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Sentenze e massime della Corte di Cassazione - Ultimi orientamenti giurisprudenziali.
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martedì 29 aprile 2008

DIRITTO D’AUTORE, MARCHI E BREVETTI - EFFETTI DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA 8.11.2007, SCHWIBBERT

DIRITTO D’AUTORE, MARCHI E BREVETTI – REATI CONCERNENTI SUPPORTI PRIVI DI CONTRASSEGNO SIAE – EFFETTI DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA 8.11.2007, SCHWIBBERT

Con la decisione in oggetto la Corte torna a valutare, successivamente alle plurime decisioni della terza sezione depositate il 2 aprile 2008 e in maniera parzialmente difforme dalle stesse, gli effetti, sui reati essenzialmente previsti dagli artt. 171 bis e ter della legge n. 633 del 1941, della sentenza della Corte di Giustizia C. E. 8/11/2007, Schwibbert, secondo cui le disposizioni nazionali che hanno stabilito, successivamente all’entrata in vigore della direttiva comunitaria n. 189 del 1983, l’obbligo di apporre sui supporti il contrassegno Siae, costituiscono una regola tecnica che, ove non notificata alla Commissione, è inopponibile al privato. La Corte, in particolare, pur muovendo dal presupposto, comune alle altre decisioni, che il contrassegno Siae relativo a supporti non cartacei risulta introdotto nell’ordinamento italiano da norme successive all’approvazione della citata direttiva, e non comunicate, quanto meno sino alla data della sentenza della Corte di Giustizia, alla Commissione, ha tuttavia ritenuto che la non opponibilità ai privati di dette norme debba comportare l’assoluzione dell’imputato non già “perché il fatto non sussiste” ma “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”; ha altresì precisato, anche in tal caso difformemente dall’indirizzo della terza sezione, che in ordine ai reati aventi invece ad oggetto supporti illecitamente duplicati o riprodotti, e che, non prevedendo come elemento essenziale tipico la mancanza del contrassegno (come il reato ex art. 171 ter, comma primo, lett. c), restano punibili, come alla mancanza del contrassegno non si possa attribuire alcun valore, neppure meramente indiziario, circa la illecita duplicazione o riproduzione. Ha infine chiarito che ove il ricorso per cassazione fosse inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi, ciò non impedirebbe (difformemente in particolare da quanto affermato dalla sentenza n. 13853) la possibilità di adottare, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’immediata declaratoria di annullamento della sentenza impugnata per mancata previsione, sin dall’origine, come reato, del fatto stesso.

Testo Completo:
Sentenza n. 21579 del 6 marzo 2008 - depositata il 29 maggio 2008(Sezione Settima Penale, Presidente B. Rossi, Relatore A. Franco)


LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO - Sentenza n. 8800 del 4 aprile 2008

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO - Sentenza n. 8800 del 4 aprile 2008
In caso di licenziamento illegittimo, seguito da declaratoria di illegittimità e ordine di reintegrazione, il datore di lavoro deve assolvere l'obbligazione contributiva per la quota a proprio carico e per quella a carico dei lavoratori, trattandosi di una pena privata giustificata dall'intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, di un pagamento di importo superiore all'ammontare del mero risarcimento del danno.



Ordinanza n. 10817 del 29 aprile 2008 - RICORSO PER CASSAZIONE – PARTE CONTUMACE IN APPELLO - NOTIFICA AL PROCURATORE DEL PRIMO GRADO – NULLITA’

PROCESSO CIVILE – RICORSO PER CASSAZIONE – PARTE CONTUMACE IN APPELLO - NOTIFICA AL PROCURATORE DEL PRIMO GRADO – NULLITA’

Ordinanza n. 10817 del 29 aprile 2008

(Sezioni Unite Civili, Presidente V. Carbone, Relatore E. Malpica)Risolvendo il contrasto in ordine alla ricorrenza della nullità, con conseguente possibilità di rinnovazione, o della inesistenza, nell’ipotesi di notificazione del ricorso per cassazione presso il domicilio eletto in primo grado alla parte rimasta contumace in appello, le S.U. hanno affermato la nullità sulla base del principio generale della linea di demarcazione tra le due categorie, adattabile, quindi, a tutti gli atti processuali. Secondo la Corte, il vizio della notificazione in argomento non può che essere valutato come nullità perché l’atto – certamente viziato in quanto eseguito al di fuori delle previsioni dell’art. 330, commi 1 e 3, c.p.c. – può essere riconosciuto come atto appartenente a quella specifica categoria delle notificazioni, anche se non idoneo a produrre in modo definitivo gli effetti propri di quel tipo di atto.
Leggi il testo dell'ordinanza


Indipendenza della fidejussione rispetto al rapporto principale - Cassazione civile , SS.UU., sentenza 05.02.2008 n° 2655

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 5 febbraio 2008, n. 2655
Svolgimento del processo

