello stato di necessità, ai fini dell’acquisizione del consenso. L’omissione sarebbe stata da ascrivere, in ragione della elevata prevedibilità dell’intervento chirurgico, ad una scelta consapevole e volontaria dell’imputato e non a colpa. Peraltro, ad avviso del giudice di primo grado, ogni trattamento medico eseguito in assenza di un consenso valido e specifico, integrerebbe lesione della libertà, garantita dall’art. 32 della Costituzione, di autodeterminazione della persona circa le decisioni mediche che la riguardano, comprensiva della facoltà di promuovere un consulto o di scegliere altre strutture sanitarie. Ciò induceva pertanto il Tribunale di Rimini a qualificare il reato di lesioni personali volontarie aggravate, originariamente contestato al (omissis) come violenza privata, in ordine al quale ultimo l’imputato stesso veniva ritenuto colpevole e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, sostituita con la pena di euro 6.000,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Proposto appello da parte dell’imputato, la Corte di appello di Bologna, con sentenza del 5 febbraio 2007, ha reputato contraddittoria ed insufficiente la prova in ordine all’acquisizione del consenso informato della (omissis) ; sicché, esclusa, da un lato, la ricorrenza della esimente dello stato di necessità e respinta, dall’altro lato, la tesi difensiva secondo la quale è lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di espresso dissenso, ha rilevato l’intervenuta prescrizione del reato – così come qualificato nella sentenza di primo grado – revocando le statuizioni civili, disposte in quella stessa sentenza, stante l’assenza di una prova idonea circa la commissione del fatto.

2. – Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’imputato e della parte civile (omissis) . La parte civile si duole, in estrema sintesi, della revoca delle statuizioni civili, deducendo inosservanza di legge e vizi motivazionali, per essere stato a proprio avviso disatteso un dato fattuale certo ( l’omessa acquisizione del consenso informato, accertata attraverso la deposizione della persona offesa e dei suoi familiari, ritenuti dalla stessa Corte territoriale pienamente attendibili) con il ricorso ad una mera presunzione (quella desunta dalla «prassi informativa» cui ha fatto riferimento una infermiera) e ad un elemento sicuramente insufficiente (tratto dalla deposizione dell’aiuto medico). Nel ricorso proposto nell’interesse dell’imputato si deduce, quale primo motivo, vizio di motivazione in riferimento al mancato proscioglimento nel merito, giacchè, da un lato, andrebbe privilegiato l’orientamento che ritiene applicabile il secondo comma dell’art. 129 cod. proc. pen., anche nei casi in cui la prova della responsabilià sia insufficiente o contraddittoria; dall’altro, la mancata adozione di una formula di merito sarebbe in contrasto con la determinazione di revocare le statuizioni civili; infine – sottolinea il ricorso - i giudici dell’appello avrebbero omesso di fornire risposta adeguata circa la doglianza relativa alla esimente dello stato di necessità, quanto meno a livello putativo. Si lamenta, poi, mancata assunzione di una prova decisiva, in riferimento alla richiesta di assunzione di testi e consulenti, al fine di contrastare l’assunto relativo alla non ricorrenza – reale o putativa - della esimente dello stato di necessità, e si prospetta, infine, violazione di legge in riferimento alla laconica asserzione per la quale i giudici a quibus avrebbero disatteso la fondatezza dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale sarebbe lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di un espresso dissenso del paziente. Con successive, diffuse note, i difensori dell’imputato hanno svolto articolate deduzioni volte a contestare la sussistenza, nella ipotesi di specie, del reato di violenza privata e per ribadire, al contrario, la ricorrenza della scriminante dello stato di necessità.

3. – La Quinta Sezione penale di questa Corte, cui i ricorsi erano stati assegnati, avendo ravvisato la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sui temi coinvolti , ha rimesso, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen., a queste Sezioni Unite la decisione sui ricorsi medesimi, con ordinanza pronunciata il 1 ottobre 2008, ritenendo pregiudiziale la risoluzione del quesito se abbia o meno rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle “regole dell’arte” e con esito fausto. Quanto al primo aspetto – osserva la Sezione rimettente – si registrano due diversi orientamenti . Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente “informato” del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volontà del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico – allo stato del quadro normativo attuale – “legittimato” a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere “in radice” che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Quanto, poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l’esito dell’intervento sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui all’art. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo, invece, l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia – può assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata. Il tutto – conclude l’ordinanza di rimessione - non senza evocare la sussistenza di tesi intermedie, quale quella di ravvisare la sussistenza dell’indicato delitto nel caso di trattamento non chirurgico, o quella di ritenere che la violenza privata sia configurabile nella sola ipotesi di trattamento chirurgico eseguito in presenza di un espresso, libero e consapevole rifiuto del paziente.

Considerato in diritto

1. – Va preliminarmente dichiarata la inammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile. In esso, infatti, la ricorrente si è limitata a proporre una critica, che non ha riguardato la conformità o meno dei parametri di delibazione del compendio probatorio adottati dai giudici a quibus rispetto al modello legale, o la effettiva coerenza del tessuto argomentativo svolto sul punto nella sentenza impugnata, ma i risultati cui il motivato ragionamento probatorio ha condotto. In tal modo devolvendosi, quindi, a questa Corte, null’altro che un nuovo sindacato di merito, che le è precluso. La sentenza impugnata, infatti, ha più che congruamente dato conto delle ragioni per le quali, a fronte di variegate ricostruzioni testimoniali, tutte puntualmente delibate, sia sul piano della relativa attendibilità, che delle reciproche, contrapposte conferme, ha ritenuto nella sostanza non provata con certezza la circostanza che della possibile necessità di un intervento di asportazione della salpinge fosse stata adeguatamente resa edotta la paziente. Le censure prospettate si rivelano, pertanto, inconferenti. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue, pertanto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in euro mille, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

