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mercoledì 4 marzo 2009

IMPUGNAZIONI – RICORSO PER CASSAZIONE - ORDINANZA DEL G.I.P. CHE DECIDE SULL'OPPOSIZIONE EX ART. 263, COMMA 5 C.P.P. - MOTIVI DEDUCIBILI

IMPUGNAZIONI – RICORSO PER CASSAZIONE - ORDINANZA DEL G.I.P. CHE DECIDE SULL'OPPOSIZIONE EX ART. 263, COMMA 5 C.P.P. - MOTIVI DEDUCIBILI - RITO CAMERALE
Con la decisione in esame le Sezioni Unite, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, hanno affermato che la decisione del G.i.p., sull’opposizione proposta contro il decreto con cui il P.M. si è pronunciato sull’istanza di dissequestro (o di rilascio di copie autentiche di documenti sequestrati), è ricorribile per cassazione non soltanto per violazione del contraddittorio e delle forme di trattazione del procedimento, bensì per tutti i motivi deducibili in sede di legittimità, indicati nell’art. 606, comma primo, cod. proc. pen.. Quanto, poi, al rito camerale da seguire nel relativo giudizio di cassazione, la S.C. ha affermato che l’udienza deve svolgersi nel rispetto delle forme dell’udienza camerale non partecipata di cui all’art. 611 e non già in quelle previste dall’art. 127 cod. proc. pen

Testo Completo:
Sentenza n. 9857 del 30 ottobre 2008 - depositata il 4 marzo 2009(Sezioni Unite Penali , Presidente T. Gemelli, Relatore S. L. Carmenini)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A seguito di un controllo sull’operazione di importazione di una bolletta doganale eseguita dalla Work Studio s.n.c., l’Agenzia delle Dogane di Livorno accertava che la bolletta concerneva merce di provenienza extracomunitaria (Cina), costituita da n. 741 colli di motocicli con cilindrata inferiore a cc. 50 (cosiddette mini – moto), di cui 640 modelli WY – 708 (mini – moto a due ruote) e 96 modelli WY – 723 (mini – moto a quattro ruote, cosiddetti quadard), nonché n. 5 colli di parti di ricambio. La verifica, eseguita il giorno 3.3.2006, conduceva a rilevare che su tutti i modelli visionati era presente la marcatura CE e, su quelli recanti la sigla WY – 708 di colore bianco, era riportato il logo “46”; che legale rappresentante della società importatrice era, all’epoca del fatto, l’attuale ricorrente Paolo Manesi.Il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Livorno, al quale venivano riferiti gli accertamenti documentali, disponeva consulenza tecnica all’esito della quale elevava a carico del Manesi la doppia imputazione di falso ideologico indotto in atto pubblico (artt. 48/479 cod. pen.) e di immissione sul mercato di prodotti pericolosi ( già art. 11, comma secondo, del D.Lgs. 21 maggio 2004 n. 172, ora art. 112, comma secondo del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, c.d. “Codice del consumo”); convalidava, quindi, il sequestro della merce operato dai funzionari dell’Ufficio Dogane e, successivamente, disponeva il dissequestro dei soli containers.Sull’opposizione della difesa dell’indagato, che, a norma dell’art. 263, comma quinto, cod. proc. pen., chiedeva al competente Giudice per le indagini preliminari di revocare il sequestro e disporre la restituzione delle minimoto all’avente diritto, la richiesta di dissequestro veniva rigettata, a seguito di udienza camerale tenuta il 20 giugno 2007. Contro detta ordinanza ricorre per cassazione il difensore di fiducia del Manesi, deducendo: mancanza assoluta di motivazione