Con atto notificato il 16/5/2005, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate proponevano ricorso contro la decisione in epigrafe indicata, chiedendone la cassazione con ogni consequenziale statuizione.
La spa Assicurazioni Generali resisteva con controricorso e depositata memoria da entrambe le parti, la controversia veniva decisa all'esito della pubblica udienza del 15/1/2008.
Motivi della decisione
Dalla lettura della sentenza impugnata, del ricorso e del controricorso, emerge in fatto che con decreto ministeriale in data 1/6/1999, la srl Dragon Sud veniva dichiarata decaduta dal contributo ricevuto per la realizzazione di un nuovo stabilimento industriale che, contrariamente all'impegno assunto, non era mai stato messo in opera perchè destinato a parco giochi.
Fallita nel frattempo la Dragon Sud, l'Ufficio di Ariano Irpino dell'Agenzia delle Entrate intraprendeva il recupero dell'erogazione iscrivendone a ruolo l'importo nei confronti della spa Assicurazioni Generali, che aveva prestato fideiussione in favore della beneficiaria.
La concessionaria Uniriscossioni notificava la relativa cartella e la spa Assicurazioni Generali la impugnava dinanzi al Tribunale di Napoli, sostenendo che la controparte non avrebbe potuto iscrivere direttamente a ruolo perchè, nel caso di specie, non si trattava di un'entrata di natura tributaria, ma di un ordinario credito di fonte privatistica, per soddisfarsi del quale avrebbe dovuto dapprima munirsi del necessario titolo.
Il giudice adito annullava la cartella ed il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate si gravavano alla Corte di appello che, tuttavia, confermava la decisione di primo grado sottolinenando, quanto all'eccezione di difetto di giurisdizione riproposta dalle Amministrazioni appellanti, che il rapporto dedotto in giudizio non aveva niente a vedere con quello (pubblicistico) di finanziamento e, quanto al merito, che in base al chiaro disposto del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, le entrate che, come quella in esame, "ave(vano) causa in rapporti di diritto privato" potevano essere "iscritte a ruolo (solo) quando risulta(va)no da titolo avente efficacia esecutiva". Il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate hanno censurato l'anzidetta decisione, deducendo con il primo motivo "Difetto di giurisdizione - Violazione degli artt. 1936 e 1944 c.c. - Omessa motivazione (in relazione all'art. 360 c.p.c., nn 1, 3 e 5)", in quanto la Corte di appello aveva ritenuto la propria giurisdizione senza considerare che avendo carattere meramente accessorio, il rapporto di garanzia era destinato a seguire le sorti di quello principale che, attenendo ad una sovvenzione pubblica, costituiva materia riservata alla cognizione del giudice amministrativo.
Con il secondo motivo il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate hanno invece dedotto la "Violazione degli L. n. 46 del 1999, artt. 17 e L. n. 449 del 1997, art. 24, comma 32, e falsa applicazione del D.Lgs. n. 76 del 1990, art. 39, comma 11 e D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, - Omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione (in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)", in quanto l'Ufficio di Ariano Irpino aveva legittimamente proceduto all'iscrizione a ruolo, perchè anche se attivata nei confronti del fideiussore, la procedura aveva per oggetto il recupero del contributo e, dunque, un'entrata di matrice indubbiamente pubblica che, di conseguenza, poteva essere riscossa senza necessità della previa formazione di un titolo esecutivo, non avendo il succitato art. 21 comportato alcuna abrogazione della normativa concernente tale tipo di entrate.
Così riassunto il contenuto del ricorso e premesso che diversamente da quanto sostenuto nella memoria di parte ricorrente non v'era bisogno d'integrare il contraddittorio nei confronti del Ministero dell'Industria (oggi dello Sviluppo Economico), in quanto la controversia riguardava unicamente la legittimità del ruolo emesso dall'Ufficio locale dell'Agenzia delle Entrate, osserva il Collegio che questa Suprema Corte ha già più di una volta affermato (C. Cass. 1996/365 e 1998/10188) che per quanto fra loro collegate, l'obbligazione principale e quella fideiussoria mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva, data l'estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia, ma anche oggettiva in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo.
Ne deriva che la disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano perciò a valere le normali regole, ivi comprese quelle sul pagamento e la giurisdizione.
Nè vale in contrario replicare che per l'Amministrazione non vi sarebbe nessuna differenza fra il rapporto intercorrente con il beneficiario del finanziamento e quello intercorrente con il fideiussore, che essendosi assunto il medesimo obbligo di restituzione gravante sul garantito, diventa suo condebitore solidale ai sensi dell'art. 1944 c.c..
L'obiezione non può essere condivisa perchè anche a prescindere da ogni considerazione sulla effettiva possibilità di equiparare la solidarietà ordinaria a quella fideiussoria, rispetto alla quale difetta quella comunione d'interessi che caratterizza la prima, rimane comunque il fatto, già puntualmente sottolineato dalla citata C. Cass. 1998/10188, che si tratta pur sempre di rapporti nettamente distinti, atteso che quello con il beneficiario riguarda i diritti e gli obblighi derivanti dalla concessione del finanziamento, mentre quello con il fideiussore trova il suo fondamento nella garanzia dal medesimo prestata ed ha per oggetto non la restituzione del contributo, ma il pagamento di una somma equivalente per l'ipotesi di mancato adempimento del debitore principale.
In applicazione dei predetti principi, che il Collegio condivide e ribadisce, va pertanto dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere dell'opposizione proposta dalla spa Assicurazioni Generali contro la cartella esattoriale notificatale dalla spa Uniriscossioni.
Il primo motivo del ricorso va, pertanto, rigettato non senza sottolineare che anche nel caso in cui si fosse voluto accedere alla tesi caldeggiata da parte ricorrente, avrebbe dovuto ugualmente concludersi per la giurisdizione dell'AGO in quanto, per giurisprudenza consolidata di queste Sezioni Unite, la posizione del beneficiario che, come la Dragon Sud, abbia ottenuto la erogazione del contributo, assume la consistenza del diritto soggettivo, che a sua volta comporta la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie relative alla decadenza, revoca o ripetizione della sovvenzione (v., tra le più recenti in tal senso, C. Cass. 2007/117 e 2007/8232).
Parimenti da rigettare è anche il secondo motivo, a proposito del quale è sufficiente rilevare che una volta riconosciuta l'applicabilità delle comuni regole all'obbligazione fideiussoria delle Assicurazioni Generali, deve per l'effetto affermarsi la impossibilità, per l'Amministrazione, di farla valere subito a mezzo d'iscrizione a ruolo, stante l'inequivoco divieto frapposto al riguardo dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 21, che per le entrate di natura privatistica, consente tale tipo di riscossione solo previa formazione di adeguato titolo esecutivo.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in complessivi 8.100,00 Euro, 100,00 dei quali per esborsi, oltre gli accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, rigetta il ricorso e condanna il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di lite, liquidate in complessivi 8.100,00 Euro, 100,00 dei quali per esborsi, oltre gli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2008.

lunedì 28 aprile 2008

Risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo

SENTENZA N. 9040 DEL 08/04/2008
La S.C. ha affermato che la possibilità di agire per il risarcimento del danno ingiusto causato da atto amministrativo illegittimo senza la necessaria pregiudiziale impugnazione dell’atto lesivo, comporta che il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento decorre dalla data dell’illecito e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento da parte del giudice amministrativo (come invece aveva affermato Sez. Un. 21/07/1999, n. 483, prima dell’affermarsi dell’orientamento giurisprudenziale contrario alla pregiudiziale di annullamento dell’atto illegittimo), non costituendo l’esistenza dell’atto amministrativo un impedimento all’esercizio dell’azione risarcitoria.