2. – Di diverso spessore sono, invece, le questioni che coinvolge il ricorso dell’imputato. L’enunciazione plurima e alternativa del quesito, sul quale queste Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi, evoca, infatti, già di per sè, pur nel circoscritto ambito della peculiare fattispecie che ha contrassegnato l’iter del procedimento, la varietà dei piani su cui occorre soffermarsi ed il delicato concatenarsi delle problematiche coinvolte. La questione da esaminare riguarda il quesito se abbia o meno rilevanza penale, sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali o di violenza privata, la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di valido consenso informato, ad un trattamento chirurgico, pure eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis e conclusosi con esito fausto. Si tratta di problematica antica, mai univocamente risolta, anche perché coinvolgente una gamma di questioni ad essa intimamente correlate, quali: il fondamento giuridico e di legittimazione della attività medico-chirurgica; il concetto di malattia che in relazione ad essa deve venire in rilievo; il valore che, nel sistema, occorre riconoscere al consenso informato del paziente, alla luce dei principi che, fra le altre, le fonti di rango costituzionale, legislativo e deontologico dettano al riguardo, prendendo in considerazione il bene della salute come diritto della persona. D’altra parte, le disposizioni dettate dal codice penale del 1930, anche a voler prescindere dai limiti insiti in un sistema punitivo precostituzionale, contrassegnato dalla peculiare visione derivante dall’assetto politico-istituzionale dell’epoca, si rivelano palesemente incongrue al fine di individuare equilibrate soluzioni atte a fornire risposta a tutte le esigenze di tutela che le varie ipotesi di fatto possono presentare. Non senza sottolineare, per altro verso, come il presidio penale non possa che profilarsi, nella platea dei possibili rimedi astrattamente ipotizzabili, quale extrema ratio, a fronte, ad esempio, di eventuali meccanismi sanzionatori alternativi, operanti sul terreno civilistico-risarcitorio o anche amministrativo-disciplinare. Ciò spiega, da un lato, l’ampio ventaglio di tesi dottrinarie e giurisprudenziali che si sono misurate sui vari aspetti della responsabilità del medico e sulla tematica del consenso informato: talora – è necessario riconoscerlo - con evidenti torsioni ermeneutiche, spintesi ai limiti estremi della compatibilità con il principio di tassatività che deve presiedere alla “costruzione” ed alla configurazione delle fattispecie penali; e, dall’altro lato, si chiarisce la ratio di fondo che ha sostenuto i tentativi – condotti anch’essi da giurisprudenza e dottrina – volti ad evitare , per un verso, eccessi di “penalizzazione” o di “burocratizzazione” della attività medica, ma al tempo stesso attenti a ricercare soluzioni ermeneutiche che si presentassero in linea con la (in sè condivisibile) intentio di non lasciare senza effettiva tutela condotte riguardabili come “dannose” da chi è stato sottoposto al trattamento sanitario: e ciò non necessariamente in ragione soltanto dell’esito infausto dello stesso. Soffermarsi, dunque, sulle più significative sentenze di questa Corte, per analizzarne le varie rationes e gli approdi cui le stesse sono pervenute a proposito dei numerosi “nodi” che la questione sottoposta a queste Sezioni unite coinvolge, rappresenta la ineludibile premessa, per focalizzare i temi sui quali è indispensabile fornire univoca risposta.

3. – La prima sentenza che si è soffermata ex professo sul tema del trattamento medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, è stata la nota sentenza Massimo (Cass., Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo), oggetto di diffusi rilievi, prevalentemente critici, svolti da larga parte della dottrina. Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta; sicchè egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. Aderendo, dunque, alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto la antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo. Da un lato, infatti, occorreva assegnare il dovuto risalto alla circostanza che l’art. 39 del codice di deontologia medica allora vigente stabiliva che il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico; dall’altro, doveva pure rammentarsi che, in tema di trattamento medico chirurgico, l’antigiuridicità della lesione provocata, poteva, indipendentemente dal consenso , essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione; negandosi al tempo stesso validità alla tesi secondo la quale quella attività rinverrebbe copertura in cause di giustificazione non codificate, riferite alla finalità, pur sempre terapeutica, perseguita dal chirurgo. Sottolineava la richiamata sentenza che «se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere l’ipotesi in cui esso sia consentito dall’ipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico, e l’esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art. 32, comma 2, Cost.), e che, a fortiori, il reato sussiste ove l’esito sia sfavorevole». Nel contrastare, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo la quale l’oggetto di tutela dell’art. 50 cod. pen. sarebbe limitato alla libertà di autodeterminazione, con conseguente possibilità di ritenere configurabile, in relazione al trattamento medico eseguito senza il consenso, il reato di cui all’art. 610 cod. pen., la medesima sentenza ha precisato che «la formulazione di ordine generale del principio sancito dalla norma, non autorizza l’esclusione della protezione del diritto alla integrità fisica (tra molti altri) e, semmai, soltanto il trattamento medico senza il consenso che pur sempre non cagioni lesioni potrebbe far ipotizzare fatti di violenza privata». A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass., Sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132), ove si è affermato che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessità, venga eseguita una operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne abbia determinato la morte, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè, per integrare quest’ultimo, si richiede che l’agente realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare una alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa. La disamina si concentra, dunque, essenzialmente sull’elemento soggettivo, giacchè «se è vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalità terapeutica) è irrilevante – non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni volontarie e percosse – è altrettanto vero che la formulazione dell’art. 584 cod. pen. (“atti diretti a”) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa, che l’elemento soggettivo richiesto per l’omicidio preterintenzionale, quanto all’evento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione quindi del dolo eventuale». D’altra parte – ha puntualizzato ancora la pronuncia in esame - se è vero che l’intentio del medico mal si concilia con l’atteggiamento di chi persegue sin dall’inizio una volontà lesiva, neppure sarebbe lecito affermare che il fine terapeutico escluda siffatta volontà, giacchè, in tale ipotesi, si presupporrebbe l’esistenza di un dolo specifico, al contrario non richiesto dalla norma. Al tempo stesso, soggiunge la sentenza, «affermare l’intenzionalità della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con l’esistenza della scriminante costituita dal consenso dell’avente diritto». Quanto, poi, all’elemento psicologico del reato di lesioni volontarie, la sentenza afferma che «si avrà l’elemento soggettivo del delitto di lesioni volontarie, in tutti i casi in cui il chirurgo, o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisca essendo conscio che il suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dell’integrità fisica o psichica del paziente. E poichè – afferma la richiamata pronuncia – l’omicidio preterintenzionale si configura anche se la condotta è diretta a commettere il delitto di percosse, non può escludersi, in astratto, anche se appare difficile immaginare il concreto verificarsi di queste ipotesi, che l’evento morte non voluto sia conseguente ad una condotta diretta, non a provocare una malattia nel corpo o nella mente, ma ad una condotta qualificabile come percossa». Alla luce di tale ricostruzione, il consenso del paziente verrebbe ad essere ricondotto nel novero delle scriminanti, che, ad avviso della dottrina prevalente, escludono la antigiuridicità della condotta; sicchè, sarebbe lecito l’assunto secondo il quale il consenso stesso «per un verso precluda