su un motivo di reclamo, in relazione all’art. 606, lett. e) cod. proc. pen.; mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato in ordine ai presupposti del sequestro; nullità e/o inutilizzabilità della “consulenza tecnica” disposta dal Pubblico Ministero per mancanza assoluta di contraddittorio e violazione del diritto di difesa, nonché manifesta illogicità della motivazione sul punto; erronea applicazione al caso di specie della c.d. “Direttiva Macchine” e mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione sul punto; mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione della documentazione di conformità prodotta in udienza dall’indagato.La Quinta Sezione penale di questa Corte, assegnataria del ricorso, rilevava l'esistenza di vari contrasti di giurisprudenza relativamente al rito da seguire ed ai motivi deducibili in cassazione in caso di impugnazione dell’ordinanza emessa dal G.I.P sull’opposizione ex art. 263 c.p.p.Osservava che, malgrado gli enunciati della recentissima sentenza delle S.U. n. 7946 del 31 gennaio 2008 (Eboli, rv. 238507), restavano tuttora oggetto di contrasto due questioni, così esposte: 1) se l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari sull’opposizione proposta contro il decreto, con il quale il P.M. si è pronunciato sull’istanza di dissequestro o di rilascio di copie autentiche di documenti sequestrati, sia ricorribile solo per violazione del contraddittorio e delle forme di trattazione del procedimento, ovvero per tutti i motivi deducibili in sede di legittimità; 2) se la Corte di cassazione debba procedere in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, ovvero senza l’intervento del difensore e sulle conclusioni scritte del Procuratore generale.Il Presidente Aggiunto, al quale veniva trasmessa l’ordinanza di rimessione, fissava l'udienza del 30 ottobre 2008 per la trattazione e la decisione del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
E’ opportuno rilevare che i contrasti di giurisprudenza che hanno indotto la Sezione rimettente a demandarne la composizione alle Sezioni Unite riguardano questioni di procedura, preliminari rispetto ai motivi di ricorso.Ragioni di chiarezza metodologica rendono, quindi, necessario esaminare distintamente le due tematiche: A) le questioni relative ai contrasti di giurisprudenza; B) i motivi di ricorso.A) Le questioni relative ai contrasti di giurisprudenzaVa detto subito che si tratta di questioni di complessa composizione organica, dal momento che la tecnica legislativa in subiecta materia si presenta frammentaria ed eterogenea; per altro nella disciplina codicistica si intersecano, variamente atteggiandosi, il modello camerale tipico delineato dall'art. 127 cod. proc. pen. per le fasi procedimentali di merito, il modello camerale tipico previsto per le decisioni della Corte di Cassazione “su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento” (art. 611 c.p.p.), e taluni schemi procedimentali atipici.Al riguardo le Sezioni Unite hanno avuto modo di occuparsi ripetutamente della materia, pervenendo all’individuazione di una possibile classificazione definitoria, sotto il profilo strutturale, a seconda del differente grado di garanzia del contraddittorio che è assicurato nell’ambito dei vari modelli.La sentenza n. 26156 del 28 maggio 2003 (Di Filippo, rv 224612) ha sottolineato che <>.