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Protezione dei dati personali

SENTENZA N. 16145 UD.05/03/2008
La Corte, con riferimento al reato di trattamento illecito di dati personali sensibili già contemplato dall’art.35 della legge n. 675 del 1996, successivamente modificato dal d. lgs. n.171 del 1998 (oggi art. 167 del codice in materia di protezione dei dati personali), precisa che il codice deontologico dei giornalisti è un atto di natura normativa, essendo pertanto vincolante ed applicabile all’attività giornalistica onde verificare la correttezza del trattamento dei dati personali e, in particolare, di quelli relativi alla salute ed alla sfera sessuale, indipendentemente da un richiamo contenuto in norme di legge. Aggiunge la Corte che dal sistema della direttiva 95/46/CE, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, e dalla costante giurisprudenza comunitaria si ricava una tutela rigida e non comprimibile dei dati concernenti la salute, sì che le norme del codice deontologico dei giornalisti devono essere interpretate nel senso che non è consentito un trattamento di tali dati se non nelle forme e nei limiti previsti dalla direttiva.

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Preliminare ad effetti anticipati - Cassazione civile , SS.UU., sentenza 27.03.2008 n° 7930

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 27 marzo 2008, n. 7930
Svolgimento del processo

O.E., con citazione del 27.4.95, conviene la S.p.A. Ice- Snei innanzi al Tribunale di Napoli e, sulla premessa del possesso esclusivo ed ininterrotto dal 5.1.68 d'un appartamento e pertinente box nell'edificio alla traversa 2 della via *** in ***, catastalmente intestato alla convenuta, chiede dichiararsi l'intervenuto suo acquisto della proprietà dell'immobile per usucapione.
Costituendosi, la convenuta S.p.A. Ice-Snei si oppone alla domanda, deducendo che l'attore aveva avuto la mera detenzione dell'immobile, consegnatogli in esecuzione d'un preliminare di vendita inter partes, appunto del 5.1.68, e chiede, in via riconvenzionale, dichiararsi la risoluzione del detto preliminare per grave inadempimento della controparte, questa avendo corrisposto sul prezzo di vendita soltanto un anticipo di L. 42.815, e, quindi, condannarsi la stessa controparte alla restituzione del bene ed al risarcimento dei danni.
Decidendo delle contrapposte domande con sentenza del 2.3.00, il tribunale adito, in accoglimento della principale, dichiara acquisita dall'attore la proprietà dell'immobile.
Tale decisione, impugnata dalla S.p.A. Ice-Snei, viene riformata con sentenza del 27.1.03 dalla Corte di Appello di Napoli, che rigetta sia la domanda principale sia quelle riconvenzionali sulla considerazione: da un lato, che l' O., a seguito del preliminare di vendita, avesse acquisito la sola detenzione dell'immobile e che i successivi comportamenti tenuti dallo stesso non fossero stati idonei a mutare detta detenzione in un possesso utile all'usucapione; dall'altro, che non avendo la S.p.A. Ice-Snei rivolto l'invito a stipulare l'atto definitivo di trasferimento a termini di contratto alla controparte, a quest'ultima non fosse addebitabile un inadempimento al preliminare neppure in relazione al mancato pagamento del prezzo convenuto.
Avverso la sentenza di secondo grado la S.p.A. Ice-Snei propone ricorso per cassazione, con atto notificato il 5.4.03, affidato a due motivi; l' O., a sua volta, propone ricorso per Cassazione, con atto notificato il 7.4.03, affidato anch'esso a due motivi; al primo ricorso l' O. resiste con controricorso del 14.5.03, contestualmente proponendo ricorso incidentale nel quale si riporta al proprio precedente ricorso; la S.p.A. Ice-Snei, a sua volta, con atto del 16.5.03, propone controricorso e contestuale ricorso incidentale, nel quale anch'essa si riporta al già proposto ricorso.
Entrambe le parti fanno seguire memoria.
La Seconda Sezione, disposta ex art. 335 c.p.c. all'udienza 13.6.06 la riunione dei ricorsi proposti in via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza, con ordinanza 19.7.06 evidenzia come la questione relativa alla qualificazione, in termini di possesso piuttosto che di detenzione, della disponibilità del bene conseguita dal promissario d'una vendita immobiliare in forza di clausola del contratto preliminare questione ritenuta propedeutica anche rispetto a quella, sollevata dal medesimo ricorrente con il secondo motivo, relativa al difetto d'integrità del contraddittorio quanto alla domanda di risoluzione del contratto, proposta in via riconvenzionale dalla controparte ed oggetto del ricorso per cassazione di quest'ultima abbia avuto soluzioni difformi nella giurisprudenza di legittimità, anche all'interno della stessa Sezione, e rimette, quindi, la causa al Primo presidente, dal quale è disposta la trattazione della questione stessa da parte di queste Sezioni Unite per la composizione del contrasto.
Motivi della decisione
Preliminarmente, devesi confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/ ICE-SNEI) e R.G. 13686/03 (ICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e con i quali, tra l'altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da considerare inammissibili.
E', infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell'ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l'ordinamento non consente il reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo il principio della cosiddetta consumazione dell'impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle disposizioni di cui all'art. 334 c.p.c., le quali operano soltanto in favore della parte che, prima dell'iniziativa dell'altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata (da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976).
Si può, quindi procedere all'esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto (R.G. n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O. c/ ICE-SNEI) incidentale.
1. - RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente, denunziando violazione del principio della domanda con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dell'onere della prova con riferimento all'art. 2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo non abbia tenuto conto della domanda di risoluzione del preliminare, siccome formulata per inadempimento della controparte non all'obbligazione di stipulare il definitivo, unica presa in considerazione nell'impugnata sentenza pur senza domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo, posta con l'art. 4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente previsto che il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento anche di una sola rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di risolvere il contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto alcun conto;
che il giudice a quo abbia escluso l'inadempimento della controparte in relazione al pagamento del prezzo convenuto nonostante questa non a-vesse fornito dimostrazione alcuna di tale pagamento.
Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di motivazione sulle questioni sollevate con il motivo precedente.
Le riportate censure - che, per connessione, possono essere trattate congiuntamente - non meritano accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili d'omessa pronunzia e d'extrapetizione.
Quanto al primo profilo, per inammissibilità: dacchè, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, l'omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 e non già in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Ciò che la ricorrente non ha fatto.
Può aggiungersi che, onde possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781 SS.UU., 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).
Anche rispetto a tali oneri la ricorrente risulta inadempiente, donde un'ulteriore ragione d'inammissibilità della censura.
Quanto al secondo profilo, per infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate, le censure d'extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano rispondenza all'esame della sentenza impugnata.
Con la quale la causa petendi della riconvenzionale in risoluzione proposta dall'odierna ricorrente è stata correttamente individuata, nel fatto che " O.E. con detto preliminare si era impegnato al pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non aveva provveduto al pagamento delle rate in cui era stato dilazionato il prezzo nè al pagamento delle rate del mutuo accollato", ma ne è stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando contrattualmente pattuita la stipulazione del definitivo nei dieci giorni dall'invito rivolto per lettera raccomandata dalla promittente venditrice al promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo, nessun inadempimento fosse imputabile al secondo "neanche in relazione al pagamento del prezzo convenuto".
In siffatto se pur sintetico iter logico-argomentativo - evidentemente ispirato al principio per cui un inadempimento del promissario acquirente all'obbligazione di pagamento del prezzo non può ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori alla stipulazione del definitivo - sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori d'interpretazione del contratto preliminare e/o d'inappropriata applicazione del richiamato principio al caso di specie, peraltro neppure accennati con i motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti vizi d'extrapetizione e di connesso difetto di motivazione.
D'altra parte, la censura neppure presenta il requisito dell'autosufficienza, ed è pertanto inammissibile, dacchè non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità, cui non è consentito l'esame diretto dell'incarto processuale se non nelle ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in condizione di valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio.
2. - RICORSO INCIDENTALE. L' O. - denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell'art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione - oltre a dolersi dell'inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso l'interversione della sua detenzione sull'immobile de quo in un possesso utile all'usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l'effetto dell'immissione nel possesso e non nella detenzione dell'immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d'interversione perchè ne avesse luogo l'usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva dall'immissione nel godimento dello stesso.
In tal senso svolgendo le proprie tesi, l' O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo - che, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente - la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte.
La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l'iter logico dell'adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, nè è subordinato all'esistenza della correlativa situazione giuridica,dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell'esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l'atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l'intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della signoria altrui).
Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto che assume d'essere possessore abbia ricevuto il godimento dell'immobile per effetto d'una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2.
Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l'animus possidendi (sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)"; che, tuttavia, proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l'applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto accessorio d'immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.
Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione, caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un'anticipazione dell'effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso faccia seguito, conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza dell'immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale.
Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il prevedervi anche l'immediata consegna del bene verso la contestuale corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare "l'effetto traslativo del diritto" proprio del definitivo.
Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l'aspetto possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono.
In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l'appunto gli effetti reali traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa convenzione.
La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d'una prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per l'una e del denaro per l'altra ma ulteriori se ne possono agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch'esse nella loro molteplicità, in ragione delle quali - tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive - le parti stesse non hanno voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.
Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari - che è quella più interessata dal fenomeno - le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell'edificio od opere di completamento dell'edificio stesso o delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l'interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l'acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest'ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita.
Dottrina e giurisprudenza, quando - sulla considerazione per cui la terminologia "promette di vendere o di acquistare" non è automaticamente indicativa d'una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell'intento di porre in essere un contratto definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto - affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l'identificazione del comune intento delle parti - diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell'art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all'insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un'ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l'adempimento dell'obbligazione del pagamento del prezzo - onde il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell'un senso piuttosto che nell'altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che, evidentemente, più non si porrebbe ove l'accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.
Viceversa, se l'accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un'indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo.
Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l'esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di per se stessi, incompatibili con l'intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente l'intento d'anticipare non gli effetti del contratto di compravendita - l'impegno alla cui futura stipulazione costituisce l'oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire - ma solo quelle prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l'oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250).
Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita - nel qual caso, d'altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d'un definitivo e non d'un preliminare - devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il possesso della res.
In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d'evidenziare - richiamando anche accreditata dottrina, per la quale "ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l'effetto di un negozio", e, perciò, "l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" - dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale", si evince ch'esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca l'esercizio, considerato che un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).
Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l'acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che l'acquisto del possesso ha luogo con l'assenso e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell'apprensione".
L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un'eccezione espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell'elaborata fictio legis, ha consentito la continuazione nell'erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall'apertura della successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto singolare ed eccezionale, l'istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.
Nè, a sostegno della tesi della possibilità d'una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi l'art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l'accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile, l'esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.
Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s'intende definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto dell'autonomia contrattuale che l'ordinamento riconosce ai privati, in ragione dellasua liceità e della sua meritevolezza.
Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un'unica convenzione, degli elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni, non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti.
Pertanto, considerato che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell'ambito d'una delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell'esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti collegati.
I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne differenziano per non essere intesi alla realizzazione d'una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d'essi autonomo e distinto caratterizzato dall'unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l'inserimento di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell'unico negozio risultantene.
Nell'una ipotesi come nell'altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto, nell'unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria dell'assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente confluiti nell'unica convenzione, cui, all'esame della volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità perseguita (teoria della prevalenza).
Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell'ipotesi del contratto complesso, i vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza dalla teoria della prevalenza, un'adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati.
La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto di stipulazioni coordinate, nell'intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall'agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell'un d'essi.
Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi.
Ond'è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale.
Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla categoria dei contratti collegati.
In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano altresì - e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo richiedano - dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico- sociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.
Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo un'autorevole opinione dottrinaria meritevole d'esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito.
Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti dall'art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un'intervenuta interversio possessionis.
Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta dev'essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
Al qual riguardo l' O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di motivazione, di non aver desunto dalle emergenze istruttorie quegli evidenti elementi costitutivi della fattispecie ch'egli ritiene vi fossero adeguatamente rappresentati.
La censura non merita accoglimento.
Per costante insegnamento di questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev'essere inteso a far valere, a pena d'inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli e-lementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe - com'è, appunto, per quello di cui trattasi - in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Nè, com'è del pari da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l'una nè l'altra gli sono richieste, rientrando nel suo potere discrezionale, a norma dell'art. 116 c.p.c., individuare le fonti del proprio convincimento, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che questo, una volta raggiunto, risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.
Nella specie, non solo il motivo, già non inteso a censurare la rado decidendi ma a prospettare una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni consentite al giudice di legittimità, è per ciò solo inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta decisione risulta logica e sufficiente, basata com'è su argomentazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio presi in considerazione e su razionali valutazioni di essi;
un giudizio operato, pertanto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.
Con il secondo motivo, il ricorrente - denunziando violazione dell'art. 102 c.p.c. - si duole che il giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del preliminare si sia svolto a contraddittorio non integro, in quanto il contratto in discussione era stato stipulato anche da suo fratello Ettore, rimasto estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d'ufficio dal giudice a quo.
La doglianza va disattesa, in quanto l' O., totalmente vittorioso sul punto essendo stata respinta l'avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in appello, difetta d'interesse ad impugnare per cassazione al riguardo se non condizionatamente all'accoglimento del ricorso di controparte, condizione che, come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata.
3. - CONCLUSIONI. Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi vanno, dunque, respinti.
Tale esito del giudizio di legittimità giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio stesso.