la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, ma solo nel caso di consenso validamente espresso nei limiti dell’art. 5 cod. civ., per l’efficacia scriminante attribuita dall’art. 50 cod pen. al consenso della persona che può validamente disporre del diritto; per altro verso, che, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica, o nelle ipotesi previste dalla legge, il consenso non sia necessario». A sua volta, e sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere sussistente lo stato di necessità – che varrebbe ad escludere, anche nella ipotesi di dissenso espresso il dolo diretto di lesioni, posto che il medico, nell’intervenire malgrado il dissenso del paziente, mira comunque a salvaguardarne la vita e la salute poste in pericolo - «l’esplicito dissenso del paziente rende l’atto, asseritamente terapeutico, un’indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità, con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali». Puntualizza ancora la stessa sentenza, la circostanza che la condotta del medico sia orientata a tutelare la salute del paziente e non a cagionare menomazioni della sua integrità, fisica o psichica, permette di «escludere l’intenzionalità della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso dell’intervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o anche soltanto per prevenire pericoli futuri». In tale ultima ipotesi – che assume uno specifico interesse ai fini dell’odierno scrutinio - la medesima sentenza ritiene non configurabile il reato di cui all’art. 610 cod. pen., giacchè una simile costruzione rinverrebbe un «ostacolo difficilmente superabile nella previsione della necessità che la condotta dell’agente consista in violenza o minaccia. Quest’ultima sembra proprio da escludere, mentre la violenza potrebbe forse ipotizzarsi nei soli casi di dissenso espresso del paziente al trattamento chirurgico». L’asse delle riflessioni sembra in parte mutare nella sentenza Sez. IV, 27 marzo 2001, n. 36519, Cicarelli, anche se la portata delle affermazioni che vi compaiono risulta fortemente condizionata dalle peculiarità del caso di specie, nel quale ad un sanitario si addebitava, fra l’altro, di aver praticato un tipo di anestesia diverso da quello preferibile secondo la lex artis, ma per il quale il paziente aveva revocato il proprio consenso. In particolare, si evidenzia come la liceità della condotta del medico, che si caratterizza per le finalità terapeutiche che ne contraddistinguono l’agere, non possa trovare «significanza solo nel consenso entro ovvero oltre la categoria di cui all’art. 50 c.p., ma in coerenza con il principio da esso enunciato». Dunque, «l’agire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volontà di costui, salvo l’imminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di configurare più fattispecie di reato, quali violenza privata (art. 610 c.p., la violenza essendo insita nella violazione della contraria volontà), lesione personale dolosa (art. 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.)». Ciò che rileva è la violazione del divieto di manomissione del corpo dell’uomo e, quindi, «la violazione consapevole del diritto della persona a preservare la sua integrità fisica nell’attualità – come è ora, a nulla valendo, in simile situazione, il rilievo che questa possa essere, eventualmente, migliorata – e il rispetto della sua determinazione a riguardo del suo corpo», in aderenza al principio personalista della nostra Costituzione, nella specie contrassegnato dagli artt. 2 e 32, secondo comma. Donde l’assunto per il quale «il medico chirurgo non può manomettere l’integrità fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso». Nella sentenza Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822, Firenzani, trova eco, in campo penale, la tesi – già da tempo affermatasi nella giurisprudenza civile – secondo la quale l’attività medica rinverrebbe la propria autolegittimazione dagli artt. 13 e 32 della Costituzione, giacchè «sarebbe riduttivo [...] fondare la legittimazione della attività medica sul consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.) che incontrerebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.c., risultando la stessa di per sè legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato»; ferma restando la necessità del consenso debitamente informato del paziente, anch’esso costituzionalmente presidiato (cfr, fra le tante, Cass., Sez. III civ., 25 novembre 1994, n. 10014; Sez. III civ., 15 gennaio 1997, n. 364, nonchè, più di recente, Sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748; Sez. III civ., 28 novembre 2007, n. 24742; Sez. III civ., 15 settembre 2008, n. 23676). Nell’affermare gli identici principi, la sentenza Firenzani sottolinea che la «legittimità in sè dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico», afferendo, esso, alla libertà morale del soggetto e dalla sua autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dall’art. 13 Cost. Non sarebbe dunque configurabile, in capo al medico, un “diritto di curare” come espressione di una posizione soggettiva qualificata, derivante dalla abilitazione all’esercizio della professione, giacchè essa, per potersi estrinsecare, comporta di regola il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario, salvo i casi di trattamento obbligatorio ex lege, o le ipotesi di incapacità a prestare il consenso o di stato di necessità. Pertanto «la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo».
Quanto, poi, alle ipotesi delittuose di carattere doloso astrattamente configurabili, le stesse potranno rinvenirsi negli artt. 610, 613 e 605 cod. pen., nel caso di trattamento terapeutico non chirurgico; nel caso, invece, di intervento chirurgico, il reato ipotizzabile è quello previsto dall’art. 582 cod. pen., perchè «qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito “fausto”, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano l’elemento oggettivo di detto reato, ledendo l’integrità corporea del soggetto», avuto riguardo al diritto di ciascuno di privilegiare il proprio stato attuale. «Il criterio di imputazione dovrà essere, invece, di carattere colposo – conclude la sentenza – qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso». La medesima linea prosegue, con ulteriori apporti argomentativi, anche nella sentenza della Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446, P.G. in proc. Volterrani, nella quale si afferma il principio secondo il quale in tema di attività medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui all’art. 3 della legge 28 marzo 2001, n. 145, con la quale è stata ratificata la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorchè l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte. In tale ultima ipotesi – ha puntualizzato la sentenza – qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non – nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all’art. 582 cod. pen. Infatti, l’attività strumentale posta in essere dal chirurgo – quale l’incisione della cute – è priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando null’altro che «un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell’obiettivo principale dell’intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge». Tale attività si inserirebbe dunque «a pieno titolo, nell’esercizio dell’azione terapeutica in senso lato, che corrisponde all’alto interesse sociale di cui si è detto, interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall’art. 32 della Costituzione della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo sviluppo ed il perfezionamento degli organismi,delle strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso questa azione, ove correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità, anche quando abbia un esito infausto».