Ai fini che interessano per la soluzione della prima questione controversa, va rilevato che l’ammissibilità del ricorso per cassazione - avverso l'ordinanza con la quale, ai sensi dell'art. 263, comma quinto, cod. proc. pen., il giudice per le indagini preliminari decide sull'opposizione proposta dall'interessato avverso il decreto di rigetto, da parte del pubblico ministero, della richiesta di restituzione di cose sequestrate – è stata definitivamente ritenuta e delineata da un recentissimo arresto giurisprudenziale, che si pone nel solco tracciato dalla testé riportata sentenza Di Filippo (Cass. Sez. U. anno/numero 2008/07946 rv 238507, ric. Eboli, cit.).Resta, peraltro, tuttora oggetto di contrasto l’indicata questione “se l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari sull’opposizione proposta contro il decreto, con il quale il P.M. si è pronunciato sull’istanza di dissequestro o di rilascio di copie autentiche di documenti sequestrati, sia ricorribile solo per violazione del contraddittorio e delle forme di trattazione del procedimento, ovvero per tutti i motivi deducibili in sede di legittimità”.Su detta questione giuridica si registra un netto divario nelle opzioni interpretative offerte dalle sezioni semplici di questa Corte. Secondo un orientamento, pur ammettendosi la ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso dal G.i.p. all’esito della procedura camerale prevista dall’art. 263, comma quinto, cod. proc. pen., si ritiene che, tuttavia, esistono “limiti ai motivi ed alla cognizione del giudice di legittimità, potendo con esso dedursi solo vizi di carattere procedurale, inerenti il mancato rispetto delle forme ed il principio del contraddittorio, stabiliti a pena di nullità dall'art. 127 cod. proc. pen.” (Sez. V, 8 gennaio 1996 n. 18, Telleri, Rv. 204475; Sez. V, 15 febbraio 2000 n. 779, Ramacci, Rv. 215728; Sez. II, 10 gennaio 2003 n. 18646, P.M. in proc. Barbarossa, Rv. 224620; Sez. II, 22 febbraio 2007 n. 8423, Valenti, Rv. 235844).L’opposto indirizzo ritiene, invece, che sia ricorribile in cassazione l’ordinanza del G.i.p. “non solo per la violazione delle forme di cui all'art. 127 cod. proc. pen., ma per tutti i motivi deducibili in sede di legittimità, in quanto il rinvio all'art. 127 contenuto nell'art. 263 non è limitato al rispetto delle forme, ma è generalizzato all'intera norma dell'art. 127” (Sez. II, 27 settembre 2005 n. 34626, Bigetti, rv. 232664; Sez. III, 13 giugno 2007 n. 32276, Gravero, rv. 237085).Queste Sezioni Unite ritengono di dovere adottare la soluzione prospettata da questa seconda categoria di decisioni.Il quinto comma dell’art. 263 cod. proc. pen., invero, testualmente recita che, sull’opposizione “il giudice provvede a norma dell’art. 127”; rientra, quindi, secondo la classificazione definitoria della sentenza Di Filippo, nelle norme nelle quali il riferimento al procedimento "in camera di consiglio" è rafforzato dall'espresso richiamo all’art. 127. A volere ulteriormente approfondire l’argomento pare utile ricollegarsi anche ad una più risalente decisione di queste Sezioni Unite, che, sia pure per altra questione, procedettero ad una approfondita disamina della portata del rinvio all’art. 127 c.p.p., operato da talune norme (Cass. Sez. U., 6 novembre 1992 n. 17, Bernini ed altri, rv 191786) .Da una ricognizione delle disposizioni del codice che in vario modo richiamano l'art. 127 cod. proc. pen. emerge, invero, che i richiami stessi possono essere suddivisi in due gruppi distinti, rispettivamente contrassegnati dall'impiego della formula "nelle forme previste dall'art. 127" o da altre equivalenti ("secondo le forme", "con le forme", osservando "le forme"), ovvero dalla diversa espressione "a norma dell'art. 127": al primo gruppo di norme il rinvio alle forme procedimentali previste dall’art. 127 cod. proc. pen. si accompagna molto spesso con l'espressa previsione del ricorso per cassazione, mentre nell'altro gruppo di norme (tra cui rientra l’art. 263, comma quinto, in esame) il ricorso in sede di legittimità non è contemplato esplicitamente. A ben vedere la formula "a norma dell'art. 127" è di ben più ampia portata, non soltanto