P.Q.M.
LA CORTE
Decidendo a Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscrittial R.G. con i numeri 13911/03 e 13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 maggio 2007.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2008.

Condominio: anche nei rapporti esterni ciascun proprietario risponde “pro quota” - Sezioni unite civili – sentenza 4 marzo – 8 aprile 2008, n. 9148

Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 4 marzo – 8 aprile 2008, n. 9148
Presidente Carbone – Relatore Corona
Pm Iannelli – difforme - Ricorrente Società Edilfast srl - Controricorrenti Rabbi ed altri

Svolgimento del processo
Con decreto 24 marzo 1884, il Presidente del Tribunale di Bologna ingiunse al Condominio di via Frassinago 15, Bologna, ed ai condomini Anna, Adriana e Alfredo Rabbi, Ugo Caraffi, Giampaolo Bertuzzi, Donata Malipiero, Adriana Testoni ed alla società I.B.O. s.r.l. di pagare alla Edilfast s.r.l. L. 66.800.276, quale residuo del corrispettivo per i lavori eseguiti nell'edificio condominiale.
Proposero opposizione con distinti atti di citazione Anna e Adriana Rabbi, le quali dedussero l'inammissibilità della duplice condanna emessa sia a carico del condominio, sia nei loro confronti in via solidale, posto che avevano adempiuto pro quota alle obbligazioni assunte nei confronti della società Edilfast; Alfredo Rabbi asserì di aver acquistato il solo diritto di usufrutto di una unità immobiliare in data 2 giugno 1993, quando i lavori commessi alla società Edilfast erano stati già ultimati: in ogni caso, trattandosi di spese riguardanti opere di manutenzione straordinaria, esse erano a carico del nudo proprietario.
Riuniti i giudizi e chiamati in causa il Condominio, i condomini Innocenzo Quarantotto, Tranquilla Biagini e la società I.b.o. s.r.l., i quali chiesero il rigetto della domanda proposta con il ricorso per ingiunzione, con sentenza 28 aprile 2000 il Tribunale di Bologna revocò il decreto; con sentenza 19 febbraio 2003, la Corte d'Appello di Bologna respinse l'impugnazione proposta dalla società Edilfast.
Ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi la società Edilfast; hanno resistito con controricorso Anna, Adriana e Alfredo Rabbi. Non ha svolto attività difensiva l'intimato Condominio via Frassinago 15, in persona dell'amministratore in carica.
La Seconda Sezione civile, con ordinanza 7 febbraio 2007, n. 2621, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, avendo ritenuto la sussistenza di un contrasto all'interno della sezione, posto che per un primo indirizzo (maggioritario) la responsabilità dei singoli condomini per le obbligazioni assunte dal condominio verso terzi avrebbe natura solidale, mentre per un secondo orientamento, decisamente minoritario, avrebbe vigore il principio della parziarietà, ovverosia dalla ripartizione tra i condomini delle obbligazioni assunte nell'interesse del condominio in proporzione alle rispettive quote.
Per la risoluzione del contrasto la causa viene alle Sezioni Unite civili.