A proposito, poi, della sussistenza – nel caso di specie – della scriminante dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., la stessa pronuncia rileva come nella pratica sanitaria, in genere, e di quella chirurgica, in specie, salvo le ipotesi in cui non ricorra l’intento di tutela della salute propriamente intesa, l’attività stessa sarebbe «sempre obbligata, per non dire forzata. Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non opera per passare il tempo o sperimentare le sue capacità: lo fa perchè non ha scelta, perchè quello è l’unico giusto modo di salvare la vita del paziente o almeno migliorane la qualità». Donde l’assunto per il quale sarebbe ravvisabile uno stato di necessità ontologicamente intrinseco alla attività terapeutica, con la conseguenza che «quando il giudice del merito riconosca in concreto il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica, deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di liceità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell’imputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera». La giurisprudenza più recente sembra abbandonare le posizioni più estreme – fra quelle sin qui passate in rassegna - per collocarsi in linea con i principi codificati nelle massime, per così dire, intermedie. Così, nella sentenza della Sez. VI, 14 febbraio 2006, n. 11640, Caneschi, si ribadisce il principio secondo cui «l’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di cui all’art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento»; derivandone da ciò che la mancanza o la invalidità del consenso «determinano la arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo». Più articolato, anche se non perviene ad approdi sostanzialmente innovativi, si presenta il percorso motivazionale che caratterizza la sentenza della Sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335, p.c. in proc. Huscer, ove si ribadisce, in massima, che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso, il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè la finalità curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva della integrità fisica della persona offesa invece necessaria per l’integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584 cod. pen. Dunque, il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato. Il medico, infatti, di regola e al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare il proprio consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen.), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il consenso, per legittimare il trattamento terapeutico, deve essere informato, cioè espresso a seguito di una informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o dell’intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e la puntualizzazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte, che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve sempre essere rispettata dal sanitario. Peraltro da tutto ciò «non può farsi discendere la conseguenza che dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni volontarie», giacchè il contenuto dell’elemento soggettivo di tali reati non è di norma configurabile rispetto alla attività del medico, mentre «il consenso eventualmente invalido perchè non consapevolmente prestato non può ex se importare l’addebito a titolo di dolo». Il medesimo ordine di idee è stato infine ribadito anche dalla sentenza Sez. IV, 24 giugno 2008, n. 37077, Ruocco, intervenuta, peraltro, su una ipotesi di prescrizione di farmaci off label: vale a dire, la somministrazione di medicinali per finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai farmaci stessi. In tale sentenza si è, da un lato, confermato il fondamento costituzionale del criterio di disciplina della relazione medico-malato, ed è stato, dall’altro lato, ancora una volta escluso che dalla mancanza di valido consenso possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie, o, nel caso di morte, di omicidio preterintenzionale. E ciò perchè il sanitario si trova ad agire con una finalità curativa «che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni»; salvo che si versi in situazioni anomale e distorte, «nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale, per scopi esclusivamente scientifici». La valutazione penalistica del comportamento del medico, che abbia cagionato un danno per il paziente, non subisce variazioni a seconda che l’attività sia stata svolta con o in assenza del consenso: «il giudizio sulla sussistenza della colpa e quello sulla causalità tra la condotta colposa e l’evento dannoso non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o non il consenso informato del paziente». Da tutto ciò il corollario conclusivo, secondo il quale il consenso informato del paziente alla somministrazione del trattamento sanitario non può costituire, ove lo stesso trattamento abbia cagionato delle lesioni, un elemento per affermare la responsabilità a titolo di colpa di quest’ultimo, a meno che la mancata sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (sulla libertà di autodeterminazione del paziente, come limite al dovere medico di intervenire, v. Cass., Sez. IV, 4 luglio 2005, n. 38852, p.m. in proc. Del Re; Cass., Sez. IV, 23 gennaio 2008, n. 16375, p.c. in proc. Di Domenico. Per una posizione volta a privilegiare la possibilità di risolvere i casi in cui l’atto medico è affetto da vizi del consenso, facendo ricorso agli istituti della cosiddetta colpa impropria, attraverso la utilizzazione delle «categorie dell’erronea supposizione della causa di giustificazione (art. 59, c. 4, c.p.) e dell’eccesso colposo nella causa stessa (art. 55 c.p.)», v. Cass., Sez. V, 16 settembre 2008, n. 40252, Beretta). 4. – Dalla disamina testè compiuta emerge, dunque, come primo dato di riflessione, il sostanziale recepimento in sede penale della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione della attività medica, la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell’avente diritto, come definita dall’art. 50 cod. pen., quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo messo in luce la circostanza che il bene della salute è tutelato dall’art. 32, primo comma, della Costituzione, «non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo» (sentenza n. 356 del 1991), che impone piena ed esaustiva tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), in quanto «diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati» (sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del 1979). Il diritto ai trattamenti sanitari è dunque tutelato come diritto fondamentale nel suo «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, protetta dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto» (v., fra le altre, sentenze n. 432 del 2005, n. 233 del 2003, n.252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999, n. 267 del 1998). Anche al di fuori di tale nucleo, d’altra parte, il diritto a trattamenti sanitari «è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato alla attuazione che il legislatore ordinario ne dà, attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento». Ciò comporta che, al pari di ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, il diritto a trattamenti sanitari diviene per il cittadino «pieno e incondizionato» nei limiti in cui lo stesso legislatore, attraverso una non irragionevole opera di bilanciamento fra i valori costituzionali e di commisurazione degli obiettivi conseguentemente determinati sulla falsariga delle risorse esistenti, predisponga adeguate possibilità di fruizione delle prestazioni sanitaria (cfr., ex plurimis, sentenza n. 432 del 2005, n. 304 e 218 del 1994, n. 247 del 1992, n. 455 del 1990). Peraltro, proprio in attuazione del principio del supremo interesse della collettività alla tutela della salute, consacrata come fondamentale diritto dell’individuo dall’art. 32 Cost., «l’infermo assurge, nella nuova concezione della assistenza ospedaliera, alla dignità di legittimo utente di un pubblico servizio, cui ha pieno ed incondizionato diritto, e che gli vien reso, in adempimento di un inderogabile dovere di solidarietà umana e sociale, da apparati di personale e di attrezzature a ciò strumentalmente preordinati e che in ciò trovano la loro stessa ragion d’essere» (sentenza n. 103 del 1977). In tale quadro di riferimento, dunque, sarebbe davvero eccentrico continuare a rinvenire nella sola scriminante del consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 cod. pen., la base di semplice “non antigiuridicità” della condotta del medico; e ciò anche senza evocare le problematiche frizioni che una siffatta, angusta prospettiva, potrebbe comportare rispetto ai limiti tracciati dall’art. 5 del codice civile, il cui archetipo e la cui ratio di norma precostituzionale, si saldavano all’esigenza