sotto il profilo lessicale, rispetto all’altra (“secondo, .. nelle forme”), con la conseguenza che necessariamente si estende a tutto il contenuto dell’art. 127 e non può non ricomprendere anche il rimedio previsto dal settimo comma.Restringendo il discorso al caso che ne occupa e riprendendo le fila dei ripetuti e ricordati arresti giurisprudenziali delle Sezioni Unite è d’obbligo, quindi, affermare che alla più ampia formula deve necessariamente corrispondere l’allargamento della portata del richiamo non alle sole forme, ma all’intero contenuto definitorio del ricorso per cassazione evocato dall’art. 127, al comma settimo.Questa interpretazione pare anche l’unica costituzionalmente orientata, date le evidenti ragioni di garanzia, connesse allo specifico contenuto del tipo di provvedimento considerato, incidente su diritti soggettivi.Le obiezioni mosse a tale soluzione sottolineano che la giurisprudenza più restrittiva ha il pregio di rendere il ricorso per cassazione contro il provvedimento che decide sull'opposizione omogeneo a quello previsto ai sensi degli artt. 322 bis e 324 c.p.p., consentito solo per violazione di legge, e concludono che, ove si seguisse la tesi favorevole alla ricorribilità per cassazione per tutti i motivi previsti dall’art. 606 cod. proc. pen., si giungerebbe alla “conclusione assurda di ammettere la ricorribilità per tutti i motivi ex art. 606 c.p.p. in relazione ad un sequestro probatorio e ammetterla solo per violazione di legge in relazione ad un sequestro preventivo” (v. la stessa ordinanza di rimessione). Queste obiezioni non colgono nel segno.Pur ribadendosi che la tecnica legislativa usata si presenta frammentaria ed eterogenea, tuttavia la soluzione che si intende adottare per rispondere al primo quesito presenta una sua razionalità proprio non omologando le due fattispecie (art. 263/artt. 322 bis e 324 c.p.p.), le quali presentano “a monte” moduli procedimentali differenti: la limitazione prevista dall’art. 325, comma 1, c.p.p. (ricorribilità solo per violazione di legge) si giustifica col fatto che il provvedimento del g.i.p. (o il decreto del p.m.) deve passare prima al vaglio del giudice collegiale (tribunale della libertà), la cui sola ordinanza è ricorribile per cassazione (salvo il ricorso per saltum, rimesso per casi limitati alla libera scelta dell’interessato). Diversamente il provvedimento ricorribile per cassazione ex art. 263, comma 5, c.p.p. è un mero provvedimento del giudice su opposizione, che giustifica ampiamente l’estensione del vaglio di legittimità a tutti i vizi deducibili ex art. 606 c.p.p., alla luce del comma settimo dell’art. 127.La soluzione del primo quesito deve, pertanto, essere racchiusa nel seguente enunciato: la decisione del giudice per le indagini preliminari sull’opposizione proposta contro il decreto con il quale il p.m. si è pronunciato sull’istanza di dissequestro, o di rilascio di copie autentiche di documenti sequestrati, è ricorribile per cassazione non soltanto per violazione del contraddittorio e delle forme di trattazione del procedimento, bensì per tutti i motivi deducibili in sede di legittimità, indicati nell’art. 606, comma 1, c.p.p.Risolta la prima questione deve ora indagarsi sul rito da seguire per la decisione di detta tipologia di ricorsi, se cioè continui la vis attrattiva del richiamo all’art. 127, ovvero se debba seguirsi la scansione procedimentale prevista dall’art. 611 c.p.p. Il secondo quesito sottoposto al vaglio di queste Sezioni Unite si atteggia, invero, nel modo seguente: “ se la Corte debba procedere in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, ovvero senza l’intervento del difensore e sulle conclusioni scritte del Procuratore Generale”.Anche per la soluzione del secondo quesito giova riprendere le puntualizzazioni contenute nella più volte citata sentenza n. 26156/2003 (Di Filippo), secondo cui il modello camerale tipico previsto per le decisioni della Corte di Cassazione “su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento” (art. 611 c.p.p.), diverge dal modello camerale tipico delineato dall'art. 127 cod. proc. pen. per le fasi procedimentali di merito. Si deve