Motivi della decisione
La società ricorrente lamenta:
1.1 con il primo motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 1115 e 1139 cod. civ., in relazione all'art. 360 n. 3, cod. proc. civ. La giurisprudenza dominante, anche successivamente all'isolata sentenza n. 8530 del 1996, che aveva affermato la parziarietà, ha sempre sostenuto e continua a sostenere la natura solidale delle obbligazioni dei condomini;
1.2 con il secondo motivo, falsa applicazione degli artt. 1004 e 1005 cod. civ., ai senso dell'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., posto che la ripartizione delle spese fra nudo proprietario usufruttuario operano nei rapporti interni e non sono opponibili al terzo creditore;
1.3 con il terzo motivo, violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., poiché la sentenza di primo grado aveva posto a fondamento della decisione ragioni diverse da quelle dedotte nell'opposizione al decreto ingiuntivo;
1.4 con il quarto motivo, omessa compensazione delle spese processuali con riferimento ad Alfredo Rabbi;
Con il quinto motivo, violazione dell'art. 91 cod. proc. civ., ai sensi degli artt. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., non sussistendo soccombenza nei confronti del Condominio, che era stato chiamato in giudizio da Alfredo Rabbi;
Con il sesto motivo, violazione dell'art. 63 disp. att., in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., non aveva tenuto conto dell'orientamento della Suprema Corte, secondo cui l'acquirente di una unità immobiliare doveva essere tenuto alle spese solidalmente al suo dante causa.
2.1 La questione di diritto, che la Suprema Corte deve risolvere per decidere la controversia, riguarda la natura delle obbligazioni dei condomini.
Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza, la responsabilità dei singoli partecipanti per le obbligazioni assunte dal "condominio" verso i terzi ha natura solidale, avuto riguardo al principio generale stabilito dall'art. 1294 cod. civ. per l'ipotesi in cui più soggetti siano obbligati per la medesima prestazione: principio non derogato dall'art. 1123 cod. civ., che si limita a ripartire gli oneri all'interno del condominio (Cass., Sez. II, 5 aprile 1982, n. 2085; Cass., Sez. II, 17 aprile 1993, n. 4558; Cass., Sez. II, 30 luglio 2004, n. 14593; Cass., Sez. II, 31 agosto 2005, n. 17563).
Per l'indirizzo decisamente minoritario, la responsabilità dei condomini è retta dal criterio dalla parziarietà: in proporzione alle rispettive quote, ai singoli partecipanti si imputano le obbligazioni assunte nell'interesse del "condominio", relativamente alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie, secondo cui al pagamento dei debiti ereditali i coeredi concorrono in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori si ripartisce tra gli eredi in proporzione alle quote ereditarie (Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530).
2.2 Per determinare i principi di diritto, che regolano le obbligazioni (contrattuali) unitarie le quali vincolano la pluralità di soggetti passivi - i condomini - occorre muovere dal fondamento della solidarietà.
L'assunto è che la solidarietà passiva scaturisca dalla contestuale presenza di diversi requisiti, in difetto dei quali - e di una precisa disposizione di legge - il criterio non si applica, non essendo sufficiente la comunanza del debito tra la pluralità dei debitori e l'identica causa dell'obbligazione; che nessuna specifica disposizione contempli la solidarietà tra i condomini, cui osta la parziarietà intrinseca della prestazione; che la solidarietà non possa ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo, in quanto il condominio non raffigura un "ente di gestione", ma una organizzazione pluralistica e l'amministratore rappresenta immediatamente i singoli partecipanti, nei limiti del mandato conferito secondo le quote di ciascuno.
La disposizione dell'art. 1292 cod. civ. - è noto - si limita a descrivere il fenomeno e le sue conseguenze. Invero, sotto la rubrica "nozione della solidarietà", definisce l'obbligazione in solido quella in cui "più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione" e aggiunge che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la totalità (con liberazione degli altri). L'art. 1294 cod. civ. stabilisce che "i condebitori sono tenuti in solido, se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente". Nessuna delle norme, tuttavia, precisa la ratio della solidarietà, ovverosia ne chiarisce il fondamento (che risulta necessario, quanto meno, per risolvere i casi dubbi).
Stando all'interpretazione più accreditata, le obbligazioni solidali, indivisibili e parziarie raffigurano le risposte dell'ordinamento ai problemi derivanti dalla presenza di più debitori (o creditori), dalla unicità della causa dell'obbligazione (eadem causa obbligandi) e dalla unicità della prestazione (eadem res debita).
Mentre dalla pluralità dei debitori e dalla unicità della causa dell'obbligazione scaturiscono questioni che, nella specie, non rilevano, la categoria dell'idem debitum propone problemi tecnici considerevoli: in particolare, la unicità della prestazione che, per natura, è suscettibile di divisione, e la individuazione del vincolo della solidarietà rispetto alla prestazione la quale, nel suo sostrato di fatto, è naturalisticamente parziaria.
Semplificando categorie complesse ed assai elaborate, l'indivisibilità consiste nel modo di essere della prestazione: nel suo elemento oggettivo, specie laddove la insussistenza naturalistica della indivisibilità non è accompagnata dall'obbligo specifico imposto per legge a ciascun debitore di adempiere per l'intero. Quando la prestazione per natura non è indivisibile, la solidarietà dipende dalle norme e dai principi. La solidarietà raffigura un particolare atteggiamento nei rapporti esterni di una obbligazione intrinsecamente parziaria quando la legge privilegia la comunanza della prestazione. Altrimenti, la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse.
È pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile. Se invece l'obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale, il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall'art. 1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell'obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte.
Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di una obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell'obbligazione come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma naturalisticamente, divisibile viene meno uno dei requisiti della solidarietà e la struttura parziaria dell’obbligazione prevale.
Del resto, la solidarietà viene meno ogni qual volta la fonte dell'obbligazione comune è intimamente collegata con la titolarità delle res.
Le disposizioni di cui agli artt. 752, 754 e 1295 cod. civ. - che prevedono la parziarietà delle obbligazioni dei coeredi e la sostituzione, per effetto dell'apertura della successione, di una obbligazione nata unitaria con una pluralità di obbligazioni parziarie - esprimono il criterio di ordine generale del collegamento tra le obbligazioni e le res.
Per la verità, si tratta di obbligazioni immediatamente connesse con l'attribuzione ereditaria dei beni: di obbligazioni ricondotte alla titolarità dei beni eredi tari in ragione dell'appartenenza della quota. Ciascun erede risponde soltanto della sua quota, in quanto è titolare di una quota di beni eredi tari. Più in generale, laddove si riscontra lo stesso vincolo tra l'obbligazione e la quota e nella struttura dell'obbligazione, originata dalla medesima causa per una pluralità di obbligati, non sussiste il carattere della indivisibilità della prestazione, è ragionevole inferire che rispetto alla solidarietà non contemplata (espressamente) prevalga la struttura parziaria del vincolo.
2.3 Le direttive ermeneutiche esposte valgono per le obbligazioni facenti capo, ai gruppi organizzati, ma non personificati.
Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nel cosiddetto interesse del "condominio" - in realtà, ascritte ai singoli condomini - si riscontrano certamente la pluralità dei debitori (i condomini) e la eadem causa obbligandi, la unicità della causa: il contratto da cui l'obbligazione ha origine. È discutibile, invece, la unicità della prestazione (idem debitum) che certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una prestazione nell'interesse e in favore di tutti condomini (il rifacimento della facciata, l'impermeabilizzazione del tetto, la fornitura del carburante per il riscaldamento etc.). L'obbligazione dei condomini (condebitori), invece, consistendo in una somma di danaro, raffigura una prestazione comune, ma naturalisticamente divisibile.
Orbene, nessuna norma di legge espressamente dispone che il criterio della solidarietà si applichi alle obbligazioni dei condomini.
Non certo l'art. 1115 comma 1 cod. civ. Sotto la rubrica "obbligazioni solidali dei partecipanti", la norma stabilisce che ciascun partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni contratte in solido per la cosa comune e che la somma per estinguerle sia ricavata dal prezzo di vendita della stessa cosa. La disposizione, in quanto si riferisce alle obbligazioni contratte in solido dai comunisti per la cosa comune, ha valore meramente descrittivo, non prescrittivo: non stabilisce che le obbligazioni debbano essere contratte in solido, ma regola le obbligazioni che, concretamente, sono contratte in solido. A parte ciò, la disposizione non riguarda il condominio negli edifici e non si applica al condominio, in quanto regola l'ipotesi di vendita della cosa comune. La disposizione, infatti, contempla la cosa comune soggetta a divisione e non le cose, gli impianti ed i servizi comuni del fabbricato, i quali sono contrassegnati dalla normale indivisibilità ai sensi dell'art. 1119 cod. civ. e, comunque, dalla assoluta inespropriabilità.