di circoscrivere il diritto dell’individuo di poter fare illimitato “mercimonio” del proprio corpo. E’ infatti significativa, a tal proposito, la circostanza che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 471 del 1990, nella quale ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 696, primo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non consentiva di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell’istante, ebbe a fornire una ricostruzione del valore costituzionale dell’inviolabilità della persona come “libertà”, nella quale è postulata e attratta la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo. Il che ha consentito alla dottrina di desumere che l’entrata in vigore della Carta costituzionale avrebbe prodotto “modifiche tacite” all’art. 5 cod. civ., in particolare attraverso la sostituzione del concetto statico di integrità fisica, con quello dinamico di salute, di cui all’art. 32 Cost., riconducendo, poi, il concetto ed il limite dell’ordine pubblico ai principi generali dell’ordinamento, come tali non superabili dal singolo, così come enucleati dalla stessa Carta fondamentale. Con l’entrata in vigore della Costituzione, pertanto, e con l’affermarsi del principio personalista ivi enunciato, la quaestio relativa alla portata dell’art. 5 del codice civile non andrebbe più impostata in termini di “potere” di disporre, ma di “libertà” di disporre del proprio corpo, stante il valore unitario e inscindibile della persona come tale; e, quindi, in termini di libertà di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono e interessano il proprio corpo. L’attività sanitaria, pertanto, proprio perchè destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare – in tal modo – la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall’art. 2 della Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come “costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo. D’altra parte, non è senza significato la circostanza che l’art. 359 cod. pen. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in sè, “di pubblica necessità», abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico, ancorchè attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il paziente. Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale essendo, per quel che si è detto, la fonte che “giustifica” l’attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso, come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica). Come, quindi, l’attività del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare personale non potrà integrare il delitto di sequestro di persona, e ciò non perchè la sua condotta è “scriminata” “semplicemente” dall’art. 51 cod. pen., ma in quanto direttamente “coperta” dall’art.13 Cost., allo stesso modo può dirsi “garantita” dalla stessa Carta l’attività sanitaria, sempre che ne siano rispettate le regole ed i presupposti. 5. – Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dalla legge, secondo quanto previsto dall’art. 32, secondo comma, Cost. e dal diritto alla salute, inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che “giustifica” il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone. Presupposto, anche questo, che rinviene base precettiva, e, per così dire, “costitutiva”, negli stessi principi dettati dalla Carta fondamentale. Sul punto, basterà richiamare una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), nella quale la tematica del consenso informato è stata scandagliata ex professo, offrendosi dell’istituto del consenso al trattamento medico un quadro definitorio dettagliato e del tutto sintonico con gli approdi cui era già pervenuta, come si è fatto cenno, la giurisprudenza di questa Corte. Il Giudice delle leggi ha infatti avuto modo di puntualizzare che il «consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”». D’altra parte, ha osservato la Corte, anche numerose fonti internazionali prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti sanitari. Così, «l’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, premesso che gli Stati aderenti “riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione”, dispone che “tutti i gruppi della società in particolare i genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore”». A sua volta, ha rammentato ancora la Corte, «l’art. 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145 (seppure ancora non risulta depositato lo strumento di ratifica), prevede che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato”; l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, sancisce, poi, che “ogni individuo ha il diritto alla propria integrità fisica e psichica” e che nell’ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”». «La necessità che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico – ha ancora precisato la Corte – si evince, altresì, da diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche: ad esempio, dall’art. 3 della legge 21 ottobre 2005, n. 219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati), dall’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), il quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto dalla legge». La circostanza, dunque, che il consenso informato trovi il suo fondamento direttamente nella Costituzione, e segnatamente negli artt. 2, 13 e 32 della Carta, pone in risalto – secondo il Giudice delle leggi – la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: «quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Discende da ciò – ha concluso la Corte – che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale». 6. – I principi enunciati dalla Corte costituzionale, scolpiti, alla luce della pluralità di fonti che concorrono a rafforzarne gli enunciati, rappresentano, dunque, la ineludibile base precettiva sulla quale poter configurare la legittimità del trattamento sanitario in genere e della attività medico-chirurgica in specie: con l’ovvia conseguenza che, ove manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare. Ed è proprio in quest’ultima prospettiva che assume uno specifico risalto la normativa – non poco evolutasi nel corso del tempo – elaborata dagli organismi professionali in campo di deontologia medica; giacchè da essa, per un verso, si chiarisce la portata del “circuito informativo” che deve collegare fra loro medico e paziente, in vista di un risultato che – riguardando diritti fondamentali – non può non essere condiviso; e, dall’altro lato, è destinata a concretare, sul terreno del diritto positivo, le regole che costituiscono il “prescrizionale” per il medico, e la cui inosservanza è fonte di responsabilità, non necessariamente di tipo penale. A seguito, infatti, della Convenzione di Oviedo, anche il codice deontologico, approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri il 3 ottobre 1998, ha proceduto ad una revisione del concetto di consenso informato, elaborando una definizione dello stesso più in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione. L’art. 30 del nuovo codice, infatti, ha previsto che il medico debba fornire al paziente «la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate». Dietro esplicita richiesta del paziente, inoltre, il medico dovrà fornire tutte le ulteriori informazioni che gli siano richieste. L’art. 32 ha a sua volta stabilito che il medico non debba intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente; con l’ulteriore necessità della forma scritta per la manifestazione di tale consenso nell’ipotesi in cui la prestazione da eseguire comporti possibili rischi per l’integrità fisica del soggetto. L’art. 34 ha infine stabilito che il «medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona». Da simili principi, profondamente innovativi rispetto a quelli enunciati nel precedente codice del 1995, si è tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione della attività del medico come promanante da soggetto detentore di una “potestà” di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che è stata definita come una sorta di “alleanza terapeutica”; in sintonia, d’altra parte con una più moderna concezione della salute, che trascende dalla sfera della mera dimensione fisica dell’individuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica. Simili risultati sono stati poi ribaditi anche nel successivo codice deontologico, approvato dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006, ed il cui art. 35 conferma, appunto, che il «medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente», aggiungendo – quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio della attività medica – che «in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona». Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere, l’ipotesi controversa, sulla quale occorre soffermarsi, riguarda invece il caso in cui, anche se “in assenza” di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente. E ciò perché, non necessariamente il mancato rispetto delle regole di deontologia medica e degli stessi principi affermati in tema di consenso informato dalla Corte costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di legittimità determinano la automatica applicabilità delle fattispecie penali che, “tradizionalmente”, sono state evocate a tale riguardo. Occorre, infatti, verificare se quelle fattispecie, pur nell’ambito – e nei limiti – di un percorso ermeneutico che adegui la peculiarità del caso alla struttura delle norme (certo “pensate” per altri fini), siano o meno suscettibili di “attrarre” nella propria sfera precettiva il “fatto” di cui qui si tratta, senza debordare dai confini entro i quali è consentita l’interpretazione nel campo del diritto penale sostanziale. 7. – In tale cornice, occorre, dunque, preliminarmente esaminare se – con riferimento alla particolare vicenda che qui rileva - il mutamento del tipo di intervento operatorio, effettuato (in ipotesi) senza che tale variatio fosse stata in precedenza assentita dal paziente, malgrado il relativo esito fausto, integri o meno il delitto di violenza privata che i giudici del doppio grado di merito hanno ritenuto di ravvisare nella specie, riqualificando in tal senso l’originaria imputazione di lesioni personali volontarie aggravate. Al riguardo, non può non rilevarsi come gli orientamenti giurisprudenziali che si sono espressi a favore di tale impostazione hanno scarsamente approfondito il tema, mettendo piuttosto in luce il fatto che l’assenza del consenso comprometterebbe, non il valore della integrità fisica in sè, quanto, piuttosto, quello della libera formazione del volere: con la conseguenza di ritenere per questa via praticabile la soluzione della violenza privata, non tanto sulla base di argomentati rilievi circa la conformità del “fatto” al tipo normativo, quanto per la ritenuta “ontologica” incompatibilità che è dato ravvisare tra l’attività medico-chirurgica e il reato di lesioni volontarie. Assai più articolata è, invece, la posizione della dottrina. A proposito, infatti, del problema della sottoposizione del paziente ad un intervento chirurgico diverso da quello che questi aveva in precedenza autorizzato – paziente che dunque versa in stato di completa incoscienza per effetto della anestesia totale praticatagli – si è osservato che, a differenza di quanto stabiliva l’art. 154 del codice Zanardelli (e sulla base del quale era stata elaborata una antica e autorevole dottrina), nell’art. 610 del codice vigente la violenza non sarebbe più posta in rapporto con una perturbazione dell’altrui libera formazione del volere, ma con un comportamento concreto – di azione, di tolleranza o di omissione – non voluto dal soggetto passivo. Considerato, quindi, che la “violenza” non richiederebbe alcuna mediazione intellettiva da parte di chi la subisce e che essa è concepibile anche nei confronti di un soggetto incapace di dissentire o consentire – come, appunto, il soggetto anestetizzato – si afferma che il chirurgo, nell’eseguire un intervento diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente, per tale via tenendo una condotta “violenta”, integrante una vis absoluta, perchè il paziente, per le condizioni nelle quali si trova, non può opporre alcuna resistenza. Tale tesi non può essere condivisa. Al riguardo, va infatti rammentato, anzitutto, che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto modo di puntualizzare che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione ed azione, ben potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v. in tal senso, Cass., Sez. V, 18 dicembre 2002, n. 5407/03, De Bortolo; Sez. V, 17 giugno 2002, n. 30175, P.G. in proc. Rossello; Sez. V, 16 maggio 2002, n. 24175, P.G. in proc. Cardilli). E si è pure puntualizzato, in proposito, che l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 610, cod. pen., è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una determinata cosa. L’azione o l’omissione, che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, devono però essere determinate, poichè, ove manchi questa determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia, molestie, ingiuria, ma non quello di violenza privata (Cass., Sez. V, 18 aprile 2000, n. 2480, P.M. in proc. Ciardo). D’altra parte, versandosi, nella specie, in una ipotesi di violenza personale “diretta”, deve convenirsi con quanti ritengono che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata nella idea della aggressione “fisica”; vale a dire nella lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni più direttamente attinenti alla dimensione fisica della persona, quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di movimento del soggetto passivo. Il che sembra rendere del tutto impraticabile l’ipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nella specifica ipotesi che qui interessa. La violenza, infatti, è un connotato esenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui si esprime la violenza. Ma poichè, nella specie, la violenza sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poichè l’evento di coazione risiederebbe nel fatto di “tollerare” l’operazione stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di “costrizione a tollerare” rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 610 cod. pen. D’altra parte, anche il requisito della “costrizione” presenta, con riferimento alla ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro intervento chirurgico ed alla relativa anestesia, elementi di intrinseca problematicità, che vanno ben a di là della questione, dibattuta in dottrina, se i delitti contro la libertà della persona possano essere commessi nei confronti di un soggetto che versi in stato di incoscienza. Il concetto di costrizione, postula, infatti, il dissenso della vittima, la quale subisce la condotta dell’agente e per conseguenza di essa è indotta a fare, tollerare od omettere qualche cosa, in contrasto con la propria volontà. Nei confronti del paziente anestetizzato pleno iure, perchè nel quadro di un concordato intervento terapeutico, il chirurgo che si discosti da quell’intervento e ne pratichi un altro potrà dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella condizione di “incapacitazione” del paziente, ma non certo di “costrizione” della sua volontà, proprio perchè, nel frangente, difetta quel requisito di contrasto di volontà fra soggetto attivo e quello passivo che costituisce presupposto indefettibile, insito nel concetto stesso di coazione dell’essere umano, “verso” (e, dunque, per realizzare consapevolmente) una determinata condotta attiva, passiva od omissiva. Va inoltre considerato – come la difesa dell’imputato ha puntualmente messo in luce nella memoria difensiva – che la non riconduciblità nel perimetro applicativo dell’art. 610 cod. pen., della condotta del chirurgo che “approfitti” della condizione di anestetizzato del paziente per mutare il tipo di intervento chirurgico concordato, si desume, univocamente, anche dalle precise scelte legislative operate in riferimento alla fattispecie, strutturalmente “omologa”, dettata dall’art. 609-bis cod. pen. In essa, infatti, il legislatore ha ritenuto di introdurre una espressa equiparazione normativa tra l’ipotesi di costringimento, con violenza o minaccia, a subire atti sessuali, e l’ipotesi del compimento dell’atto sessuale «abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa»: eventualità, quest’ultima, che certamente si realizza anche nell’ipotesi in cui la vittima sia – come nel caso di paziente anestetizzato – in condizioni di totale incoscienza. Ciò sta dunque a significare che lo stesso legislatore, nel dettare la disciplina relativa ad altra ipotesi di violenza personale, ha dovuto dettare una apposita disposizione per equiparare condotte evidentemente fra loro non sovrapponibili, così da escludere che l’approfittamento della condizione di incapacità, possa, naturalisticamente e giuridicamente, equivalere ad un fatto di per sè integrante violenza. Per altro verso, una ulteriore conferma della impraticabilità della tesi che ritiene configurabile, nella specie, il delitto di violenza privata, può desumersi pure dalle prospettive coltivate al riguardo de iure condendo. E’ significativo, infatti, che nella bozza di articolato presentata il 25 ottobre 1991 dalla Commissione istituita dal Ministro della Giustizia con decreto dell’8 febbraio 1988 per la predisposizione di un disegno di legge delega per l’emanazione di un nuovo codice penale (cosiddetta Commissione Pagliaro) si sia avvertita la necessità di prevedere, all’ art. 70, comma 1, n. 4), una specifica disposizione, nel capo relativo ai reati contro la libertà morale (ma in piena autonomia – ed è proprio questo l’aspetto che qui rileva – dal delitto di violenza privata, previsto nel punto n. 1) - destinata a porre come direttiva la previsione, quale delitto, della «attività medica o chirurgica su persona non consenziente, consistente nel compimento di un’attività medica o chirurgica, anche sperimentale, su una persona senza il consenso dell’avente diritto (e sussistente se il fatto non costituisce un reato più grave). Escludere la punibilità – prevedeva ancora la ipotesi di norma di delega – quando il fatto comporti vantaggi senza alcun effettivo pregiudizio alla persona». L’esistenza, quindi, di un “vuoto normativo” da colmare era stata sin da quell’epoca lucidamente avvertita. 