quindi argomentare, in base allo specifico dettato normativo, che il quadro generale del procedimento in camera di consiglio in sede di legittimità (art. 611) si delinea con un diverso atteggiamento rispetto alla stessa denominazione adottata dal codice nella definizione del rito di camera di consiglio nella parte generale (l’articolo 127 è contenuto nel Libro secondo “Atti” – Titolo II “Atti e provvedimenti del giudice”). L’art. 611 cod. proc. pen., dunque, nel disciplinare il procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di Cassazione, stabilisce testualmente, al comma primo, che “oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge, la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell'articolo 442. Se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall'articolo 127, la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Apparentemente il vigente codice di rito non offre un’esplicita soluzione alla seconda questione giuridica, poiché non indica quale sia il rito camerale da seguire in caso di ricorso per cassazione avverso la decisione del G.i.p. emessa a norma dell’art. 263, comma quinto, cod. proc. pen. A ben vedere, però, sono proprio il tenore generale e la collocazione sistematica della norma in esame a rendere palese una soluzione derivante da una lettura piana e coerente della norma stessa.E’ bene, dunque, fissare taluni punti difficilmente contestabili: 1) il disposto dell’art. 611, comma primo, cod. proc. pen. che contempla una disciplina “non partecipata”, assicurando comunque il contraddittorio cartolare, deroga a quanto previsto dall’articolo 127 che prevede una disciplina “partecipata”. In altre parole, il disposto dell’art. 611 cod. proc. pen. ha natura di norma speciale rispetto a quella di norma generale dettata dall’art. 127 cod. proc. pen.; 2) l’art. 611 cod. proc. pen. costituisce attuazione della previsione contenuta all’art. 2, direttiva 89, della Legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81), nonché della previsione di cui all’art. 2, direttiva 95 contenente l’indicazione del “diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla Corte di Cassazione”; 3) il rito camerale di cassazione previsto dall’art. 611 cod. proc. pen. costituisce una forma specifica e generale per la sede di legittimità (“contro provvedimenti non emessi nel dibattimento”), derogatoria rispetto alla forma prevista in via generale per la sede di merito, la cui peculiarità consiste nella modalità attuativa del principio del contraddittorio (cartolare e non partecipato).Da questi enunciati discende che: la disciplina speciale, dettata per il rito camerale in cassazione, costituisce già di per sé deroga alla disciplina generale; il mero richiamo all’art. 127 riferito al procedimento incidentale di merito, se può valere a definire l’ambito di ricorribilità del provvedimento del giudice di merito, non può essere esteso meccanicamente alla procedura da seguire nella successiva fase di legittimità, la quale, “se non è diversamente stabilito”, è regolata da una specifica forma.Queste considerazioni consentono di concludere che non vi sono ragioni di ordine testuale, né di ordine sistematico o costituzionale, tali da dovere affermare che la materia oggetto del presente ricorso si sottragga al criterio dettato dall’art. 611 c.p.p. Del resto il rito camerale di cassazione è seguito per materie che sicuramente vanno a toccare diritti soggettivi, o posizioni di rilevanza anche costituzionale di valore certamente non inferiore a quello di cui si discute, per i quali il contraddittorio cartolare costituisce valido espletamento del diritto defensionale delle parti (solo a mò di esempio, v. nella legislazione speciale, la disciplina prevista in materia di misure di prevenzione - art. 4, legge 27 dicembre 1956, n. 1423; art. 3 ter, legge 31 maggio 1965, n. 575 - e quella in tema di procedimento di sorveglianza – già art. 71 ter legge 26 luglio 1975, n. 354, ora richiamata dagli artt. 677 e ss. c.p.p.). Al riguardo, infine, non pare pleonastico sottolineare che anche per il procedimento di esecuzione è stabilito che, per le impugnazioni in sede di legittimità, “si osservano … le disposizioni sul procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione” (art. 666, comma 6, c.p.p.). La conclusione di quanto sopra esposto è che al secondo quesito deve darsi la seguente risposta: ”il rito camerale da seguire in caso di ricorso per cassazione avverso la decisione del G.i.p. emessa a norma dell’art. 263, comma quinto, cod. proc. pen., deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall’art. 611 cod. proc. pen. e non già in quelle previste dall’art. 127 cod. proc. pen”. La soluzione delle questioni sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite, che avevano dato origine a contrasti di giurisprudenza, consente ora di passare all’esame delle doglianze espresse dal ricorrente nei motivi d’impugnazione, che si presentano di facile soluzione.B) I motivi di ricorsoIl ricorrente pone in questa sede quattro questioni sostanziali.La prima concerne la mancanza assoluta di motivazione del decreto del P.M. sul motivo di reclamo sulle allegazioni difensive prospettate nell'istanza di dissequestro in relazione alla tematica della normativa di sicurezza applicabile ai mezzi in sequestro.La seconda attiene alla sussistenza del reato di cui all'art. 11 co. 2 DLgs n. 172/2004 (per lo ius superveniens v. in seguito). Al riguardo si muovono due obiezioni di fondo: a) che il mancato sdoganamento della merce comporti l'insussistenza del reato in quanto, trattandosi di un'ipotesi di frode in commercio, si richiede che la merce sia posta in vendita o comunque a disposizione del pubblico ed, inoltre, che non è nella specie neanche configurabile il tentativo versandosi in ipotesi di reato contravvenzionale; b) che in nessun caso può essere richiamata la c.d. Direttiva Macchine recepita nel DPR 459/96 dai funzionari della dogana in occasione del sequestro.La terza questione concerne, invece, l'inutilizzabilità della consulenza del PM per il mantenimento del sequestro. in quanto adottata al di fuori delle regole del contraddittorio.La quarta ed ultima questione attiene, infine, alla circostanza che il GIP abbia anteposto nel suo provvedimento agli esiti documentati delle verifiche effettuate su un esemplare di minimoto del tutto identico a quelli in sequestro dall'Ente Certificazione Macchine - organismo specializzato e riconosciuto a livello europeo - quelli della consulenza del PM.
Il ricorso è inammissibile.
Per quanto concerne la prima doglianza è assolutamente prevalente l'orientamento secondo cui in tema di sequestro probatorio, le censure concernenti la legittimità, la validità e l'opportunità del sequestro, anche nel merito, possono essere fatte valere solo con la richiesta di riesame; mentre con l'opposizione avverso il provvedimento del pubblico ministero che abbia respinto l'istanza di restituzione delle cose sequestrate si fanno valere censure concernenti esclusivamente la cessazione della necessità di mantenere il sequestro a fini di prova. (ex plurimis Sez. 6, n. 4771, Costanzi, rv 200885; Sez. 4, n. 749 del 14/03/1997, Caruso e altro; Sez. 5, n. 779 del 15/02/2000, Ramacci rv. 215728).E sotto quest'ultimo profilo l'ordinanza impugnata certamente assolve all'onere motivazionale già facendo riferimento alla necessità di sottoporre a perizia le macchine in considerazione del fatto che l'art. 262 comma 1 del codice prevede la restituzione delle cose sequestrate, tra cui anche quelle che costituiscono corpo del reato, quando "non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova", il che vale a fortiori nel caso in cui, come nella specie, si contesta, tra l'altro, anche l'utilizzabilità dei risultati ottenuti dal PM attraverso i suoi consulenti.Sulla seconda questione è da puntualizzare in premessa che il D. lgs. n. 172/2004 (già succeduto al Dlgs 115/95) è stato in realtà abrogato dall'art. 16 del DLgs 206/2005. Poiché tuttavia il comma 2 dell'art. 112 del citato D. Lgs. continua a prevedere la medesima fattispecie e l'identica sanzione dell'abrogato art. 11 DLgs 172/2004, facendo riferimento al produttore che immette sul mercato prodotti pericolosi, è da ritenere che la nuova disposizione si ponga in rapporto di continuità normativa con la precedente.