D'altra parte, nelle obbligazioni dei condomini la parziarietà si riconduce all'art. 1123 cod. civ., interpretato valorizzando la relazione tra la titolarità della obbligazione e la quella della cosa. Si tratta di obbligazioni propter rem, che nascono come conseguenza dell'appartenenza in comune, in ragione della quota, delle cose, degli impianti e dei servizi e, solo in ragione della quota, a norma dell'art. 1123 cit., i condomini sono tenuti a contribuire alle spese per le parti comuni. Per la verità, la mera valenza interna del criterio di ripartizione raffigura un espediente elegante, ma privo di riscontro nei dati formali.
Se l'argomento che la ripartizione delle spese regolata dall'art. 1123 comma 1 cod. civ. riguardi il mero profilo interno non persuade, non convince neppure l'asserto che il comma 2 dello stesso art. 1223 - concernente la ripartizione delle spese per l'uso delle parti comuni destinate a servire i condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può fame - renda impossibile l'attuazione parziaria all'esterno: con la conseguenza che, quanto all'attuazione, tutte le spese disciplinate dall'art. 1223 cit. devono essere regolate allo stesso modo.
Entrambe le ipotesi hanno in comune il collegamento con la res. Il primo comma riguarda le spese per la conservazione delle cose comuni, rispetto alle quali l'inerenza ai beni è immediata; il secondo comma concerne le spese per l'uso, in cui sussiste comunque il collegamento con le cose: l'obbligazione, ancorché influenzata nel quantum dalla misura dell'uso diverso, non prescinde dalla contitolarità delle parti comuni, che ne costituisce il fondamento. In ultima analisi, configurandosi entrambe le obbligazioni come obligationes propter rem, in quanto connesse con la titolarità del diritto reale sulle parti comuni, ed essendo queste obbligazioni comuni naturalisticamente divisibili ex parte debitoris, il vincolo solidale risulta inapplicabile e prevale la struttura intrinsecamente parziaria delle obbligazioni. D'altra parte, per la loro ripartizione in pratica si può sempre fare riferimento alle diverse tabelle millesimali relative alla proprietà ed alla misura dell'uso.
2.5 Né la solidarietà può ricondursi alla asserita unitarietà del gruppo dei condomini.
Dalla giurisprudenza, il condominio si definisce come "ente di gestione", per dare conto del fatto che la legittimazione dell'amministratore non priva i singoli partecipanti della loro legittimazione ad agire in giudizio in difesa dei diritti relativi alle parti comuni; di avvalersi autonomamente dei mezzi di impugnazione; di intervenire nei giudizi intrapresi dall'amministratore, ecc..
Ma la figura dell'ente, ancorché di mera gestione, suppone che coloro i quali ne hanno la rappresentanza non vengano surrogati dai partecipanti. D'altra parte, gli enti di gestione in senso tecnico raffigurano una categoria definita ancorché non unitaria, ai quali dalle leggi sono assegnati compiti e responsabilità differenti e la disciplina eterogenea si adegua alle disparate finalità perseguite (art. 3 legge 22 dicembre 1956, n. 1589). Gli enti di gestione operano in concreto attraverso le società per azioni di diritto comune, delle quali detengono le partecipazioni azionarie e che organizzano nei modi più opportuni: in attuazione delle direttive governative, razionalizzano le attività controllate, coordinano i programmi e assicurano l'assistenza finanziaria mediante i fondi di dotazione. Per la struttura, gli enti di gestione si contrassegnano in ragione della soggettività (personalità giuridica pubblica) e dell'autonomia patrimoniale (la titolarità delle partecipazioni azionarie e del fondo di dotazione).
Orbene, nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione - il fatto che l'amministratore e l'assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell'ente di gestione al condominio negli edifici.
Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti.
Secondo la giurisprudenza consolidata, poi, l'amministratore del condominio raffigura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza: con la conseguente applicazione, nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato.
Orbene, la rappresentanza, non soltanto processuale, dell'amministratore del condominio è circoscritta alle attribuzioni - ai compiti ed ai poteri - stabilite dall'art. 1130 cod. civ..
In giudizio l'amministratore rappresenta i singoli condomini, i quali sono parti in causa nei limiti della loro quota (art. 1118 e 1123 cod. civ.). L'amministratore agisce in giudizio per la tutela dei diritti di ciascuno dei condomini, nei limiti della loro quota, e solo in questa misura ognuno dei condomini rappresentati deve rispondere delle conseguenze negative. Del resto, l'amministratore non ha certo il potere di impegnare i condomini al di là del diritto, che ciascuno di essi ha nella comunione, in virtù della legge, degli atti d'acquisto e delle convenzioni. In proporzione a tale diritto ogni partecipante concorre alla nomina dell'amministratore e in proporzione a tale diritto deve ritenersi che gli conferisca la rappresentanza in giudizio. Basti pensare che, nel caso in cui l'amministratore agisca o sia convenuto in giudizio per la tutela di un diritto, il quale fa capo solo a determinati condomini, soltanto i condomini interessati partecipano al giudizio ed essi soltanto rispondono delle conseguenze della lite.
Pertanto, l'amministratore - in quanto non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei suoi poteri, che non contemplano la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese stabiliti dall'art. 1123 c.c. - non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti della rispettiva quota.
2.5 Riepilogando, ritenuto che la solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; che in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale; considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro; che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge e che l'art. 1123 cit., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno e quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote: tutto ciò premesso, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio dalla parziarietà. Ai singoli si imputano, in proporzione alle rispettive quote, le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio", in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Pertanto, le obbligazioni dei condomini sono regolate da criteri consimili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ., per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditali in proporzione alle loro quote e l'obbligazione in solido di uno dei condebitori tra gli eredi si ripartisce in proporzione alle quote ereditarie.
2.6 Il contratto, stipulato dall'amministratore rappresentante, in nome e nell'interesse dei condomini rappresentati e nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetti nei confronti dei rappresentati. Conseguita nel processo la condanna dell'amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli, secondo la quota di ciascuno.
Per concludere, la soluzione, prescelta secondo i rigorosi principi di diritto che regolano le obbligazioni contrattuali comuni con pluralità di soggetti passivi, appare adeguata alle esigenze di giustizia sostanziale emergenti dalla realtà economica e sociale del condominio negli edifici.
Per la verità, la solidarietà avvantaggerebbe il creditore il quale, contrattando con l'amministratore del condominio, conosce la situazione della parte debitrice e può cautelarsi in vari modi; ma appare preferibile il criterio della parziarietà, che non costringe i debitori ad anticipare somme a volte rilevantissime in seguito alla scelta (inattesa) operata unilateralmente dal creditore. Allo stesso tempo, non si riscontrano ragioni di opportunità per posticipare la ripartizione del debito tra i condomini al tempo della rivalsa, piuttosto che attuarla al momento dell'adempimento.
Respinto il motivo principale, non merita accoglimento nessuno degli altri motivi di ricorso.
Non il secondo ed il sesto. Stando alle disposizioni sul condominio (art. 67 disp. att., del resto in conformità con quanto stabilito per le spese gravanti sull'usufrutto dagli artt. 1004 e 1005 cod. civ.), fanno carico all'usufruttuario le spese attinenti all'ordinaria amministrazione ed al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni, mentre le innovazioni, le ricostruzioni e le spese di manutenzione straordinaria competono al proprietario: ma le spese fanno capo all'usufruttuario limitatamente al tempo in cui egli è titolare del diritto reale su cosa altrui. Correttamente, perciò, la Corte d'Appello non ha considerato responsabile Alfredo Rabbi, in quanto l'usufrutto da lui era stato acquistato in epoca successiva alla data, in cui l'esecuzione dei lavori era stata commissionata ed eseguita.
Non il terzo motivo, posto che il giudice del merito ha preso in esame la questione di diritto inerente alla la controversia e ritenuta indispensabile per la decisione.
Non il quarto ed il quinto motivo, in quanto la decisione sulle spese processuali è rimessa al giudice del merito, con il solo limite di non condannare la parte interamente vittoriosa.
Avuto riguardo alla difficoltà della materia ed al contrasto esistente in giurisprudenza, si ravvisano i giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese

sabato 26 aprile 2008

GIURISDIZIONE – OMESSA REGISTRAZIONE DEL LAVORATORE – SANZIONI – CONTROVERSIE – GIURISDIZIONE DEL GIUDICE TRIBUTARIO – CONTRASTO CON LA COSTITUZIONE -

ORDINANZA N. 3144 DEL 11/02/2008
Le S.U., nel ribadire che le controversie relative all’opposizione avverso l’ordinanza con cui l’Agenzia delle entrate irroga la sanzione amministrativa per l’omessa registrazione del lavoratore dipendente nelle scritture obbligatorie spettano alla giurisdizione tributaria residuale, individuata attraverso l’organo competente all’irrogazione (S.U. n. 2888 del 2006), ha escluso il contrasto con la Costituzione di tale previsione (art. 2, d.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dalla legge n. 448 del 2001) e della nuova disposizione (d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, peraltro non applicabile ratione temporis nella specie), che ha demandato l’irrogazione di tali sanzioni alla Direzione provinciale del lavoro. Rispetto alla prima ha ritenuto che, anche a voler assumere che l’art. 102 Cost. richieda che la giurisdizione tributaria attenga a controversie connesse a tributi, la sanzione in argomento ha valenza tributaria; rispetto alla seconda che non sono ravvisabili profili di incostituzionalità poiché, non essendo la giurisdizione tributaria costituzionalmente garantita, è nella facoltà del legislatore sottrarre al giudice tributario un settore della materia tributaria.
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/3144.pdf

DELITTI CONTRO LA FAMIGLIA - VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE – OMESSA PRESTAZIONE DEI MEZZI DI SUSSISTENZA IN DANNO DI PIÙ FAMILIARI

SENTENZA N. 8413 UD. 20/12/2007 - DEPOSITO DEL 26/02/2008
Le Sezioni Unite hanno chiarito che, nell’ipotesi in cui la condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza sia posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare, si configura una pluralità di reati. L’art. 570 c.p. incrimina, infatti, condotte disomogenee: soltanto in relazione a quelle di cui al primo comma (l’abbandono del domicilio domestico ovvero il tenere condotte contrarie all’ordine o alla morale delle famiglie) non è ipotizzabile una tutela differenziata dei vari componenti della famiglia (sarebbe, ad es., impossibile abbandonare il domicilio soltanto nei confronti di taluni dei coabitanti); al contrario, le condotte incriminate nel secondo comma non tutelano soltanto l’astratta unità familiare, ma anche specifici interessi economici di congiunti “deboli”, non necessariamente vulnerati in toto dalla condotta dell’agente (è ben possibile che quest’ultimo malversi o dilapidi i beni di uno soltanto dei soggetti protetti, ovvero adempia gli obblighi di assistenza economica soltanto in favore di uno o più di essi, e non anche degli altri), il che porta, in tali casi, ad escludere l’unicità del reato commesso in danno di più congiunti. In presenza di più omissioni (ad es. nel caso in cui l’agente fosse tenuto a versamenti separati), sarebbe configurabile, ricorrendone i presupposti, un reato continuato, non un concorso formale di reati.

PROCESSO CIVILE - RICORSO PER CASSAZIONE - QUESITO DI DIRITTO - INADEGUATEZZA - INAMMISSIBILITA'

SENTENZA N. 3519 DEL 14/02/2008
PROCESSO CIVILE - RICORSO PER CASSAZIONE - QUESITO DI DIRITTO - INADEGUATEZZA - INAMMISSIBILITA'
Pronunciando in ordine ad un ricorso avverso una sentenza del TSAP, la Cassazione l’ha ritenuto inammissibile per inadeguatezza dei quesiti di diritto. In riferimento al ricorso per violazione dell’art. 360, c.1, n. 1, ha rilevato la mancata individuazione della discrasia tra la ratio decidendi della sentenza impugnata, (non indicata), e il principio di diritto (non enunciato) da porre a fondamento della decisione invocata, essendosi il ricorrente limitato a prospettare genericamente la violazione dei limiti esterni della giurisdizione. In riferimento al ricorso per violazione dell’art. 360, c.1, n. 3, ha rilevato la mancata enunciazione degli errori di diritto in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, le cui argomentazioni non sono neanche richiamate.

PROCESSO - RICORSO PRINCIPALE IMPROCEDIBILE - CONSEGUENZE SUL RICORSO INCIDENTALE

Intervenendo a composizione di un contrasto, le Sezioni Unite affermano sulla base di una interpretazione logico-sistematica, che non solo quando il ricorso principale sia dichiarato inammissibile, ma anche quando esso viene dichiarato improcedibile, il ricorso incidentale ove tardivo perde ogni efficacia.

PROFESSIONI – AVVOCATI – PRATICANTI - PROCEDIMENTO DISCIPLINARE – SANZIONE DELLA SOSPENSIONE

La sanzione della sospensione applicabile ai praticanti, pur trovando attuazione attraverso differenti modalità, non è diversa dalla sospensione dell’esercizio della professione prevista per gli avvocati e può essere scontata anche dopo l’iscrizione del professionista nell’albo, atteso che l’ordinamento disciplinare della professione è unitario, come si desume dal rinvio contenuto nell’art. 58 del r.d. n. 37 del 1934, oltre che dalla funzione della pratica forense.

venerdì 11 aprile 2008

Sentenze e Massime

Ultime dalla CassazioneSentenze e massime della Corte di Cassazione - Ultimi orientamenti giurisprudenziali
E' possibile scaricare il testo completo della sentenza (in formato pdf) cliccando sul link posizionato sotto la massima