8. – Esclusa, quindi, la possibilità di ritenere integrato, nel caso di specie, il delitto di violenza privata, occorre esaminare quella che è stata ritenuta per lungo tempo l’alternativa “naturalisticamente” privilegiata: vale a dire il reato di lesioni di cui all’art. 582 cod. pen. E ciò non solo per completare la risposta al quesito in ordine al quale queste Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi; ma anche perchè la tematica è stata direttamente trattata nel procedimento a quo, in quanto il delitto originariamente contestato all’imputato era stato proprio il reato di lesioni personali volontarie aggravato. Ebbene, una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie, e l’elemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie. Una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”. Ciò non esclude, però, che l’atto chirurgico integri – ove isolato dal contesto del trattamento medico-terapeutico - la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente: in una parola, al consenso informato, che compone la “istituzionalità” della condotta “strumentale” del chirurgo, costretto a “ledere” per “curare”. Il versante problematico si sposta, dunque, dalla antigiutidicità, derivante dal mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito, alla “tipicità” delle lesioni dell’intervento in sè e delle conseguenze che da tale intervento sono scaturite: giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 cod. pen., a venire seriamente in discussione. La questione, pertanto, finisce per coinvolgere direttamente la disamina della nozione stessa di “malattia”, ai sensi dell’art. 582 cod. pen., giacchè anche a questo riguardo le interpretazioni offerte da giurisprudenza e dottrina si sono non poco evolute nel corso del tempo. Per lungo tempo, infatti, specie in giurisprudenza, il concetto di malattia ha fortemente risentito di quanto era stato al riguardo precisato nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, giacchè in essa si era puntualizzato che era stato fatto uso della «espressione , correttamente scientifica, di malattia, anzichè quella di danno nel corpo o perturbazione della mente, [ l’art. 372 del codice Zanardelli, puniva, infatti, a titolo di lesione personale, la condotta di chi, «senza il fine di uccidere, cagiona ad alcuno un danno nel corpo o nella salute o una perturbazione nella mente»], giacchè una malattia è indistintamente qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorchè localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali». Simile approccio definitorio è stato, infatti, pedissequamente recepito dalla giurisprudenza di legittimità, rimasta, sino ad epoca recente, consolidata nell’affermare che, in tema di lesioni personali volontarie, costituisce malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorchè localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando è in atto il suddetto processo di alterazione, malgrado il ritorno della persona offesa al lavoro (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. V, 2 febbraio 1984, n. 5258, De Chirico; Sez. V, 14 novembre 1979, n. 2650, Miscia; Sez. I, 30 novembre 1976, n. 7254, Saturno; Sez. I, 11 ottobre 1976, n. 2904, Carchedi). Sul punto, però, non può non convenirsi con quanti ritengono che il concetto di “malattia”, più che evocare l’impiego di un elemento descrittivo della fattispecie, rinvia ad un parametro normativo extragiuridico, di matrice chiaramente tecnico-scientifica, tale da far sì che il fenomeno morboso, altrimenti apprezzabile da chiunque in termini soggettivi e del tutto indistinti, presenti, invece, i connotati definitori e di determinatezza propri del settore della esperienza – quella medica, appunto - da cui quel concetto proviene. Poichè, dunque, la scienza medica può dirsi da tempo concorde – al punto da essere stata ormai recepita a livello di communis opinio – nell’intendere la “malattia” come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo, ne deriva che le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di “malattia”, correttamente intesa. Pertanto, la semplice alterazione anatomica non rappresenta, in sè, un presupposto indefettibile della malattia, giacchè ben possono ammettersi processi patologici che non si accompagnino o derivino da una modificazione di tipo anatomico, così come, all’inverso, una modificazione di quest’ultimo tipo che non determini alcuna incidenza sulla normale funzionalità dell’organismo si presenta, secondo tale condivisibile impostazione, insuscettibile di integrare la nozione di “malattia”, quale evento naturalistico del reato di cui all’art. 582 cod. pen. Per altro verso, non è senza significato la circostanza che nel codice, la lesione non sia definita in sè – quale semplice “rottura” della unità organica – ma in relazione all’”evento” che essa deve determinare: e cioè, appunto, una “malattia” del corpo o della mente. La circostanza, quindi, che la malattia può riguardare tanto l’aspetto fisico che quello psichico dell’individuo, e poichè tali due aspetti sono stati fra loro alternativamente considerati dal legislatore (attraverso l’uso della disgiuntiva “o”), se ne può desumere che, unitario dovendo essere il concetto di malattia e considerato che non può evocarsi una alterazione “anatomica” della mente, l’unica alterazione che è possibile immaginare, come comune ai due accennati aspetti, è proprio – e soltanto – quella funzionale. D’altra parte, il concetto stesso di “durata” della malattia - sulla cui base è parametrata la procedibilità e la gravità del reato - non può che confermare una propensione al recepimento normativo della nozione “funzionalistica” della malattia, del tutto in linea con i tradizionali approdi definitori cui è pervenuta, anche se con varietà di accenti, la medicina legale. A tale impostazione mostra, d’altra parte, di aderire anche un significativo filone di giurisprudenza di questa Corte, attento a ricondurre il concetto di “malattia” nell’ambito di un paradigma di offensività strutturalmente coeso con la nozione scientifica del concetto stesso, secondo la dichiarata intentio legis fatta palese dal Guardasigilli, nella richiamata Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, ma poi “tradita” nel contenuto definitorio trasfuso in quel documento e supinamente recepito dalla giurisprudenza prevalente. Una prima, sensibile innovazione interpretativa rispetto alla tesi tradizionale è stata, infatti, offerta dalla sentenza Sez. IV, 14 novembre 1996, n. 10643, P.C. in proc. Francolini, ove si è affermato che il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte. Deriva da ciò – ha concluso la pronuncia – che non costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità. In linea con simili affermazioni si collocano anche Sez. V, 15 ottobre 1998, n. 714, Rocca, Sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 3448, Perna, e la più recente sentenza Cass., Sez. IV, 19 marzo 2008, n. 17505, Pagnani, la quale, all’esito di un percorso ricostruttivo delle diverse opinioni misuratesi sul tema, ha anch’essa conclusivamente ribadito che, ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia giuridicamente rilevante non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono in realtà anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa. Accedendo, dunque, ad una impostazione per così dire “funzionalistica” del concetto di malattia, se ne devono trarre i necessari riverberi anche per ciò che attiene all’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 582 cod. pen., giacchè, se si ritiene che non possa integrare il reato la lesione che coincida, come evento causalmente derivato, in una mera alterazione anatomica senza alcuna apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo, se ne deve dedurre che l’elemento psicologico non potrà non proiettarsi a “coprire” anche la conseguenza “funzionale” che dalla condotta illecita è derivata. Per la verità, la giurisprudenza di questa Corte si è mostrata propensa a ritenere che per la sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali non è necessario che la volontà dell’agente sia diretta alla produzione di