E del resto, proprio sul rilievo della identità della fattispecie regolata dalle disposizioni succedutesi nel tempo, il rapporto di continuità normativa era stato da questa Corte già riconosciuto anche tra l'art. 10, D. Lgs. 17 marzo 1995 n. 115 (concernente l'attuazione della direttiva 92/59/CEE relativa alla sicurezza dei prodotti), e l'art. 11, comma secondo, D. Lgs. 21 maggio 2004 n. 172, che, per effetto dell'intervenuta abrogazione del D. Lgs. n. 115, aveva continuato a prevedere come reato la condotta indicata (Sez. 3, ordinanza n. 3370 del 12/01/2005 rv. 230971).
E' poi evidente che lo scopo principale della normativa in esame è quello di dare concreta attuazione alle direttive comunitarie relative alla sicurezza generale dei prodotti anticipando per quanto possibile la fase di vigilanza in aderenza al principio di precauzione recepito dalla normativa comunitaria nei D. Lgs. in esame.Ed infatti le disposizioni penali citate si rivolgono direttamente alla figura del produttore, cui viene assimilata quella dell'importatore del prodotto nel caso in cui manchi un rappresentante del produttore stesso (art. 3 comma 1 D. lgs. n. 206 del 2005, che ha sostituito l'abrogato art. 2 co. 1 D. lgs. 172/04).
Ferme le considerazioni che precedono, occorre tuttavia rilevare che entrambe le questioni dedotte dal ricorrente in ordine alla sussistenza del reato non possono essere in questa sede esaminate. Valgono in proposito le considerazioni già svolte circa i limiti alle censure che possono essere fatte valere con l'opposizione avverso il provvedimento del pubblico ministero che abbia respinto l'istanza di restituzione delle cose sequestrate e va anche aggiunto che, in ogni caso, non è comunque ravvisabile nella specie un interesse specifico del ricorrente alla pronuncia sulle questioni dedotte in quanto, risultando il sequestro disposto anche per altro reato (48 - 479 cod. pen.), e non essendo state sollevate questioni in merito, in nessun caso si potrebbe addivenire alla restituzione dei beni in sequestro.E' nella fase di merito che dovranno essere affrontate dunque le questioni relative al mancato sdoganamento dei motoveicoli (questione sin qui, invero, oggetto di esame da parte della Corte con specifico riferimento alla diversa fattispecie dell'art. 517 cod. pen. che contempla il reato di vendita di prodotti con segni mendaci) o sull'applicabilità della direttiva CE n. 98/37 - c.d. direttiva macchine- che già sostituiva la direttiva 89/322/CE recepita con il DPR 459/96- a sua volta sostituita dalla direttiva 2006/42/CE, entrata in vigore il 29 giugno 2006, con obbligo di recepimento entro il 29 giugno 2008, le cui disposizioni, ulteriormente restrittive rispetto a quelle contenute nella direttiva 98/37, si applicheranno comunque dal 29 dicembre 2009.Per quanto concerne la terza questione non si intende la ragione del rilievo essendo quelli disposti dal P.M. accertamenti ripetibili che in nessun modo richiedono per la loro validità il rispetto delle forme garantite indicate dall'art. 360 cod. proc. pen.Infine, investe direttamente profili di merito e non di legittimità la questione concernente la valutazione circa la rilevanza della documentazione in atti.Tutte le considerazioni fin qui svolte, sia nel contesto motivazionale generale, sia in relazione ai singoli motivi di ricorso conducono a ritenere quest’ultimo manifestamente infondato, quindi inammissibile.
A mente dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, fissata in via equitativa, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di 1.000,00 (mille) euro, non emergendo ipotesi di esenzione da colpa (Corte Cost. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma di 1.000,00 euro.