conseguenze lesive, essendo sufficiente l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica ; basta quindi – secondo tale impostazione – il dolo generico, che deve reputarsi sussistere – sia pure nella forma eventuale – anche in ipotesi di azione commessa ioci causa allorchè l’agente abbia previsto come probabile (e quindi ne abbia accettata la verificazione concreta) l’evento lesivo (cfr., ex multis, Cass, Sez. I, 7 giugno 1996, n. 6773, P.M. in proc. Poma; Sez. VI, 13 ottobre 1989, n.3103, Lavera; Sez. V, 25 novembre 1986, n. 3038/87, Zito; Sez. V, 12 aprile 1983, n. 4419, Negovetich). Discende, poi, da tale orientamento la tesi della identità del dolo delle lesioni volontarie rispetto a quello delle percosse (Cass., Sez. V, 12 ottobre 1983, n. 9448, Ferrario; Sez. V, 3 febbraio 1984, n. 1564, Dal Pozzo). Anche a voler prescindere dalla dubbia condivisibilità teorica di siffatta ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato di lesioni volontarie, resta il fatto che essa oblitera un dato normativo di ineludibile risalto, quale è quello rappresentato dal fatto che l’evento naturalistico del delitto di cui all’art. 582 cod. pen. si compone di un frammento “definitorio” – la lesione – che si specifica in un altro evento che dal primo deriva: appunto, la malattia, a sua volta da intendersi nel senso che si è dianzi delineato. Se, dunque, si cagiona sul derma dell’individuo una soluzione di continuo che può integrare la nozione di “lesione”, ciò è ancora in conferente, sul versante del trattamento medico-chirurgico, agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione funzionale dell’organismo. Pensare che questa “conseguenza” sia estranea alla sfera dell’elemento psicologico, equivale ad estrapolare dall’evento del reato un solo elemento definitorio, frantumandone, arbitrariamente, l’unitarietà che ad esso ha ritenuto di imprimere il legislatore. Sotto questo profilo, dunque, una diversa interpretazione non solo appare inaccettabile da un punto di vista di disamina “strutturale” della fattispecie – giacchè la malattia finirebbe per atteggiarsi alla stregua di una “eccentrica” condizione obiettiva di punibilità – ma anche in grave frizione con il principio di colpevolezza, sancito dall’art. 27, primo comma, della Costituzione, per il quale – secondo la costante interpretazione ad esso data dalla Corte costituzionale (v. da ultimo, la sentenza n. 322 del 2007 e le altre ivi richiamate) – è postulato un coefficiente di partecipazione psichica del soggetto al fatto, rappresentato quantomeno dalla colpa, in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica, fra i quali non può non essere annoverata proprio la “malattia”. 9. – Alla stregua dei riferiti rilievi è dunque possibile trarre alcune conclusioni. Una prima considerazione, che appare per molti aspetti dirimente agli specifici fini che qui interessano, riguarda le peculiarità che caratterizzano, rispetto alla attività sanitaria in genere, l’intervento medico-chirurgico realizzato per fini terapeutici. In quest’ultimo frangente, infatti, la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al raggiungimento di uno specifico obiettivo “prossimo”, quale può essere, in ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico-scientifico, dell’atto operatorio in sè e per sè considerato, quanto – e soprattutto – per realizzare un beneficio per la salute del paziente. E’ quest’ultimo, infatti, il vero bene da preservare; ed è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale alla legittimazione dell’atto medico. L’atto operatorio in sè, dunque, rappresenta solo una “porzione” della condotta terapeutica, giacchè essa, anche se ha preso avvio con quell’atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti “conclusivi” che dall’intervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente che a quell’atto si è – di regola volontariamente - sottoposto. Ecco già, dunque, un primo approdo. Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento, non potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute. Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento “coatto”; sibbene, proprio perchè la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole dell’arte. E’, quindi, in questo contesto che andrà verificato l’esito, fausto o infausto, dell’intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di “malattia” di cui si è detto. E’ ben vero, a questo riguardo, che la dottrina ha puntualmente evidenziato le difficoltà che - a cagione della pluralità di considerazioni, di ordine clinico e di altro genere, che tale giudizio comporta - possono compromettere una valutazione certa e obiettiva in ordine ai risultati scaturiti, per la salute del paziente, dall’intervento medico-chirurgico. Ma si tratta di rilevi che, pur se non trascurabili, pertengono ad aspetti di merito che vanno affrontati e risolti nella competente sede. Pertanto, ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis , e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dall’atto così eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacchè l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato – nel quadro generale della “salute” del paziente – una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto. Dunque, e per concludere sul punto, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582 cod. pen, proprio per difetto del relativo “evento”. In tale ipotesi, che è quella che ricorre nella specie, l’eventuale mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello penale. Proprio sul versante della “opinabilità” della valutazione dei risultati conseguiti dall’intervento chirurgico effettuato per fini terapeutici, una parte significativa della dottrina ha fatto leva per desumere come il difetto del consenso informato allo specifico atto operatorio eseguito possa, in fin dei conti, far ritenere che il concetto stesso di “salute” e di esito più o meno fausto del trattamento chirurgico dovrebbe necessariamente postulare anche l’apprezzamento e la scelta consapevole dello stesso paziente: il quale ben può avere, della propria salute, una opinio affatto diversa da quella del medico e che, come tale, deve essere –trattandosi di diritto inviolabile della persona – adeguatamente cautelata e rispettata. Il rilievo coglie senz’altro nel segno, ma soltanto in una (auspicabile) prospettiva de iure condendo. Sul piano del fatto tipico descritto dall’art. 582 cod. pen., infatti, il concetto di malattia – e di tutela della salute – non può che ricevere una lettura “obiettiva”, quale è quella che deriva dai dettami della scienza medica, che necessariamente prescinde dai diversi parametri di apprezzamento della eventuale parte offesa. E’ evidente, comunque, che per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente, ragguagliato non soltanto alle regole proprie della scienza medica, ma anche alle alternative possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di volontà positivamente o indirettamente espresse dal paziente: ad evitare – quindi – che possa essere soltanto la “monologante” scelta del medico ad orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire, negligendo ciò che il paziente abbia potuto indicare al riguardo. Ove, invece, l’esito dell’intervento non sia stato fausto, nei sensi dianzi delineati, la condotta del sanitario, avendo cagionato una “malattia”, realizzerà un fatto conforme al tipo: e rispetto ad essa potrà dunque operarsi lo scrutinio penale, nella ipotesi in cui, difettando il consenso informato, l’atto medico sia fuoriuscito dalla innanzi evidenziata “copertura costituzionale”. Ciò non toglie, peraltro, che, nell’ambito della imputazione del fatto a titolo soggettivo – trattandosi pur sempre di condotta volta a fini terapeutici – accanto a quella logica incoerenza di siffatto atteggiamento psicologico con il dolo delle lesioni di cui all’art. 582 cod. pen., già posta in luce dalla prevalente dottrina e dai più recenti approdi giurisprudenziali di questa Corte potranno assumere un particolare risalto le figure di colpa impropria, nelle ipotesi in cui – a seconda dei casi e delle varianti che può assumere il “vizio” del consenso informato – si possa configurare un errore sulla esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo, ovvero allorchè i limiti della scriminante vengano superati, sempre a causa di un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa (artt. 55 e 59, quarto comma, cod. pen.). 10. - Può quindi concludersi nel senso che, ove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 cod. pen., che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen. Alla stregua di tali rilievi la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non sussiste.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste. Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008